I tedeschi erano furibondi: ricostruirono il ponte e si scatenarono in un rabbioso rastrellamento sulla popolazione

Le azioni dei partigiani valsusini si diffusero a macchia d’olio contro gli elettrodotti, le linee telegrafiche e telefoniche, i mezzi di trasporto, la linea ferroviaria, i ponti, i depositi, le casermette. L’escalation dei sabotaggi richiedeva grande quantitativo di esplosivo e in Val di Susa erano presenti importanti depositi appartenenti al dinamitificio di Avigliana <104.
I piani per il loro attacco furono studiati dal Comitato militare della valle in collaborazione con i rappresentanti delle diverse bande che operavano tra la media e bassa valle. Il colpo più importante si effettuò a Biancone, piccola frazione nei pressi di Villar Focchiardo, dove dentro la galleria di una cava in disuso il Dinamitificio di Avigliana aveva depositato un grosso quantitativo di esplosivo. Alle ventitré del 18 novembre i partigiani, dopo aver disarmato i carabinieri che presidiavano la polveriera, prelevarono trenta quintali di TN4 plastico e lo caricarono su un autocarro requisito dai partigiani. Secondo i piani del Comitato militare della valle l’esplosivo doveva essere trasportato a Mocchie, dove erano dislocate le bande di Cima e Albertazzi; ma la neve alta e le cattive condizioni della strada spinsero i partigiani a nascondere la refurtiva in una cascina nelle campagne di Villar Dora <105.
L’ingente quantitativo di esplosivo serviva a sostenere il salto di qualità della nuova strategia militare partigiana decisa dal Cmrp e improntata, per impegnare seriamente i tedeschi, a precludergli il transito in valle, importante via d’accesso verso la Francia. Le alternative ai valichi della Val di Susa erano il Sempione o il grande San Bernardo, che non potevano essere percorsi per la neutralità della Svizzera, oppure le vie del piccolo San Bernardo o del traforo del monte Bianco meno vantaggiose perché più lontane da Torino.
Ma i diversi sabotaggi effettuati ai danni della linea ferroviaria erano riusciti ad interrompere la viabilità solo per breve tempo, visto che i tedeschi avevano allestito un treno-cantiere in grado di ripristinare la viabilità celermente <106. Anche i sabotaggi delle linee aeree ad alta tensione, finalizzati a paralizzare la capacità produttiva delle aziende torinesi asservite all’economia tedesca, il primo del genere come ho già riferito fu attuato il 20 settembre nei pressi di San Giorio e fu seguito dall’abbattimento di altri tralicci dislocati lungo la bassa valle, provocarono più disagi alla popolazione che danni all’industria. La loro efficacia era limitata, poiché l’alimentazione elettrica di Torino proveniva solo in piccola parte dalla Val di Susa, la parte più consistente dell’approvvigionamento elettrico torinese dipendeva dalle centrali delle Valli di Lanzo, della Valle d’Aosta e della Val d’Isarco <107. Pertanto i sabotaggi della linea elettrica valsusina furono abbandonati.
Per paralizzare l’attività tedesca bisognava allora sabotare i ponti. Il Commissario di guerra del Comitato militare della Valle di Susa Bellone, “ossessionato dai ponti” <108 secondo la testimonianza della Gobetti, aveva una particolare competenza nel campo degli esplosivi che mise al servizio della nuova strategia militare partigiana. Passò in rivista i ponti più importanti della valle fino a decidere che l’esplosivo sequestrato a Villar Focchiardo sarebbe servito per far saltare quello dell’Aquila. Il colpo andò male a causa dell’inclemenza del tempo. Una nevicata improvvisa costrinse i partigiani a trasportare l’esplosivo a mano e non sui camion come programmato, rendendo difficile ogni rapido spostamento: “bisognava far di corsa la galleria verso Gravere, lunga oltre due chilometri. Non si poteva correre il rischio che l’esplosione avvenisse mentre gli uomini erano ancora nella galleria; bisognava dar loro il tempo d’attraversarla e ci voleva quindi una miccia più lunga. Un pezzo di miccia fu aggiunto; ma forse era difettoso, o forse la congiunzione fu fatta imperfettamente: sta di fatto che non funzionò” <109. Si unirono poi alle avverse condizioni meteorologiche l’inesperienza e l’indisciplina di alcuni componenti della spedizione. Il fallimento del sabotaggio del ponte dell’Aquila fu d’insegnamento per la preparazione di un nuovo grande “colpo”, quello al ponte della Perosa.
[NOTE]
104 Fondato per iniziativa di un gruppo di cinque banchieri parigini e della Società Alfred Nobel di Amburgo, il dinamitificio Nobel di Avigliana venne completato nel 1873. Durante il regime fascista, il dinamitificio ebbe un forte aumento della produzione, spinto dalla nuova politica autarchica voluta da Mussolini soprattutto nel settore della difesa. Alla Nobel si diede il via alla produzione dell’esplosivi plastici T4 o Esogene, la cui principale caratteristica risiedeva nella sua attitudine a lasciarsi tagliare e modellare in modo da comporre cariche di forma, peso e dimensioni adatte agli effetti che si intendevano conseguire, con quantità minimali. Sergio Sacco e Gigi Richetto, Il dinamitificio Nobel di Avigliana, Pietro Melli, Susa 1991
105 Aisrp, scaffale B, cartella 35, interno b, dattiloscritto sulla storia della Resistenza in Val di Susa, p. 4
106 testimonianza orale di E. Favro, in Maria Elisa Borgis, La Resistenza nella Valle di Susa, p. 35
107 Bellone, Testimonianze 1933-1945, p. 47
108 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 38
109 Ivi, cit., p. 53
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

Nei primi giorni del Marzo del 1944, fummo messi in allarme per un rastrellamento che i tedeschi contavano di effettuare nella vallata. Ci trasferimmo alle porte di Viù, con l’ordine di opporre resistenza e rallentare il passo alle operazioni tedesche. Lo scopo della nostra azione era di garantire un tempo sufficiente ai Partigiani di Malciaussia per organizzare lo sfollamento dell’ospedale dei Partigiani. Fortunatamente il rastrellamento non iniziò, e dopo alcuni giorni di attesa in postazione, ritornammo a Lemmie.
Il rastrellamento previsto, avvenne inaspettatamente la settimana successiva, ed investì le Valli di Lanzo. Ci trasferimmo ad Usseglio, poiché le vallate erano bloccate, non avevamo armamenti adeguati e scarseggiavano le munizioni. Ci ritirammo fino a Malciaussia. Le truppe tedesche, che ci avevano spinto fin lì, ci attaccarono pesantemente con mitragliatrici e mortai. La battaglia durò fino a sera, ma a causa del violento fuoco tedesco, fummo costretti a disperderci per la montagna.
Molti compagni affrontarono i nevai per oltrepassare il confine con la Francia e mettersi in salvo. I francesi li internarono, considerandoli appartenenti ad uno Stato aggressore.
Sul ghiacciaio del Lautarét, a causa del gelo e dell’equipaggiamento inadeguato, subimmo perdite umane e molti di noi ebbero gli arti congelati.

Usseglio (TO) – Fonte: Wikipedia

Insieme ad altri due Partigiani risalimmo le pareti della montagna, spostandoci verso Usseglio. Di notte ci riparammo sotto le rocce, e lì restammo anche il giorno successivo, in quanto un aereo tedesco sorvolava la zona a bassa quota per individuarci. Col favore dell’oscurità, riuscimmo, sotto lo sguardo della luna, a ritornare a Lemmie, e a nasconderci in una grotta conosciuta dai montanari della zona. Erano due giorni che non toccavamo cibo, ed i pastori ci sfamarono, informandoci poi sulla situazione esterna. Appena non udimmo più colpi di mortaio e spari, andammo nel paese di Lemmie per riunirci alla squadra. Trovammo altri quattro compagni, e nei giorni seguenti la squadra si ricompose: su venti, solo due partigiani mancavano. Oltre a perdere i due compagni, perdemmo nel rastrellamento tutti i viveri e gli indumenti personali.
Dopo aver recuperato dei viveri nascosti, salimmo in una baita sopra Lemie per riorganizzarci. Mentre ci stavamo preparando un pasto, arrivò una nostra pattuglia, e a uno dei componenti cadde il mitra, dal quale partirono accidentalmente due colpi. I proiettili, sfortunatamente, colpirono alle gambe un compagno. Noi non sapevamo cosa fare: ci inventammo una barella di fortuna e con quella trasportammo il nostro ferito dal Parroco.
Il Parroco ci accompagnò presso la Casa del Cottolengo di Lemie, dove le Suore si prodigarono nel curare il Partigiano, che tennero nascosto a lungo, nonostante i rastrellamenti successivi.
A noi venne dato ordine di spostarci, di non restare che pochi giorni nello stesso luogo, perchè i rastrellamenti tedeschi non davano tregua.
Era il 2 Maggio 1944, quando scattò un altro rastrellamento, questa volta terribile: fummo attaccati sopra la località Tornetti al Piano degli Asciutti. Durante la durissima battaglia, venne ucciso il comandante Beccuti. Lo seppellimmo sotto la neve, nascosto in un canalone.
Eravamo stanchi, affamati, senza munizioni: ci ritirammo in alta montagna e la notte ci salvò da una delle più tragiche giornate. Neanche la notte fu clemente: per far fronte al freddo insopportabile ci abbracciammo a gruppi per non disperdere il calore del corpo. Finalmente giunse il mattino con un sole caldo che ci riscaldò. Quanto ringraziammo quei caldi raggi! In lontananza si sentiva ancora sparare; la nostra zona sembrava al momento tranquilla. Una pattuglia partì in ricognizione, seguita poi dal Distaccamento diviso in gruppi. A sera trovammo una baita, in frazione Polpresa, per poterci riposare e sfamare con una manciata di castagne secche.
I tedeschi ed i fascisti fecero però un altro rastrellamento, scorazzando per la Valle e seminando il terrore. Fummo costretti a riportarci in alto.
In un alpeggio trovammo del riso, così accendemmo il fuoco per cucinarlo.
I tedeschi, vedendo il fumo, giunsero presto alla baita e noi, nascosto il paiolo di riso sotto la neve, fuggimmo. La baita venne incendiata, ed i tedeschi se ne andarono contenti di aver distrutto una nostra base. Noi ritornammo sul posto il mattino dopo: ritrovammo il riso sotto la neve oramai in un blocco di ghiaccio e, non potendo accendere fuochi, lo mangiammo così congelato, tanta era la fame che avevamo.
Nella frazione di Villa, a Lemie, fu un periodo di riposo: trovammo una buona sistemazione, il tempo era buono, e potemmo così fare un pò di pulizia personale, perchè i pidocchi non ci davano pace. A turno facemmo bollire i nostri abiti per distruggere i parassiti. Gli abitanti erano gentili, e per contraccambiare la loro ospitalità, li aiutammo nei lavori di campagna. Nella frazione c’erano solo persone anziane, ed era il periodo della semina delle patate. Li aiutammo a preparare i “campet”. Il lavoro consisteva, data la forte pendenza dei campi, nel riportare il terreno a monte, visto che le piogge lo facevano scorrere a valle.
Caricavamo le gerle sulle spalle e trasportavamo la terra. Era un lavoro duro, faticoso, e ricordo delle giovani donne che facevano a gara con noi…
Arrivò l’ordine di partire per il Colle della Ciarmetta. Ci accasammo in una chiesetta. Il locale era molto piccolo, e non tutti potevano dormirvi.

Valle di Viù – Fonte: Wikipedia

Decidemmo di fare i turni, ma sopra il locale non c’era pavimento, e la vòlta a botte non consentiva un comodo riposo. Un giorno partii come staffetta per andare al Comando di Viù. Intanto da Ceres arrivò un gruppo di fascisti, ed i miei compagni si spostarono nuovamente verso Tornetti.
Ignaro di questo spostamento al ritorno, da una mulattiera che tagliava la montagna, vidi giungere i fascisti. Fortunatamente mi trovavo già al di sopra, e mi nascosi. Appena riuscii a muovermi, andai verso l’alto, pensando di poter attraversare il monte Calcante e ridiscendere nell’altro versante. La manovra fu impossibile perchè trovai uno strapiombo impercorribile. Da quel punto però, potevo vedere il colle e osservare gli spostamenti dei fascisti. Per due giorni rimasero sul Colle della Ciarmetta, ed attesi, senza muovermi per non far precipitare pietre che potessero metterli in allarme, che se ne andassero. Un pomeriggio, finalmente, li vidi ridiscendere la mulattiera verso Pessinetto, così, con cautela, m’incamminai verso Viù. Trovai una baita abitata da un pastore, e gli chiesi qualcosa da mangiare. Mi offrì dei tomini talmente stagionati e duri che dovetti succhiarli uno alla volta per più di un’ora, come fossero caramelle. Era l’unico alimento e mi dava un pò di forza per continuare a camminare per tornare al Comando di Viù. Quando vi giunsi, mi dissero che il mio Distaccamento si trovava ai Tornetti. Li raggiunsi il mattino seguente.
Verso la fine di Maggio, ai Tornetti era arrivato l’ordine di tenersi pronti a partire. Preparammo con meticolosità le armi e tutto quanto poteva servire. Arrivò anche il nuovo materiale, che fu distribuito alle squadre di tre, quattro Partigiani. Il giorno dopo, partimmo per le Maddalene di Viù, e lì giunti trovammo altri Partigiani informati di un prossimo rastrellamento tedesco. Nella notte minammo il ponte che attraversa la vallata e poi, per interrompere la via, minammo anche la parete della montagna prima del ponte. Al passaggio della colonna tedesca, brillarono le mine e alcuni autocarri, con soldati, finirono nel torrente.
I tedeschi, per recuperare i mezzi e tornare indietro, perchè la colonna si era divisa, dovettero costruire un ponte provvisorio.

Lago di Malciaussia – Fonte: Guida Torino

Le sorprese non erano finite: con le GAP del settore aprimmo le paratie della diga del lago di Malciaussia, e la violenza dell’acqua distrusse anche il ponte provvisorio. I tedeschi erano furibondi: ricostruirono il ponte e si scatenarono in un rabbioso rastrellamento sulla popolazione. Non riuscendo a trovarci, perchè ci eravamo spostati in un’altra vallata, i tedeschi bloccarono l’accesso dei viveri per la popolazione della valle.

Vallo Torinese – Fonte: Wikipedia

Organizzammo così un servizio di trasporto, aiutati dai civili, per alleviare la carenza di cibo e medicinali. In collaborazione con i Partigiani della bassa valle, che lo rifornivano, si creò un magazzino nel Comune di Vallo, e da lì noi partivamo, merci sulle spalle, valicando di notte la montagna, al Colle della Maddalena. Tutta la popolazione ci aiutò in questa grande “curvé”. Furono momenti difficili e di grande sacrificio; ma un giorno i tedeschi se ne andarono e la vallata tornò libera.
Noi tornammo ai Tornetti. Anche le nostre scorte erano finite e per preparare i minestroni, il nostro cuoco Girot, esperto conoscitore di erbe, ci mandava a raccoglierle. I minestroni con quelle erbe erano squisiti!
Nuovamente con il sacco sulle spalle, questa volta ci trasferimmo al Colle San Giovanni, un paesino sulla strada che da Avigliana, attraverso il Colle del Lys, collega alla Valle di Viù. Questa, per noi, era una postazione di grande importanza, perchè ci permetteva il controllo del valico. Per meglio controllare la strada, la nostra squadra fu divisa, e una parte mandata a Niquidetto, punto strategico di avvistamento.
Ricordo che un giorno, avevo appena finito il turno di guardia e me ne stavo tranquillamente seduto sul muretto al ciglio della strada, quando arrivò un Partigiano in motocicletta. Si fermò per avere qualche notizia; lo misi al corrente della situazione. Ci scambiammo informazioni personali. Anche lui, Cruchet, era un modellatore, ovvero costruiva con il legno i prototipi di parti meccaniche per le fonderie. Solidarizzammo. Ci lasciammo con un arrivederci a Torino, nella speranza di ritrovarci, visto che le officine dove lavoravamo, erano vicine. Invece, dopo qualche mese, ci ritrovammo nella stessa squadra della bassa Valle Susa.

Fonte: Comitato Resistenza Colle del Lys

Il mattino del 2 Luglio 1944, fummo svegliati presto: dal Colle del Lys si sentiva sparare; prendemmo subito posizione per contrastare il nemico.
Avvertimmo il Comando a Viù, che allertò i Distaccamenti in vallata. La battaglia si fece subito durissima; noi avevamo l’ordine di mantenere le postazioni. Arrivarono i Partigiani della 17ª Bgt. e raccontarono che c’erano dei caduti a causa di un’imboscata dei fascisti. Questi – dissero – in abiti borghesi, sventolando fazzoletti rossi, uccidevano a tradimento che andava loro incontro. I caduti erano giovani cremonesi, e di altri paesi, che disarmati, non conoscendo la zona, invece di andare verso l’alto erano scesi in basso, diventando facili bersagli dei nazi-fascisti.
La battaglia durò fino a sera. Al mattino, risalendo il Colle, trovammo dei Partigiani morti gettati in uno strapiombo. I loro corpi erano seminudi, su di essi erano evidenti i segni delle torture, ed i loro volti sfigurati dalle raffiche di mitra. Raccogliemmo i morti sparsi per la montagna, li raccogliemmo tutti insieme per cercare almeno di riconoscerli dalle poche cose che avevano addosso: fu un momento terribile! Dentro a bottiglie, poste accanto ai corpi, infilammo tutti gli oggetti e le carte rinvenute, necessari al riconoscimento. Il nostro sacerdote, Don Paolo, benedì quei poveri corpi. Li seppellimmo sul lato della strada ove ora un cippo, e una targa, ricordano la loro fossa comune: 5 Cremonesi, 6 Torinesi, 5 Russi, 2 Sloveni, 2 Francesi, 2 Svizzeri e 5 Ignoti, a testimoniare che la volontà di pace e libertà supera le frontiere del mondo, e che quei ragazzi morirono nella loro diversità per un unico ideale.

San Gillio (TO) – Fonte: Mapio.net

Nello stesso mese, esattamente il 25 Luglio, i fascisti arrivarono a San Gillio sorprendendo due partigiani: Sergio Castelli e l’inglese Riccardo Brindle. Sergio reagì al fuoco nemico, ma entrambi feriti, vennero catturati e portati via. Moriranno durante il viaggio verso Venaria. I fascisti sfogarono poi la loro ferocia sulla popolazione sparando, buttando bombe a mano per strada e incendiando una casa. Un’anziana donna, Margherita Perachino, un pò sorda, aprì la finestra di casa perchè aveva sentito del rumore, ed un fascista le tirò una bomba a mano, che esplose ferendola gravemente. Morirà il giorno dopo per le gravi lesioni subite.
Qualche tempo dopo, ci dissero che la nostra Brigata si sarebbe spostata nell’astigiano. La nostra squadra, trovandosi in disaccordo con tale scelta, decise di rimanere in zona e di aggregarsi alla 17ª Brigata.
Parlammo con il Comando del Colle del Lys; il Comando fu lieto di accoglierci perchè eravamo affiatati e ben armati – armi automatiche e due mitragliatrici.
Fummo mandati al “Non si vede”, un vecchio ricovero dove i pastori ritiravano le greggi durante i temporali. Un posto bellissimo per me, perchè da lì si vedeva il panorama della pianura sottostante. Si vedevano i laghi di Avigliana, e lo sguardo giungeva fino a Torino, alle colline, ai fari della Maddalena, che durante i turni di guardia notturna ci tenevano compagnia. Restammo al “Non si vede” fino a fine Luglio. Dovevo occuparmi della “curvé”: andare a Valdellatorre, passando dal Colle della Bassa, col mulo datomi in consegna. Caricavo i viveri del magazzino della Bassa Valle per trasportarli al Colle del Lys. Il mulo era un bravo animale: mi piaceva parlargli come fosse un amico, e lui paziente, senza farsi guidare – conosceva la mulattiera – ogni tanto si fermava per riposare e poi, instancabile, ripartiva.
Un giorno ci venne chiesto di andare in bassa valle per formare una squadra con compiti di disturbo del nemico, e sabotaggio. Inoltre, avremmo dovuto approvvigionare i compagni rimasti in montagna, catturare soldati tedeschi necessari per effettuare scambi con Partigiani prigionieri. I tedeschi non volevano in cambio i fascisti, ma solo i loro soldati. Il Comandante ci riunì e ci domandò se ce la sentivamo di seguirlo in una missione così difficile e pericolosa. Noi formammo la squadra e preparammo il sacco per partire, con poche cose nostre, dando la priorità a munizioni ed esplosivi. Era un mattino del Settembre del 1944 quando partimmo dal Colle del Lys verso Valdellatorre. Il tempo era brutto – pioveva – giungemmo al paese e proseguimmo per Givoletto fino alla cascina Patriarca. Gli abitanti ci accolsero con molta paura. Ci riposammo, e verso sera riprendemmo il cammino per San Gillio. A causa della pioggia intensa, abbandonammo l’idea di guadare il torrente Casternone, che divide i due Comuni, per affrontare il passaggio ben più pericoloso sul ponte di San Gillio. L’operazione riuscì con successo, e risalendo la sponda opposta, arrivammo indenni alle cascine Boia e Vinisiera. Avevamo camminato tutto il giorno, stanchi e inzuppati di pioggia, avevamo portato a termine la prima tappa del nostro percorso giungendo in San Gillio. Alla cascina Vinisiera costituimmo la nuova squadra denominata “Callet”, in ricordo del partigiano ucciso a Brione insieme a Mulatero Carlo.
Il Distaccamento Callet era composto dal comandante Cianito, dal vice Berghem, dal commissario Cruchet, dai capi squadra Giunchiglia e Lungh, e dai compagni Capurà, Girot, Maca, Pinugia, Ramon, Siro, Silvio, Romeo.

Corso Francia di Torino visto dal Castello di Rivoli – Fonte: Wikipedia

Nel novembre del 1944, ci recammo in Corso Francia, tra i Comuni di Collegno e Rivoli, con l’intento di requisire un’autovettura, assolutamente necessaria per spostamenti veloci in particolari missioni.
Cruchet ed io vedemmo arrivare una Fiat 1500, proprio quella che ci serviva. L’auto si fermò, noi ci avvicinammo, e facendoci riconoscere, rassicurammo il conducente (il Direttore della SATI autolinee) che la sua vita non era in pericolo, ma che ci serviva l’auto. Lui protestò, dicendo che l’auto non era di sua proprietà. La cosa ci consolò e glielo comunicammo. Ci consegnò le chiavi rassegnato. Lo ringraziammo, e ci salutammo. Partimmo per la nostra destinazione.

Alpignano (TO) – Fonte: Wikipedia

[…] Sempre nell’autunno del 1944, in Alpignano, vi fu una raccolta di bestiame voluta dai tedeschi per approvvigionare di carne l’esercito.
La pattuglia del Distaccamento composta da Cianito, Cruchet, Berghem e da me, informata dei movimenti dei tedeschi, partì da San Gillio a bordo della Fiat 1100 alla volta di Alpignano. Il raduno del bestiame sarebbe avvenuto al mattino nella Piazza detta della Girolina. Per creare scompiglio, quando giungemmo in detta Piazza sparammo in alto numerose scariche di mitra. I contadini spaventati si dispersero, i tedeschi, presi di sorpresa, reagirono quando noi avevamo già imboccato, a tutta velocità, la strada per Valdellatorre.
Erano giorni che si lavorava alla preparazione di un sabotaggio alla ferrovia Torino-Modane.
Nel Dicembre del 1944 facemmo un’azione alla periferia di Lucento, dove ora sorge il quartiere delle Vallette. In quel periodo c’erano prati, orti. Lo scopo era quello di interrompere la linea elettrica dell’alta tensione che, alimentando la fabbrica aeronautica della Fiat, permetteva la produzione di materiale bellico. Dopo aver minato il traliccio, alla base si accesero le micce, e con una grande esplosione, il traliccio cadde. Ritornammo a San Gillio attraverso la campagna.
Nel Gennaio 1945 facemmo un’azione a Lucento: dovevamo prelevare soldati tedeschi al capolinea del tram 13. I tedeschi erano alloggiati nell’edificio dell’Istituto Marro, e lì ritornavano ogni sera col tram.
Una sera ci appostammo, e al loro arrivo uscimmo dal nascondiglio, ma uno di loro si mise ad urlare. Immediatamente dall’Istituto un faro illuminò il piazzale. A noi non rimase che la fuga per non essere catturati.
Riuscimmo invece a catturare i due tedeschi del servizio postale, alla stazionetta di Collegno. Avevamo ricevuto la segnalazione che due tedeschi, su di una sidecar, transitavano giornalmente sulla strada Venaria – Rivoli, con partenza da Venaria. Ci appostammo, e al loro arrivo sbarrammo la strada, obbligandoli a fermarsi. Oramai nostri prigionieri, ad occhi bendati, li portammo alla Grangia dell’Oca in San Gillio.
Attraverso il parroco di San Gillio, e quello dell’Ospedale Psichiatrico, si contrattò col Comando tedesco per la liberazione dei nostri compagni, facendo uno scambio. Due giorni dopo, nella piazzetta di fronte all’ospedale, a Collegno, ci fu lo scambio e due Partigiani vennero liberati. I tedeschi pretesero anche la restituzione delle armi e del mezzo di trasporto. Consentimmo a restituire la moto, ma le armi no: erano per noi troppo importanti. Ce ne andammo per l’unica via possibile, con la paura di essere attaccati dal tedeschi e, attraversato il ponte della Dora, dove avevamo lasciato una squadra munita di mitragliatrice, tirammo tutti un gran sospiro di sollievo.
Qualche tempo dopo, ricevemmo i contenitori per le mine che le SAP delle Officine Moncenisio ci avevano costruito, utilizzando tubi in ferro che sarebbero poi stati riempiti di esplosivo. Alla sera del 22 Febbraio 1945, tutto il distaccamento partì alla volta di Alpignano, con il pericoloso carico. Attraversammo la Dora, sulla diga di Alpignano, in località Maiolo, e poi attraverso i campi raggiungemmo il terrapieno della ferrovia. La squadra si divise in tre gruppi: due per controllare se arrivavano i tedeschi da Alpignano e da Rosta, mentre l’altro, guidato da Cesare – lo specialista in esplosivi – posizionava le mine sotto i binari, al fine di far ribaltare la locomotiva con l’esplosione. Collegati i tubi di esplosivo tra loro e al dispositivo di innesco, non rimaneva altro da fare che mettersi al sicuro, ed attendere il passaggio del treno.
L’operazione si era svolta in brevissimo tempo, poiché i tedeschi controllavano frequentemente la linea ferroviaria, temendo attentati. Il treno giunse, e come previsto, l’esplosione ribaltò la locomotiva. La reazione tedesca non si fece attendere: fecero un rastrellamento in zona, ma noi eravamo oramai lontani.
Riattraversammo il fiume, e da Alpignano ci dirigemmo verso Givoletto. Una brutta sorpresa ci attendeva: alle prime luci del mattino, dalla campagna di Brione, guardando verso Givoletto, si alzava una colonna di fumo.
Alcune persone raccontavano che i fascisti erano stati a Givoletto e di aver sentito sparare. Altri dicevano che c’erano dei morti. Con molta cautela ci avvicinammo al paese, e osservando il fumo che si alzava, giudicammo che provenisse dalla nostra base in località Borgonuovo. Un contadino ci raccontò che i fascisti erano appena andati via dal paese.
Giunti alla base scoprimmo che era stata data alle fiamme e alcuni nostri Partigiani fucilati alle case delle Barriere, nell’alveo del Rio Vaccaro.
Recuperammo i nostri morti con l’aiuto della popolazione. Erano 9 Partigiani sfuggiti al rastrellamento nelle Valli di Lanzo e che avevano trovato rifugio presso le povere case dei contadini. Tra i caduti c’era una staffetta di 11 anni: Domenico Luciano (detto Undicino).
“Tredicino”che entrò di corsa nel casolare di Giovanni Castello, cercando di sfuggire ai fascisti che lo inseguivano, rastrellando la borgata.
Quando i fascisti arrivarono nella casa di Giovanni, questi si rivolse a Tredicino e, dopo averlo sgridato per aver perso tempo a giocare nel bosco, gli ordinò di andare a lavorare nella stalla. Siccome il Partigiano obbedì al comando, i fascisti lo scambiarono per il figlio del contadino e non lo fermarono. I due sopravvissuti assistettero alla tragica fine dei loro compagni senza poter fare nulla: calci e fucilazione per i Resistenti, lasciati agonizzanti nel torrente. In località Borgonuovo, nel piazzale, un cippo ricorda i Caduti, ed ogni anno, il 22 Febbraio, li commemoriamo.
Alla cascina Vinisiera, giunsero Tullio Robotti con Teresio Perotti, ed un altro partigiano di nome Cesare. A causa di una spiata, alle prime ore del mattino del 14 Marzo 1945, la cascina fu accerchiata dai fascisti guidati dal comandante Truccato di Ciriè. All’intimazione di arrendersi, Robotti (Cichinas o Cichin) e gli altri partigiani reagirono. Nello scontro a fuoco impari, Robotti venne ucciso, e Teresio, ferito e catturato, venne fucilato nella vigna adiacente la cascina. Cesare riuscì a fuggire, e racconta che una pallottola fascista gli staccò il tacco della scarpa, procurandogli una distorsione al piede. La famiglia che abitava la cascina venne minacciata di morte. Il loro figliolo fu portato via, e fu poi rilasciato, forse per la sua giovane età, dopo aver subito violenze. I funerali dei due Partigiani si svolsero il 15 Marzo a San Gillio, con la partecipazione di tutta la popolazione, che dimostrò un grande coraggio, visto l’accerchiamento che viveva con le truppe fasciste di Fiano, dei tedeschi a Venaria, Collegno e Rivoli.
IL corteo funebre sfilò dal cimitero, per le vie del paese, fino alla Chiesa, dove il parroco Don Vunere, officiò il rito sul sagrato. Partecipò anche un distaccamento di Partigiani del Colle del Lys. Nonostante la paura, che in quei momenti era tanta, il ritrovarsi insieme ad onorare i Caduti dava a noi Partigiani, ed alla popolazione, la forza ed il coraggio per continuare nella Resistenza. Fu anche un monito alla prepotenza nazifascista.
Il 19 Marzo 1945 doveva essere un giorno di festa (San Giuseppe): noi Partigiani eravamo stati invitati dagli abitanti a mangiare le castagne nell’aia della borgata, quando ci informarono che una squadra militare fascista, dal Comune di Fiano, stava arrivando. Lasciammo subito la borgata per dirigerci alla Praglia, per non coinvolgere la popolazione in un eventuale scontro con i fascisti. Gli abitanti, presi dal panico, fuggirono per la strada. Gli abitanti, in fuga tra noi e i fascisti, rallentarono l’inseguimento, ma i militi, disponendo di biciclette, ben presto ci raggiunsero. Abbandonammo la strada e imboccammo la via dei boschi, per non diventare un facile bersaglio. Durante la corsa Girot si
trovò in difficoltà perchè appesantito dalla mitragliatrice, e stava per essere raggiunto dai fascisti. A questo punto, per consentirgli la fuga, iniziammo a fare una barriera di fuoco, ed i fascisti desistettero dall’inseguimento. Apprendemmo poi che i fascisti avevano subito il ferimento e la perdita di due militi, e che per rappresaglia erano tornati alla cascina Praglia e avevano arrestato due ragazzi contadini: Lucco Castello Carlo e Barberis Carlo, quest’ultimo 17enne, portandoli in caserma a Fiano. Durante gli interrogatori i due ragazzi subirono torture, violenze, perchè dicessero dove i Partigiani avevano le basi. Lucco Castello fu barbaramente ucciso al lago Borgarino, e la stessa sorte toccò al Barberis alla Causà.

San Gillio (TO) – Fonte: Wikipedia

Nella serata del 19 Marzo partimmo dalla nostra base di San Gillio, e tutto il distaccamento Callet si riunì nella fornace di Alpignano, dove si ideò l’azione all’Albergo Fiorito di Alpignano, per prendere prigionieri soldati tedeschi da scambiare con i nostri Compagni. Quando scese il buio, ci avvicinammo all’albergo e divisi in due squadre (una, di difesa dai tedeschi – sempre appostati sul ponte vecchio, a poche decine di metri; l’altra, pronta per l’azione), ci posizionammo. Entrammo di sorpresa nell’albergo, ma il cane lupo che era sempre con noi, entrò per primo, allarmando i tedeschi, che trascorrevano la serata bevendo e giocando a carte. Essendo la saletta molto piccola, ci ritrovammo addossati ai tavoli, e all’ordine di alzare le mani, impartito dal nostro Comandante, un tedesco cercò di disarmarlo, prendendo improvvisamente per la canna il suo mitragliatore. Luciano aprì il fuoco, e così facemmo noi, e poi ci ritirammo. L’azione era fallita: dovevamo portare a casa – con uno scambio – i nostri Partigiani prigionieri e invece, per rappresaglia, i tedeschi prelevarono 10 Partigiani dal carcere di Bussoleno e li fucilarono in località Maiolo (Alpignano) il 22 Marzo 1945.
Era, invece, il 21 Marzo 1945, quando la popolazione di San Gillio partecipò in massa alla sepoltura dei due ragazzi contadini uccisi per aver scelto l’ideale di Libertà. I Partigiani, quel giorno, non parteciparono alle esequie per non aggravare la già difficile situazione in cui si trovava la gente del posto, oppressa dal presidio fascista. Sui muri delle case apparvero manifesti che promettevano denaro a chi dava informazioni utili per la cattura dei “banditi”. I Sangilliesi non si prestarono al “gioco” fascista.
Sin dai primi momenti del nostro arrivo in San Gillio, la popolazione si dimostrò cordiale e ospitale, tanto che alcune famiglie ci davano rifugio nelle loro case, sfidando il pericolo di una spiata ai fascisti, che avrebbe causato certamente la loro morte e l’incendio delle loro abitazioni. Gli anziani partecipavano alla nostra lotta dando consigli utili per affrontare il nemico. Ricordo in particolare il signor Biesta che durante un rastrellamento fascista nel territorio confinante con Givoletto, ci sconsigliò di attaccare con l’esplosivo la colonna di automezzi che doveva transitare sotto le mura del Castello di San Gillio.
Questa azione avrebbe causato gravi perdite di mezzi e vite del nemico, ma sicuramente avrebbe scatenato una furiosa rappresaglia nazifascista sulla popolazione civile. Rinunciammo all’azione con rammarico, ma pensando che era una rinuncia fatta per la vita di bambini, donne e anziani.
Ricordo anche Zia Marietta, una donna anziana che portava sempre il fazzoletto nero sulla testa, e abitava nella cascina della Grangia di Pulè. Quando andavamo a dormire da lei, vegliava tutta la notte su di noi, facendo la sentinella, e poi al mattino faceva sparire dal letto le nostre impronte per non lasciare tracce per eventuali “visite” di tedeschi e fascisti.
C’era anche mamma Rosa, la mamma di Cruchet (Sergio Torchio) – il nostro compagno – era una donna all’antica, dura di carattere e al tempo stesso tenera e premurosa con noi. Anche nei momenti difficili sapeva essere tranquilla e sicura tanto che, con la sua bicicletta munita di una cesta, trasportava, nascoste sotto la verdura o i panni, armi e munizioni per le squadre partigiane. Passava i posti di blocco fermandosi a parlare con le sentinelle e creando momenti di simpatia, riusciva ad evitare sospetti e perquisizioni.
La zia Ciota, invece, gestiva la Trattoria dei Cacciatori, in Via Principi di Piemonte, abituale ritrovo degli uomini, dopo il lavoro nei campi.
Spesso anche noi Partigiani andavamo a trovarla, perchè eravamo sicuri di trovare sempre un panino con salame. La nostra fame era sempre tanta! Zia Ciota era per noi come una mamma: ci confortava con le sue parole e le tante premure. Anche lei soffriva per un figlio lontano, prigioniero dei tedeschi in Germania. Ricordo che sperava sempre che una mamma si occupasse del suo figliolo dandogli da mangiare.
La casa di Dore, situata in Via Roma, era il nostro ritrovo dove ascoltare segretamente Radio-Londra e scambiare informazioni. Se c’era, si beveva anche un bicchiere di vino e si fumava una sigaretta… sempre in perfetto silenzio per non disturbare l’ascolto dei messaggi in codice ed i bollettini di guerra trasmessi. Era molto pericoloso essere sorpresi ad ascoltare Radio-Londra: si veniva puniti con la morte e l’incendio della casa. Dalla casa di Dore si poteva vedere tutta la strada che da San Gillio conduce a Pianezza. C’era sempre qualcuno appostato, pronto ad avvisare noi e gli abitanti, se arrivavano squadre tedesche e fasciste.
Grazie alla posizione strategica della casa ed al coraggio di Dore, molte persone hanno potuto salvare la propria vita.
Le ragazze di San Gillio avevano un ruolo molto importante durante la nostra permanenza in paese: senza destare sospetti, controllavano la zona segnalandoci persone sospette o movimenti di squadre fasciste. Inoltre, con i pochi mezzi a disposizione, si prodigavano per cucirci pantaloni e rammendare i nostri poveri vestiti. Grazie a loro, il giorno della Liberazione sfilammo a Torino indossando la camicia rossa dei garibaldini!
Sempre nel Marzo del 1945, dopo aver ricevuto informazioni sulla stazione ferroviaria di Collegno, Cruchet, io ed altri 2 Partigiani, decidemmo di effettuare un’azione per prendere prigionieri dei tedeschi. Ci recammo in perlustrazione, e fortuna volle che in quel momento la stazione fosse deserta. Entrammo di sorpresa nell’ufficio e intimammo:”Mani in alto!”. Nella stanza c’erano il maresciallo tedesco, che svolgeva mansioni di capostazione, un suo aiutante e ad altri militari e civili. Strappammo i fili del telefono, perchè nessuno potesse dare l’allarme, e ci portammo via i due militari tedeschi. Li portammo al nostro posto di polizia affinché li tenessero prigionieri per effettuare gli scambi con i
Partigiani. Ricordo il giorno dello scambio che il maresciallo tedesco, piangendo, implorava di non farlo tornare ai suoi reparti. Forse per paura, o forse aveva capito quanto ingiusta fosse la guerra che stava combattendo.
Da qualche giorno si parlava di liberare Torino e noi eravamo in preallarme. Finalmente la notte del 19 Aprile 1945, la mia squadra partì da San Gillio per Torino. La prima tappa che facemmo in città fu alla Conceria CIR di Via Strabella: la occupammo e preparammo il posto per ricevere altre squadre. La notte successiva ebbe inizio la Liberazione con l’occupazione della centrale elettrica del Martinetto: non trovammo resistenze e cominciavamo a sentire la fine della guerra sempre più vicina. Il giorno dopo, in Corso Regina Margherita ci fu una sparatoria con dei cecchini fascisti. Noi avevamo l’ordine di presidiare la centrale e il ponte di Corso Vigevano sulla Dora Riparia. Ricordo che le donne del borgo venivano a portarci da mangiare, e gli uomini ci portavano fiaschi di vino. In quei giorni c’era poco di tutto, ed i negozi erano chiusi.
Dovevamo muoverci con molta prudenza perchè i cecchini sparavano dai palazzi, ed era difficile individuarli prima.
Occupammo poi la palazzina degli uffici delle Fonderie FIAT, e lo stabilimento della Savigliano, che si trovava di fronte alla stazione Dora. Eravamo molto stanchi perchè di notte non si dormiva più. La stazione Dora era ancora sotto il controllo tedesco, e noi studiavamo i loro movimenti per cercare il momento favorevole per attaccarli.
Il 27 Aprile 1945, un treno merci condotto dai tedeschi si fermò alla stazione quasi deserta. Decidemmo con il comandante Cianito [Luciano Torre] di attaccare in quel momento. Cianito andò per primo all’attacco, e noi dietro per difenderlo alle spalle. Attraversammo quattro file di vagoni fermi ma, dal cavalcavia della ferrovia, un cecchino sparò a Cianito. Fu ferito gravemente, e noi tentammo di raggiungerlo per aiutarlo, mentre il cecchino continuava a sparare. Creammo una barriera di fuoco per permettere ai compagni di raggiungere il fascista e fermarlo. Quando riuscimmo ad arrivare da Cianito, non c’era più nulla da fare: il nostro Comandante era caduto da eroe per la libertà del nostro Paese, e noi continuammo l’attacco alla stazione fino alla resa dei tedeschi. Conquistammo la stazione ed anche il treno carico di farina.
La morte del nostro Comandante fu un duro colpo: era per noi una tragedia, non ci davamo pace, e neppure la vittoria sui tedeschi ci rese felici.
Quante situazioni difficili avevamo affrontato insieme, per poi vederlo cadere per mano di un cecchino! Ma non era possibile prevedere le mosse di un cecchino… Dovevamo accettare quella morte, farcene una ragione.
Cianito (Torre Luciano) era un ex paracadutista dal carattere forte e coraggioso: lo seguivamo in tutte le azioni, perchè sapeva infondere la calma anche nelle situazioni più difficili. Era un vero Compagno! Il destino lo volle tra gli eroi durante i giorni della Liberazione.
Il 29 Aprile del 1945 Torino era finalmente libera! Tutti i centri del potere erano sotto il controllo dei Partigiani: occupate le caserme Valdocco, Cernaia e quella di Via Asti, il Municipio, la Prefettura e l’Albergo Nazionale.
A Grugliasco (già dal 26 Aprile il CLN ed i Sappisti avevano preso possesso del territorio comunale) sul far della sera, giunse una colonna composta da migliaia di soldati tedeschi della Vª divisione alpina della Liguria. Al loro arrivo, abitanti o partigiani (non è chiaro il fatto), spararono dei colpi da una fabbrica. I tedeschi iniziarono subito un rastrellamento prendendo numerosi prigionieri. Il 30 Aprile il Segretario comunale fu portato di fronte agli arrestati perchè indicasse i Partigiani presenti. Il Segretario Comunale si rifiutò, e venne immediatamente ucciso. Tutti i prigionieri vennero suddivisi in gruppi e successivamente fucilati: caddero 66 persone sotto il fuoco nazista.
Il 1° Maggio ricevemmo questa tragica notizia, ed un gruppo di Partigiani partì da Torino per fermare questa colonna tedesca e costringerli alla resa. Raggiunsero i tedeschi a Robassomero ed iniziò un furioso combattimento: 30 soldati tedeschi furono fatti prigionieri. Ricordo che la nostra camionetta, guidata da Cruchet, nel combattimento fu raggiunta da un colpo che ci staccò di netto una ruota anteriore, e noi per fortuna, restammo illesi. A sera ci rendemmo conto che due Partigiani non ce l’avevano fatta: erano Mainardi Giacomo e Oriente Richard, appartenenti al nostro distaccamento Callet. Morirono su di un carro blindato sottratto ai tedeschi e da questi poi colpito con proiettili anticarro.
Nella notte la colonna tedesca raggiunse il Comune di Santhià, dove i soldati sfogarono la loro rabbia sui civili; solo verso Milano furono raggiunti e fermati dagli Alleati.
Nei giorni seguenti a Torino, e Collegno, ci furono i funerali dei Partigiani Cianito, Romeo e Oriente, caduti in quegli ultimi giorni della Resistenza.
La mia Brigata si era accampata in Piazza Bernini, nella casa della gioventù italiana del Littorio. Come era bella Torino libera e in festa!
Tutti ti salutavano. Noi indossavamo la camicia rossa cucita dalle ragazze di San Gillio, e ci sentivamo orgogliosi di aver partecipato alla lotta di Liberazione. Ci avvisarono di tenerci pronti per la sfilata. Gli Alleati non volevano lasciarci le armi per sfilare, ma la nostra opposizione fu ferma e irremovibile (ed a ragione). Alla fine cedettero, ed il giorno 5 Maggio 1945 sfilammo per il Corso Vittorio fino al Corso Cairoli, tra due ali di folla che ci applaudiva. Successivamente raggiungemmo Piazza Vittorio Veneto, gremita di gente e Partigiani arrivati da ogni località. Transitammo poi per Via Po e Via Roma: i balconi erano imbandierati e la gente lanciava fiori. Fu una festa indimenticabile: finalmente la guerra, con le sue atrocità, era finita ed eravamo contenti per la gratitudine che la gente ci dimostrava.
(dal diario di) Enrico Ribotta “Lungh”, …scivolando attraverso il tempo da Partigiano, ANPI Alpignano

La già citata circolare n° 724 del 24 aprile stabiliva inoltre la zona di giurisdizione assegnata alla 1a brigata d’assalto “Felice Cima”. Essa andava, per il 3° battaglione “Mario Vittorio Zullan”, dalla sponda sinistra del torrente Gironda fino ai comuni di Fiano, Cafasse, Nole, Ciriè, Venaria Reale, Druento con le relative frazioni e borgate. Il 1° e 2° battaglione dovevano invece dirigersi a Torino nel 1° e 2° settore <452. In Val di Rubiana rimaneva un gruppo di partigiani al comando di Malara Giovanni “Icaro” con il compito di difendere i valligiani da eventuali incursioni nemiche <453. Fu poi la circolare n° 737 del 26 aprile, emanata il giorno stesso della discesa verso Torino della 1a brigata “Felice Cima”, a specificare ulteriormente gli obiettivi dei partigiani, stabilendo che: “il distaccamento “Callet” del 2° battaglione si dovrà portare entro questa sera nella zona industriale Fiat Ferriere, Officine Savigliano e della centrale termoelettrica del Martinetto, disturbando eventuali pattuglie nemiche e rimanere in attesa di ordini per quanto riguarda azioni di maggiore importanza. Il distaccamento “Modiglio” e il distaccamento “Tolmino” al completo si porteranno nelle adiacenze di piazza Bernini con compiti di attaccare pattuglie ed eventuali fortini nel limite delle possibilità. Il distaccamento “Mulatero” si porterà nella zona Martinetto con i medesimi compiti dei distaccamenti succitati. Il resto del primo battaglione si porterà nella zona di San Gillio e resterà in attesa di ordini. Il 3° battaglione si porterà nella zona di Druento in attesa di ordini. La sede del comando di brigata si porterà a Pianezza, in zona San Pancrazio, da dove potrà venire in possesso di novità e di ordini da parte di comandi superiori e li impartirà a sua volta ai comandi dipendenti” <454.
Inoltre il comando di brigata invitava “ogni comando di battaglione dovrà inviare con urgenza la località della sede di comando di battaglione al comando di brigata. Per quanto riguarda i collegamenti tra comando di battaglione e comando di brigata si stabilisce quando segue: il comando di battaglione dovrà inviare un staffetta al comando di brigata la quale resterà a disposizione per ulteriori ordini da emanarsi al battaglione stesso. I comandi di battaglione organizzino il servizio di collegamento con i comandi di distaccamento dipendenti nel miglior modo possibile. Ogni comando di battaglione dovrà inviare al comando di brigata il rapporto sulle novità tre volte al giorno (mattino-mezzogiorno-sera) se si dovessero verificare delle novità di grande importanza si renda edotto il comando di brigata con la maggiore sollecitudine. Nessuno dei comandi dipendenti dovrà eseguire ordini se non per iscritto ed emanati dal comando di brigata. Detti spostamenti siano effettuati senza farsi troppo notare e con celerità e disciplina”, raccomandandosi sulla necessità che “i responsabili di brigata diano tempestive comunicazioni a questo comando dei nominativi dei patrioti chiamati a ricoprire i quadri mancanti. Si raccomanda di seguire in tali nomine la forma più democratica possibile” <455.
[NOTE]
452 Per quanto riguarda il territorio cittadino era stata assegna alla 1a brigata d’assalto “Felice Cima” come zona di operazione dal Cmrp l’area ad ovest di Torino compresa tra il corso Francia, corso Regina Margherita e la statale n. 24 (1° settore e parte del 2° settore) fino alle porte di Rivoli, con lo stabilimento della Fiat Aeritalia, Fiat Ferriere, Officine Savigliano e la centrale termoelettrica del Martinetto come obiettivi strategici da presidiare in, circolare pubblicata in Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val Susa, pp. 216; si veda inoltre la pianta della città di Torino con la suddivisione in settori in, Aisrp, Mat-ac 2 g
453 Circolare pubblicata in Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val Susa, pp. 216
454 Ivi, cit., p. 219
455 Ibidem
Marco Pollano, Op. cit.