I prigionieri erano destinati alla S.A.I.M.

Il soldato William Lindsay (sulla destra) di guardia al campo di Maadi (Egitto) nel 1940-1941
(per gentile concessione della Famiglia Lindsay) – Fonte: Adolfo Zamboni, op. cit. infra
Resti della Masseria Paticchi, presso Tuturano (Brindisi),
dove nel maggio del 1941 venne allestito il campo per prigionieri di guerra PG.85
(foto Graham Lindsay, 2014) – Fonte: Adolfo Zamboni, op. cit. infra

Il poeta e scrittore neozelandese Graham Lindsay, accompagnato dalla signora Roslyn Norrie, ha visitato Codevigo, ultima tappa del suo viaggio sulle orme del padre, William Lindsay, soldato del 25° battaglione di fanteria della 2a Divisione Neozelandese, che nel 1943 come prigioniero di guerra lavorò per sei mesi a Fogolana, località ai margini meridionali della Laguna Veneta, vicino a Conche di Codevigo, e dopo esser fuggito dal campo l’8 settembre trascorse un paio di mesi alla macchia aiutato dalla gente del luogo, prima di essere catturato e inviato in lager in Germania.
[…] Dopo essere passato per i campi di raccolta e di transito di Derna e Bengasi, fu imbarcato sul mercantile “Sebastiano Venier” (chiamato anche “Jason” o “Jantzen” dagli Inglesi), diretto a Taranto con circa duemila prigionieri a bordo. Sopravvisse al naufragio della nave, che il 9 dicembre 1941 andò a incagliarsi sulle scogliere della costa greca a Methoni, 5 miglia a Sud di Navarino, con centinaia di morti e feriti fatti a pezzi nelle stive dalle esplosioni dei siluri lanciati dal sommergibile britannico N14 “Porpoise”, il cui comandante non era stato informato della presenza a bordo di propri compatrioti, che invece era ben nota all’Ammiragliato Britannico.
[…] Dalle ricerche storiche che l’ing. Zamboni va conducendo da anni, con la collaborazione anche di Mr. Lindsay, è emerso che quello del siluramento della “Sebastiano Venier” fu il primo di una serie di almeno dieci casi, poco conosciuti, di navi italiane colpite mentre trasportavano prigionieri di guerra Britannici e del Commonwealth, in cui perirono oltre duemila uomini. Quella di sacrificare quelle vite fu una dolorosa scelta fatta dal Governo Britannico nel superiore interesse della vittoria finale. Infatti l’Ammiragliato aveva dovuto decidere di tenere all’oscuro i Comandanti dei sommergibili britannici circa la presenza di propri compatrioti prigionieri su alcune delle navi Italiane di ritorno dalla Libia, mettendo così a rischio la vita di decine di migliaia di prigionieri, allo scopo di non svelare la capacità del sistema di intelligence “Ultra” di decrittare tutti i radiomessaggi cifrati degli avversari, compresi quelli della Marina italiana. Grazie a “Ultra”, che sfruttava le capacità del grande matematico Alan Turing e di uno stuolo di collaboratori e l’impiego dei primissimi calcolatori elettronici, l’Ammiragliato Britannico conosceva con sufficiente anticipo la composizione di ogni convoglio italiano, la consistenza della scorta navale e aerea, la rotta e la velocità prestabilite e il tipo di carico trasportato da ciascun mercantile, che nella traversata di ritorno verso l’Italia poteva avere nelle stive da un paio di centinaia fino a un paio di migliaia di prigionieri.

Resti delle torrette di guardia al perimetro del campo per prigionieri di guerra PG.65 di Gravina in Puglia
(Foto Adolfo Zamboni, 2013) – Fonte: Adolfo Zamboni, op. cit. infra

Trasferito in Italia, il soldato Lindsay fu rinchiuso nel campo per prigionieri di guerra denominato PG.85 di Tuturano (Brindisi), in località Masseria Paticchi, che aveva una capienza di 6.500 uomini alloggiati in baracche e tende.
Lindsay venne successivamente trasferito nel campo PG.65 di Gravina in Puglia (Bari), che con la sua capienza di 12.000 prigionieri era il più grande d’Italia.
Successivamente Lindsay fu trasferito nel campo PG.57 di Grupignano (Udine), capace di 4.600 uomini, noto per le dure condizioni di vita e la ferrea disciplina.
Infine nel marzo del 1943 il prigioniero Lindsay giunse al minuscolo campo di lavoro PG.120/VIII di Fogolana – Millecampi (un paio di chilometri a Nord Ovest di Conche di Codevigo), che dipendeva dal campo di prigionia PG.120 di Padova.
Secondo le statistiche dell’Ufficio Prigionieri di Guerra dello Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano, al 31 marzo del 1943 si trovavano in Italia 80.495 prigionieri di guerra, rinchiusi in 52 campi di prigionia (da alcuni dei quali dipendeva un certo numero di distaccamenti di lavoro) e 5 ospedali per prigionieri di guerra, distribuiti in tutto il territorio nazionale.
Dei prigionieri di guerra del Commonwealth Britannico, in gran parte catturati nel 1941-42 durante i combattimenti in Africa Settentrionale, 43.182 erano Inglesi, 12.178 Sudafricani bianchi e 2.600 di colore, 5.199 Indiani, 3.788 Neozelandesi e 2.057 Australiani.
Vi erano inoltre 2.295 Francesi-Degaullisti, 742 Statunitensi, 461 Ciprioti, 385 Mediorientali, 118 Canadesi e 44 tra Norvegesi, Polacchi, Cinesi, Svedesi e Greci. Vi erano infine i prigionieri di guerra della ex Jugoslavia, che ammontavano a 7.446.
Per completare il quadro, al 31 marzo 1943 esistevano anche 19 campi di internamento, distribuiti tra territorio nazionale, Croazia e Montenegro, in cui erano rinchiusi 23.306 civili (di cui 18.078 a scopo repressivo e 5.228 a scopo protettivo) tra Serbi, Croati, Sloveni del territorio annesso all’Italia, Albanesi, Montenegrini, Bulgari, Rumeni e Ungheresi.
Quello dei campi di prigionia e dei relativi distaccamenti di lavoro fu un sistema in continua evoluzione tra il 1941 e il 1943. Nella primavera del 1943 il numero complessivo dei prigionieri in mano italiana si era stabilizzato, a causa del declino delle fortune militari dell’Asse, mentre andava aumentando il trasferimento di prigionieri verso l’Italia settentrionale, allo scopo sia di allontanarli dalle regioni meridionali e dalle isole, dove si temevano imminenti sbarchi di truppe Alleate, che di impiegarli nei lavori agricoli in sostituzione dei molti Italiani impegnati nel servizio militare. Di conseguenza erano stati dismessi una trentina di campi e cinque ospedali per prigionieri di guerra. Inoltre, andata perduta quasi interamente l’Africa Settentrionale, erano stati dismessi anche i quindici
campi di prigionia ivi esistenti.
In questo quadro il 10 marzo 1943 il Comando Difesa Territoriale di Treviso, da cui dipendevano anche i campi di prigionia del Padovano, istituì a Fogolana il campo di lavoro PG.120/VIII, cui destinò un nucleo di sessanta soldati di truppa neozelandesi trasferendoli dal campo PG.57 di Grupignano (Udine).
I prigionieri erano destinati alla S.A.I.M. (Società Anonima Immobiliare Millecampi), la grande azienda agricola del barone Gastone Treves de’ Bonfili. Sorvegliati da quattordici soldati italiani al comando di un sergente, un caporale e un caporale interprete, i sessanta Neozelandesi, furono addetti ai lavori agricoli e alloggiati nel fabbricato sito lungo la strada che da Conche di Codevigo conduce a Fogolana,
precedentemente adibito a stalla per i cavalli del Barone.

La chiesetta costruita dai prigionieri di guerra del campo PG.57 di Grupignano (Udine)
(foto Graham Lindsay, 2008) – Fonte: Adolfo Zamboni, op. cit. infra

[…] Toccò dunque ai Comitati di Liberazione Nazionale, formatisi in quei drammatici giorni, porre l’assistenza agli ex prigionieri di guerra tra i più urgenti e importanti obiettivi. Fin dal 20 settembre 1943 il Comitato di Liberazione Nazionale di Milano incaricò l’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi di creare il “Servizio Prigionieri di Guerra” per coordinare le iniziative dei Comitati locali. Anche il C.L.N. di Padova si dedicò prioritariamente a tale assistenza fin dalla prima riunione di carattere organizzativo che fu tenuta in settembre 1943 a casa del prof. Adolfo Zamboni, membro del C.L.N. per il Partito d’Azione, la cui opera fu apprezzata alla fine conflitto dal Feldmaresciallo Alexander, Comandante supremo delle forze Alleate nel teatro di guerra Mediterraneo. Tre dei nove partecipanti a quella riunione sacrificarono la propria vita per la Patria.

Il fabbricato agricolo di Fogolana che nel 1943 fu adibito ad alloggio per i prigionieri del campo PG.120/VIII
(Foto Adolfo Zamboni, 2014) – Fonte: Adolfo Zamboni, op. cit. infra

[…] Le clausole dell’armistizio imponevano, come si è detto, al Governo italiano di salvaguardare i prigionieri di guerra e gli internati, di non trasferirli in Germania e di liberarli in caso di rischio di cattura da parte tedesca. Tuttavia, a causa del precipitare degli eventi e del repentino disfacimento delle forze armate, le direttive che il 6 settembre il Comando Supremo italiano aveva conformemente impartito ai Capi di Stato Maggiore non furono mai diramate, o non giunsero in tempo, alla maggior parte dei Comandanti dei campi di prigionia e dei loro distaccamenti.
In particolare nessun ordine giunse a Padova, dove ancora alla mattina del 10 settembre il Comandante della Zona Militare riteneva che per il momento la situazione non destasse preoccupazioni, mentre in quelle stesse ore bastarono pochi mezzi blindati tedeschi, con la solita efficienza della Wehrmacht, per circondare e occupare la caserma di Padova-Chiesanuova, sede del PG.120. In breve tempo altri piccoli reparti tedeschi si impossessarono dei distaccamenti e catturarono i prigionieri che non avevano avuto la possibilità o lo spirito d’iniziativa di disobbedire agli ordini del War Office.
[…] Intanto Radio Londra trasmetteva frequenti appelli per esortare gli Italiani a soccorrere i prigionieri in fuga, promettendo che si sarebbe tenuto conto della loro opera al tavolo della pace. In molte famiglie l’aiuto venne dato anche pensando ai mariti e ai figli prigionieri in paesi lontani. Infatti oltre un milione di militari italiani si trovavano in prigionia in quell’autunno del 1943.
Molte delle componenti della grande storia si ritrovano nella microstoria del piccolo campo di Fogolana, così come nelle storie personali dei suoi sessanta prigionieri si riflettono molti degli elementi che caratterizzarono quel tragico periodo della storia italiana tra il 1943 e il 1945.
[…] Il 12 settembre arrivò a Fogolana padre Domenico Artero, cappellano dei campi di prigionia del Padovano. Egli, che aveva salvato dalla cattura un paio di centinaia di prigionieri spingendoli a scappare dal campo PG.120 di Padova appena erano apparse le prime autoblindo tedesche, recava drammatiche notizie e testimonianze raccolte a Padova e lungo il cammino. Era accompagnato da decine di ex prigionieri che aveva preso con sè nei vari distaccamenti incontrati lungo la strada ed era deciso a condurli di persona fino in Puglia, oltre la linea del fronte, affinchè potessero ricongiungersi all’Esercito Alleato. Un certo numero di prigionieri di Fogolana decise di unirsi al gruppo guidato dall’energico e coraggioso sacerdote, che così raggiunge il numero di 86 componenti.
Del gruppo che si mise in cammino verso il Sud e che la notte tra il 13 e il 14 settembre attraversò con circospezione il ponte di ferro sul Po, non ancora presidiato da posti di blocco tedeschi, faceva parte il caporalmaggiore James Arthur Clarke, del 22° battaglione di fanteria Neozelandese.

Inizio del diario del caporal maggiore James Arthur Clarke, 22° battaglione di fanteria neozelandese
(per gentile concessione della Famiglia Clarke Hayes) – Fonte: Adolfo Zamboni, op. cit. infra

Nel diario, che le sue tre figlie portarono con loro nella visita fatta a Fogolana nel 2012, scritto prima che egli morisse nel 1953, Clarke narrò le peripezie del lungo, travagliato e pericoloso cammino verso Sud fino al ricongiungimento, in Abruzzo, con le truppe dell’VIII Armata Britannica che lentamente stava risalendo la Penisola aprendosi la strada con duri combattimenti.
Separatosi dal gruppo a Ravenna nell’intento di accelerare la marcia e ridurre il rischio di essere catturato, il caporalmaggiore Clarke proseguì con un solo compagno.
Stremati per i disagi e i frequenti attacchi di febbre malarica, i due si trascinarono per dieci mesi con incrollabile forza di volontà attraverso un’interminabile successione di alture spesso innevate e di corsi d’acqua, scampando alle insidie dei fascisti e dei tedeschi, grazie al caritatevole e coraggioso aiuto dei più poveri tra i contadini, che condivisero con loro le misere abitazioni e lo scarso cibo. Dei 60 prigionieri evasi da Fogolana, solo 13 riuscirono a raggiungere le truppe Alleate. […]
Adolfo Zamboni, Sette uomini sotto le stelle. Sulle tracce di un prigioniero di guerra neozelandese alla macchia nella Bassa Padovana nel 1943, Padova, 25 aprile 2014, qui ripreso da Università degli Studi di Padova