Il caso del partigiano Giancarlo Puecher Passavalli

Fonte: La Conca

Agli albori della Resistenza in Brianza, possiamo rilevare come l’attività più consistente, la fioritura maggiore d’iniziative, avvenne nella zona tra Erba e Lecco. A Ponte Lambro, piccolo paese sulla collina erbese, già il 13 settembre si costituì un gruppo autonomo. Lo componevano don Giovanni Strada, parroco del paese presso la cui canonica si tennero delle riunioni clandestine. Poi Franco Fucci, ufficiale sbandato del 5°alpini, reparto di stanza a Milano ma che era sfollato a Lecco dall’agosto del ’43 a causa dei bombardamenti, Giovanni Rizzi quarantenne odontotecnico milanese, Bonamici ex-sottufficiale dell’Auto centro di Milano, Bartolomeo Alaimo, Andrea Ballabio, Enrico Bianchi e soprattutto Giancarlo Puecher Passavalli. Giancarlo era un giovane di soli vent’anni, appartenente ad una nobile famiglia di origini trentine ma residente a Milano, dov’era nato in via Broletto. Con il padre Giorgio, di professione notaio, i fratelli e le zie era sfollato nella villa di loro proprietà a Lambrugo e già lì diversi sbandati avevano potuto apprezzare l’aiuto disinteressato dei Puecher. Proprio a Lambrugo, Giancarlo raggruppa un nucleo di giovani che fanno della villa il loro punto di riferimento. Il loro “capo” ha un forte sentimento patriottico, del tutto ideale, ma è ben chiara la sua visione del momento: i tedeschi sono invasori da combattere come i loro fiancheggiatori fascisti e la sua determinazione a fare la propria parte in questa lotta è molto forte. Emana grande decisione e carisma, malgrado la giovane età. I primi partigiani di Lambrugo sono dodici: Felice Ballabio, che abbiamo già trovato attivo nel gruppo dirigente di Pontelambro, Antonio Porro, Ratti, Rinaldo Zappa, Carlo Rossini, Felice Gerosa, Elvio Magni, Guido Porro, Dino Meroni. Altri tre di questo gruppo originario cadranno durante la Resistenza, come Mario Redaelli nei giorni dell’insurrezione dell’aprile ’45; Grazioso Rigamonti e Alberto Todeschini deportati e morti entrambi a Mauthausen. Puecher agì sempre a stretto contatto con Franco Fucci, erano i comandanti, i due più decisi; l’ex- alpino in Grecia aveva aperto gli occhi sulla catastrofica realtà storico-politica del fascismo e aveva deciso di saltare il fosso. Le loro azioni s’indi­rizzarono all’inizio per dotarsi di mezzi per spostarsi rapidamente nella zona. Riuscirono ad avere un’Augusta, una Fiat e Fucci rubò a Milano una Topolino requisita dai tedeschi. L’11 settembre Fucci, con alcuni di Ponte Lambro, recupera due camion a Castelmarte e uno ad Arcellasco. Puecher fa un colpo al Crotto Rosa di Erba, ritrovo di alcuni borsaneristi, “confiscandogli” una buona quantità di ben­zina. A Merone e dintorni il 15 e il 17, Fucci e Puecher recuperano quattro cavalli e sei muli abbandonati dall’esercito, affidandoli a contadini di Lambrugo. Viene poi il turno delle armi, recuperate a Bindella, a Erba e perfino a Cusano Milanino. Il materiale recuperato è portato prima a S. Salvatore, poi non ritenendo più il luogo sicuro, convogliato a Ponte Lambro. L’attività del gruppo è rivolta poi a rifornire i nuclei partigiani della vicina mon­tagna. A questo proposito Francesco Magni nel suo libro di memorie, che è praticamente la storia della 55^ brigata Rosselli, segnala un incontro che egli ebbe con Puecher il 24 ottobre 1943 a Lambrugo, appunto per intrecciare contatti più stretti fra montagna e pianura. In novembre pare sia già in atto il salto di qualità del gruppo verso il combattimento. La relazione Morandi riporta un sabotaggio alle linee telefoniche tedesche nella zona di Canzo e Asso da parte del gruppo di Ponte Lambro. Il4 novembre, la scala del monumento ai caduti di Erba viene disseminata di volantini inneggianti alla Patria e alla libertà e una bandiera tricolore con il ricamo Patria e Libertà viene issata in cima. Questo proto-nucleo partigiano destò l’interesse dei nascenti comandi milanesi, tanto che fu contattato verso la metà di ottobre da Giulio Alonzi, del Comitato militare clandestino di Milano in giro per rendersi conto delle forze ribelli in quel momento. Poi da Poldo Gasparotto e dal colonnello Morandi che stava cercando come già detto di tirare le fila del movimento nel lecchese; infine da un anonimo esponente comunista proveniente dall’Alfa Romeo. Si tratta con molta probabilità di Sabino Di Sibio, residente a Milano e operaio appunto dell’Alfa Romeo, sfollato nel comune comasco di Lipomo dove aveva dato aiuto a molti sbandati e dove aveva cercato di imbastire un’organizzazione resistenziale contattando i gruppi della zona compresi quelli di Erba. Le notizie a questo proposito apparirebbero sicure in quanto provenienti da appunti scoperti e requisiti dalla polizia fascista nel corso di una requisizione in casa del Di Sibio stesso, che nel frattempo si era reso irreperibile. Questa attività di un personaggio di una famiglia molto nota, in una zona fatta di piccoli paesi, non poteva non attirare l’attenzione delle autorità fasciste che intanto si erano insediate nel comasco come in tutto il resto dell’Italia occupata. La cattura di Puecher e Fucci fu però abbastanza casuale. Tutto parte da un episodio poco chiaro, l’uccisione a Erba da parte di ignoti, del centurione della milizia e cassiere del Banco Ambrosiano di Erba, Ugo Pontiggia e dell’amico Angelo Pozzoli. Nella stessa serata del 12 novembre, Puecher e Fucci provenienti da Milano dove si erano recati per collegamenti e per finanziamenti, si erano portati a Canzo, nella villa dov’era sfollato l’ex-consigliere nazionale Alessandro Gorini che si dichiarava passato all’antifascismo. I motivi di quella visita sono diversi a secondo delle versioni ma comunque si trattava di ottenere aiuti per il movimento partigiano. I due non sapevano sicuramente niente dell’agguato mortale dei due fascisti, avrebbero potuto rimanere a dormire in un ambiente sicuro, invece verso le 22.30 preferirono ripartire in bicicletta sfidando il coprifuoco. Il loro bagaglio era certo compromettente, avevano in una borsa un tubo di gelatina e due manifestini di minaccia verso alcuni fascisti in vista. Nei pressi di Lezza, i due incontrarono una pattuglia di tre uomini (Fucci in una sua memoria parla di una dozzina). I militi li dichiararono in stato di fermo per violazione delle norme del coprifuoco e dissero che li avrebbero condotti al comando di Erba. A questo punto il fatto probabilmente decisivo: Fucci estrasse la pistola e premette il grilletto ma l’arma s’inceppò, in risposta a ciò il suo custode gli sparò a bruciapelo colpendolo al ventre. A questo punto uno rimase a piantonare il ferito e Giancarlo fu portato a Erba; era riuscito a gettar via la pistola e il materiale esplosivo era sulla bicicletta del Fucci. Puecher fu immediatamente inter­rogato e picchiato dai poliziotti fascisti. Fucci venne portato all’ospedale S. Anna di Como, mentre il fascista Airoldi, uno dei minacciati dai volantini partigiani, stendeva una lista di amici del Puecher che vennero arrestati la notte stessa. Se quel colpo fosse partito, se l’arma di Franco Fucci avesse sparato, buona parte della storia della Resistenza in quella zona sarebbe stata diversa. A questo punto i destini dei due si separarono senza incontrarsi mai più. Mentre il Fucci rimarrà in prigione fino alla Liberazione peregrinando dal carcere di Como a quello di Vercelli e poi a S. Vittore, la sorte di Puecher fu molto più sfortunata. Ancora un episodio in cui egli non c’entrava niente segnò la sua fine: il 20 dicembre lo squadrista erbese Germano Frigerio venne ucciso in un agguato. I fascisti brancolavano nel buio e allora decisero di usare come capro espiatorio, ciò che avevano in mano. Puecher non aveva nulla a che fare con quell’uccisione, dato che da più di un mese si trovava in carcere. Ma, incredibilmente, venne montato a suo carico e di altri prigionieri, un processo al di là della farsa da un tribunale definito straordinario con l’elenco più completo delle irregolarità processuali che fosse possibile commettere. Ma la sentenza era stata emessa prima ancora d’iniziare: quattro dovevano morire. I difensori riuscirono a salvarne tre, uno, Giancarlo Puecher, fu destinato alla fucilazione, senza avere colpe per una misura così grave. Gli altri, Luigi Giudici, Giulio Testori, Silvio Gottardi, Giuseppe Cereda, Vittorio Testori e Rino Grossi ebbero pene detentive fra i 5 e i 30 anni. L’atto finale dell’assassinio di Giancarlo Puecher si compì la notte del 21 dicembre, ad un muro del cimitero di Erba. Il cappellano che assistette all’esecuzione raccontò che il condannato abbracciò uno per uno i militi del plotone che l’avrebbero ucciso e morì gridando viva l’Italia.

Giancarlo Puecher Passavalli è la prima medaglia d’oro al valor militare della Resistenza.

Per capire l’assurdità di quel procedimento, è da riferire che nell’estate del 1944, a Brescia, il Guardasigilli della Rsi riconobbe la nullità del processo di Erba e l’arbitrarietà delle condanne, facendo con ciò liberare tutti gli imputati incarcerati. La sete di vendetta fascista non si affievolì dopo quell’atto criminale.

In Via Broletto 30 a Milano, dove aveva abitato la famiglia Puecher in una casa distrutta nel bombardamento del 16 agosto 1943, è stata collocata una Pietra d’inciampo al nome di Giorgio Puecher Passavalli – Fonte: ISR Novara

Il padre di Giancarlo, Giorgio Puecher, era stato anche lui arrestato con il figlio. Venne rimesso in libertà subito dopo l’esecuzione del 21 dicembre. Circa un mese e mezzo dopo però, venne nuovamente arrestato con la vaga accusa di opposizione politica e fu rinchiuso nel carcere milanese di S. Vittore. Trasferito poi a Fossoli, venne suc­cessivamente inviato a Mauthausen, dove morì per gli stenti e i maltrattamenti 1’8 aprile 1945. L’ampio spazio dedicato al gruppo di Ponte Lambro ha molteplici motivazioni. Sicuramente una è lo spessore morale e la combattività del suo trascinatore, Giancarlo Puecher, il cui nome sarà ripreso da ben quattro formazioni partigiane di diversa origine che si costituirono in seguito. Poi per ciò che rappresenta nell’evoluzione della Resistenza brianzola che stiamo osservando. Pur avendo effettuato azioni non ancora pesanti, questo è l’unico gruppo che riesce a passare, anche se purtroppo per poco, dalla fase cospirativa al confronto armato. Non osiamo pensare cosa sarebbe potuta diventare la Resistenza in questi luoghi se Puecher e Fucci avessero potuto agire ancora per un po’. Lo vedremo spesso in questo nostro percorso, la lotta per la libertà fu condotta comprensibilmente da una minoranza, anche se con il consenso di gran parte della popolazione, e spesso è un individuo particolarmente entusiasta, deciso e coraggioso ad essere determinante per la crescita della ribellione in una determinata zona.

(da ”La Resistenza in Brianza 1943 – 1945” di Pietro Arienti Ed. Bellavite 2006) ultima lettera di Giancarlo Puecher Passavalli scritta prima di essere fucilato il 21 dicembre 1943 (da Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia: Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana)

ANPI Lissone

[Giancarlo Puecher Passavalli] Nato a Milano il 23 Agosto 1923 da Annamaria Gianelli e dal Dott. Giorgio Puecher Passavalli di Como, ma discendente da nobile famiglia trentina, a Milano Giancarlo cresce e studia, prima al Ginnasio Parini, poi all’istituto Leone XIII dove compie due corsi liceali in un anno; sempre a Milano, diciannovenne, consegue la promozione al II anno di legge presso l’Università regia.
Robusto ed esuberante, impiega le sue eccezionali doti fisiche nell’attività sportiva, e le impiega a fondo: ciclismo, sci, alpinismo, atletica, nuoto, automobilismo, tennis, lo trovano appassionato cultore pur non riuscendo ad esaurire le sue risorse nè a soddisfare le sue aspirazioni; forse soltanto il volo potrà appagare il suo materiale e morale bisogno di ascesa. Ed eccolo, dopo essersi presentato come ufficiale volontario nell’Esercito, volontario pilota. Sottoposto all’esame fisico alla Scuola di Torino, è dichiarato perfetto.
La gioia delle ali è ormai a portata di mano, ma non si lascia cogliere. Il destino decide altrimenti.
La guerra allontana Giancarlo dalla sua città. La casa dov’è nato, in via Broletto, verrà poi rasa al suolo dal bombardamento del Ferragosto 1943.

Lambrugo: Casa Puecher Passavalli – Fonte: Brianza Popolare

Trapiantato in Brianza, a Lambrugo, in una villa che domina dall’alto di un poggio le verdissime ondulazioni susseguentisi fino a morire nel Pian d’Erba contro la barriera dei monti di Vallassina, qui è colto dagli avvenimenti della tarda estate. Settembre 1943: periodo oscurissimo per le coscienze italiane.
Soltanto un’eletta minoranza sa veder subito la giusta via e l’imbocca senza esitazione; altri, anche di buona volontà, tentennano dubitosi del proprio giudizio, smarrendosi nel sovrapporsi caotico degli eventi.
Ma Giancarlo non può sbagliare. Sua guida è l’amore ardentissimo per l’Italia trasmesso a lui dalle generazioni di patrioti da cui discende.
Forse anche riecheggia in lui il suo stesso grido d’amore di quando, studente dodicenne, l’estro precoce gli dettava una composizione poetica sulla sua Patria. All’Italia appunto è intitolato quel breve saggio che non si può leggere senza meraviglia, non tanto per la sua forma — sebbene eccezionalmente sicura e matura in un bambino — quanto per la limpidezza del concetto sgomitolato senza titubanze dalla premessa alla recisa conclusione […] Proprio così, Giancarlo: con più vasta significazione, anche nell’istante di dedicarle la vita hai detto: è l’Italia, e basta. L’adolescente ha confermato l’assunto del bambino: non si discute quando è la Patria in gioco!
Forse, nel momento della decisione, gli suona nel cuore per le misteriose vie dell’eredità di sangue, la voce di quell’antenato arcivescovo che dal pulpito di Trento osava mescolare il grido dell’irredentismo alle parole della fede: oggi pure si tratta di redimere l’Italia da un selvaggio, e Giancarlo non fraintende il richiamo.
Ardente come non mai, nei giorni stessi del caos settembrino Giancarlo si butta allo sbaraglio. Menti più mature della sua brancolano ancora nel buio: dov’è il bene, dove il male? Ha diritto chi vuol comandare, ha ragione chi non vuole obbedire? Qual’è il nemico, quale l’amico?
Ma Giancarlo non esita; il suo entusiasmo è perfettamente sereno perchè scevro da incertezze. Il padre, patriota purissimo anch’egli, è tuttavia sgomento da tanto fuoco; non ostacolerà il figlio nel cammino intrapreso ma vorrebbe almeno che altri, più esperti, preparassero la via. Ma Giancarlo è una fiamma viva, dove tocca accende; e il padre non resiste.
Da quell’istante casa Puecher diviene una forgia di passione italica. Chiamati da Giancarlo, altri giovani, amici e compagni d’infanzia, vi si adunano; problemi altissimi vengono affrontati e discussi.
Giancarlo insegna, propone, s’infiamma. Nell’età in cui altri cercherebbero una guida, si fa guida e guida sicura.
Intorno a lui stanno all’inizio 12 ragazzi dai diciotto ai ventitrè anni; Ballabio Felice, Porro Antonio, Ratti Ilo, Zappa Rinaldo, Rossini Carlo, Redaelli Mario, Gerosa Felice, Magni Elvio, Porro Guido, Rigamonti Grazioso, Todeschini Alberto e, subito dopo, Meroni Dino, tutti di Lambrugo. Essi sono il buon terreno in cui la semente darà frutti di sofferenza e di sangue.
Ma parlare non basta, agire bisogna!
Già durante il periodo dello sbandamento militare i Puecher avevano ospitato, assistito, avviato verso la montagna o le case numerosi sbandati. Ci sono tre ufficiali che forse conservano ancora il vestito avuto in dono nella rossa villa di Lambrugo.
Ma adesso è il momento dell’azione costruttiva.
I ragazzi nascosti in montagna necessitano di viveri, medicinali, indumenti, denari: tutto. Giancarlo cogli amici pensa a raccogliere e distribuire. Ma fra gli stessi che gli stanno vicino son dei renitenti, “disertori” reietti dai posti di lavoro… Al termine d’ogni riunione Giancarlo si guarda intorno — quello sguardo azzurro potranno mai dimenticarlo i compagni? –:
— Ragazzi, c’è qualcuno che ha bisogno?…
E tiene già il portafogli in mano, quasi a incoraggiare il “sì” peritoso.
Camerata vero, amico impareggiabile, araldo di fede patria, vede il nucleo degli adepti aumentare. Tutti fidati? Sul conto di qualcuno gli amici tentennano, ma Giancarlo è puro, non sospetta l’impurità.
Ora sono in parecchi. Le forze vengono divise in due campi: uno, in difensiva a Lambrugo, l’altro comandato dal tenente Fuci, per il deposito di armi e materiali a Pontelambro, e San Salvatore, località elevata sopra Erba.
Le armi, certo, non son molte; qualcuna l’hanno lasciata i militari sbandati, due moschetti li offre il parroco di Lambrugo, un caro prete che ha fatto l’altra guerra come cappellano degli Arditi riportandone i distintivi dell’onore — eh, don Edoardo Arrigoni, come sfavillano gli occhi, come si scalda il cuore ripensando a quel tempo! — e che adesso rivive momenti eroici assistendo questi suoi ragazzi nell’impresa audace, nel rischio mortale.
Si pensa a qualche colpo di mano. A Ceriano Laghetto, la caserma dei carabinieri… A Desio, nel Collegio Arcivescovile ci sono armi occultate… Ma nè l’uno nè l’altro va ad effetto. Il rettore del Collegio di Desio va in Germania…
Le ricerche, i contatti non sono facili e richiedono tempo, per quanto le biciclette volino sulle strade brianzole. Occorrerebbero macchine.
Un giorno Giancarlo è a Milano. Davanti alla Stazione Centrale sosta un’automobile tedesca. Piena luce, piazzale popolato, nessuno penserebbe a combinare un tiro. Infatti Giancarlo non pensa, chè sarebbe perder tempo. Agisce. Un vetro spezzato da un pugno, la portiera aperta dall’interno… La macchina balza, fugge, è fuori vista, è in campagna.
Chissà se il ragazzo che adesso impugna il volante conquistato ha per un attimo la visione della sua prima macchina, anch’essa conquistata, ma in ben altre circostanze! Si chiamava “Eulalia I”, e l’aveva costruita, giovinetto ancora, con le sue stesse mani dopo essersi procurato un miracoloso motore. Filava la straordinaria Eulalia; nei viali del giardino di Lambrugo profondi solchi testimoniavano della sua attività piuttosto turbolenta. Ma non avrebbe pensato il fanciullo d’allora, nè i parenti che assistevano con trepidazione a quelle manifestazioni d’esuberanza ardita, a quali sviluppi sarebbero giunte le precoci prodezze automobilistiche.
Via a velocità pazzesca guizzando sulle curve di quei serpenti che sono le strade di Brianza, le vetture “requisite” — ne arriva poi un’altra, fascista — compiono egregiamente l’imprevista missione.
Scarseggia però la benzina. Si sente dire che ve ne sia imboscata al Crotto Rosa di Erba. Lasciarla là a disposizione dei nazifascisti o dei borsaneristi sarebbe criminoso. Così la pensano i patrioti, così la pensa, fortunatamente anche il Maresciallo dei carabinieri di Erba.
Una notte, caso dovuto a un “miracolo”, la pattuglia dei militi non esce per la solita ronda. Proprio la stessa notte, vedi coincidenza, alcuni giovani che non hanno l’aria di clienti s’introducono al Crotto. Non vogliono bibite; liquido sì, ma di un genere potabile soltanto per il motore.
Quando gli inattesi ospiti se ne vanno, nel Crotto vi sono dei bidoni in meno e un ricordo di più; il ricordo di due splendidi occhi azzurri, perchè Giancarlo, per non spaventare due donne presenti al colpo, s’è tolto la maschera…
I fascisti cominciano assai presto a farsi sentire. Bieche figure prendono ad agitarsi intorno agli animosi eroi dell’idea: Airoldi, Bruschi, Saletta, illustri nomi della criminologia mussoliniana. Ma i patrioti non desistono e la guerra sorda allinea i colpi ai colpi. Ci sono proseliti da fare, munizioni da scovare, muli e cavalli del disciolto esercito da sottrarre all’avversario; c’è da drizzar le orecchie al minimo sentore di buon bottino, e correre. Talvolta si arriva tardi, come a Missaglia, in una villa dove il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) aveva segnalato armi e le armi non si trovano perchè la previdenza fascista le ha fatte sparire un’ora prima.
Giornate di fatica strenua, di pericolo assillante. Fatica e pericolo che sul volto di Giancarlo, rincasante a notte, si traducono in un maggiore affinamento di lineamenti belli, in un più chiaro ardore, in maschia e adulta tensione.
Tuttavia prudenti bisogna essere, per i compagni se non per sè. La collina di San Salvatore non sembra più adatta a mantener segreti: si trasporta allora tutto ciò che contiene a Pontelambro, in un cascinale di gente fidatissima.
Un giorno vien presentato a Giancarlo un viso nuovo: un biondino; un capo partigiano, gli vien detto da persona degna di fiducia. C’è un bel colpo da fare: benzina all’albergo Milano di Bellagio. Benissimo, si combina: tutto è pronto nei particolari, macchina compresa.
Senonchè, la mattina dopo il biondino non c’è più; il biondino è sparito con la macchina.
Non lo rivedranno dunque più a Lambrugo? Oh si, lo rivedranno in compagnia di tedeschi. Perquisizione, in casa Puecher e altrove. Non trovano nulla. Seccatissimi portano via la zia di Giancarlo, l’intrepida signorina Gianelli, e altre persone che assaggiano il carcere nazifascista per tre giorni.
(Particolare piccante: il biondino risulta nipote di un giornalista e radiocommentatore fascistissimo, ben conosciuto e stramaledetto dagli ascoltatori dell’Eiar).
Lo sguardo limpido, il chiaro viso di Giancarlo ormai danno l’incubo al fosco podestà di Erba che incalza con denuncie e ricerche, tanto che il giovane è costretto per qualche tempo a lasciare la zona.
Ma presto ritorna perchè qui è il teatro della sua passione, perchè qui è la ragione della sua esistenza; torna consapevole del pericolo e presentendo la morte. Quante volte cogli amici più intimi non s’è lasciato sfuggire la parola del presagio che ora diviene, nel chiaroveggente spirito, certezza!
Il 12 Novembre 1943, due repubblicani sono assaliti e uccisi da ignoti a Erba: il centurione Pontiggia e l’amico suo Pozzoli.
Perchè le indagini siano avvelenate dallo spirito di vendetta, vengono affidate a un fratello del Pozzoli. Immediatamente i dintorni della cittadina brianzola si fanno per i patrioti scottanti.
Ventiquattr’ore sono appena scorse dal fatto, che Giancarlo Puecher e un suo compagno, forti della loro perfetta innocenza, si mettono in sella per una delle ormai solite missioni. A Lezza, tra Pontelambro ed Erba, un alt, poi colpi d’arma da fuoco…
Giancarlo, che ha subito gettato la pistola, viene preso, percosso. Perchè? Non ha sparato, non gli trovano indosso nulla di compromettente, agli occhi dei catturatori non dovrebbe risultar colpevole che di contravvenzione al coprifuoco. Ad ogni buon conto picchiano.
Il suo compagno, ferito, è in possesso di manifestini antifascisti dei quali, all’insaputa di Puecher, assume tutta la responsabilità.
La prigione si spalanca davanti ai due, richiudendosi alle loro spalle. La mattina dopo è incarcerato anche il Dott. Giorgio Puecher, il padre reo d’aver continuato nel figlio la tradizione eroica della famiglia sua.
Ed ha inizio, dopo le pagine dell’audacia disfidante, l’ultima, la sovrumana, quella del coraggio santo che non trova il suo sfogo nell’azione nè il suo premio nel successo, che attinge alle sole forze dello spirito mentre il corpo langue e la gioia dell’iniziativa è preclusa. Il coraggio dei martiri.
I giorni lugubremente scorrono nel carcere infame, martellando la resistenza fisica dei predestinati, non la resistenza morale; chè anzi tanto si eleva e palpita e vive la fiamma dell’idea, da erompere a un dato istante in un getto di luce fulgidissima, simile a quella che resta ad illuminare per sempre le celle di Sauro, di Battisti e di Oberdan.
Giorgio e Giancarlo Puecher potrebbero fuggire, se volessero; l’ha comunicato segretamente una voce amica: i carabinieri, al momento concertato, chiuderanno gli occhi…
Non fuggono. E’ una cosa tanto semplice a dire: non fuggono. Con altrettanta semplicità padre e figlio la compiono, questa cosa sovrumana ch’è la rinunzia a un’evasione. Quando restare significa prigionia senza fine, umiliazioni, percosse, tortura, quando restare significa forse la morte, restano. Per non abbandonare i compagni incarcerati con loro, restano. E’ tanto semplice per anime come Giorgio e Giancarlo Puecher […] Al Dott. Giorgio Puecher vien diretta la seguente lettera: “Egregio Signore, A me fu affidata la dolorosa missione di assistere Vostro figlio nei suoi ultimi momenti. La sua immagine è viva nella mia mente e nel mio cuore, perchè la sua morte fu così serenamente cristiana da far stupire e commuovere fino alle lagrime tutti i presenti.
Alle due di notte lo avvicinai nella sala del Tribunale; mi accolse con affabilità e, prima ancora che io ne accennassi, domandò di essere comunicato. Non avevo con me il Santissimo e subito mi recai a prenderlo nella vicina Parrocchia. Volle fare la Sacramentale Confessione di tutta la sua vita, poi si comunicò col fervore di un Angelo. Mi parlò del papà, dei fratelli, di don Carlo Gnocchi, del Padre Marabotti (se ben sovvengo questo cognome); ciò che avvenne fra me e lui è inesprimibile… durante il percorso pregammo insieme. Giunti… Giancarlo, dissi, vieni ancora pochi istanti e poi ti getterai nell’amplesso della mamma tua che ti attende. L’accompagnai al… gli diedi la Sacramentale Assoluzione, lo abbracciai e baciai ancora una volta, l’ultimo bacio fu al Santo Crocefisso ed all’immagine della Vergine Maria, poi gli posi in mano la Corona del Santo Rosario… appena cadde corsi da lui e lo unsi coll’Olio Santo. Il medico ne costatò la morte immediata.
Appena fatto giorno celebrai la Santa Messa in suffragio dell’anima sua, e non passa giorno senza che io abbia un fervido momento per lui.
Caro Signore, non Vi dico di non piangere, di soffrire stoicamente (parola stolta per un cristiano), ma di essere cristianamente forte nel Vostro dolore come lo fu nella sua morte Vostro figlio.
Invoco su di Voi e sulla Vostra famiglia la pace e la benedizione di S. Francesco”. Dev.mo Padre Bastaroli Fiorentino.

Irene Crippa, Op. cit. infra: Erba – La muraglia del cimitero – “… vi sedette un tribunale fittizio a consumare, con un simulacro di processo, una reale infamia”. Fonte: Brianza Popolare

Contemporaneamente, alla stampa fascista vengono inviate cronache di questo genere: LA FUCILAZIONE DI UN PERICOLOSO BANDITO “Questa notte a Erba veniva giustiziato un temibile fuorilegge, autore di numerose rapine a danno di pacifici cittadini, e mandante di svariati omicidi. Il bandito, ch’era divenuto il terrore delle popolazioni vallassinesi e brianzole, era un certo Giancarlo Puecher…“. La popolazione di Erba accorre a portare bracciate di fiori sul tumulo del bandito Puecher. Allarmatissimi, i fascisti mettono piantoni alla tomba incaricandoli di togliere qualsiasi segno di omaggio; e ancora devono strapparne i fasci. Proibiscono allora, a chiunque voglia, di avvicinarsi.
Nel muro di cinta del camposanto, intorno alla figura del giustiziato i proiettili hanno scavato dei fori profondi. Una mattina, in ogniuno di essi, appare un fiore.
Così agiscono le popolazioni terrorizzate. A Lambrugo, altro paese brianzolo, la salma di Giancarlo Puecher giunge due mesi dopo, per graziosa concessione delle autorità fasciste. Proibizione di ogni concorso popolare; il sacerdote ha appena il tempo di benedire il feretro, poi deve allontanarsi.
Tanto temono ancora i mussoliniani dal ragazzo che hanno ucciso? Temono infatti; non sanno ma presentono.
Perchè “i martiri convalidano la fede in una vera idea”.
Perchè il ragazzo dagli occhi azzurri ha detto: “giovani d’Italia, seguite la mia via”, ed i giovani la seguono.
Perchè “la via” di Giancarlo è quella della luce ed essi sono nell’ombra, quella dell’amore ed essi sono nell’odio, quella della Patria che li maledice da tutte le sue ferite mentre stende le braccia ai figli santi che ancora sanno incoronarla di gloria..

Irene Crippa, Renate Brianza, 6 novembre 1945 – Editore originale: Stefano Pinelli – Milano; Trascrizione per Internet: Enrico Spreafico mail:sprea@libero.it: (Enrico Spreafico il 13 ottobre 2003: Un libro dimenticato e ritrovato. Un documento scritto “a caldo”, nei mesi seguenti la Liberazione e dato alle stampe nel novembre 1945. E’ un libro “partigiano” scritto da una partigiana, Irene Crippa, sulle ferite ancora aperte e su quelle battaglie appena concluse. E’ un’opera importante per coloro che vogliono capire come le varie organizzazioni partigiane della Brianza si siano formate e collegate, e conoscere quello che in quei giorni cruciali accadde. Il libro viene messo in rete con il gentile consenso delle Arti Grafiche Stefano Pinelli di Milano, azienda che allora ne curò la stampa) – 2 gennaio 2006 – Brianza Popolare

È stata ricostruita l’occupazione tedesca e l’intensificarsi della caccia agli ebrei. L’Alta Brianza e la Vallassina furono luogo di confino di ebrei di origine straniera e per la loro configurazione geografica, luogo di transito per l’espatrio in Svizzera, non solo di ebrei, ma anche di sbandati, prigionieri alleati, renitenti alla leva nei ranghi dell’esercito della R.S.I.. A questo proposito è parso interessante e doveroso, dedicare una parte del lavoro alla memoria dei sacerdoti che costruirono un rete di solidarietà e di aiuto, per chi doveva fuggire e offrirono inoltre il loro appoggio alla costituzione delle prime forme di Resistenza. Anche in Alta Brianza e Vallassina, vi furono parroci che parteciparono in modo attivo alla Resistenza, collaborando alla lotta armata (senza imbracciare il mitra) e non solo all’assistenza alla popolazione, agli sbandati, agli ebrei, secondo lo stereotipo che nel dopoguerra voleva i cattolici partecipanti alla lotta di Liberazione quasi unicamente in forma assistenziale. Spesso del resto, i C.L.N. locali si riunivano proprio nelle parrocchie. <1
Nel breve ritratto del giovane Giancarlo Puecher, prima medaglia d’oro della Resistenza, è posto in rilievo come spesso in Brianza i primi gruppi partigiani furono composti da sacerdoti e laici, vista anche l’importanza che ebbe nella formazione di Puecher, la frequentazione di due sacerdoti resistenti: Don Giovanni Strada, parroco di Ponte Lambro e Don Edoardo Arrigoni, parroco di Lambrugo. È stata quindi ricostruita la seconda Resistenza in Alta Brianza e Vallassina, nei suoi aspetti particolari: la risposta ai bandi di leva della R.S.I., la Resistenza attiva e passiva della popolazione, la partecipazione allo sciopero del 1 marzo 1944, la crescita delle fila del C.L.N. e la nascita di altre.
[…] Il 20 dicembre ’43 alle ore 9.30 venne ucciso lo squadrista Germano Frigerio.
I fascisti non riuscendo ad individuare i responsabili, riversarono sugli oppositori locali la colpa, istituendo immediatamente un Tribunale Speciale, che con un processo farsa condannò a morte Giancarlo Puecher in prigione da un mese. Il Prefetto Scassellati, il 21 dicembre 1943, comunicò al Ministro dell’Interno, al Capo della Polizia, al Segretario del Partito, al Comandante della Guardia Nazionale, al Comandante Germanico e al Comandante Militare la sentenza emessa alle ore 3.00 del 21 dicembre 1943 dal Tribunale Speciale di Erba con cui Puecher era stato condannato alla pena capitale e gli altri imputati a pene varianti da trenta a cinque anni di reclusione. <9
[…] Il 13 settembre ’43, come riferisce la “Relazione storica del parroco Don Giovanni Strada” <10, fu costituita, alla presenza di Giancarlo Puecher Passavalli, il primo gruppo autonomo partigiano, formato a Ponte Lambro <11
Il modello era quello dell’ordinamento militare, una specie di plotone. I fascisti li considerarono “Badogliani” (cioè seguaci di Badoglio).
Il più giovane fra questi primi volontari per la difesa della libertà era G. Puecher, il quale assumendo l’incarico di vice comandante e rendendosi conto del rischio personale e della responsabilità verso gli altri, scrisse una dichiarazione-testamento, nella quale espresse le sue ultime volontà con lucida determinazione ed espressione di ideali e di sentimenti.
Il giovane capì subito che lo schieramento da seguire non era quello nazi-fascista; la sua educazione religiosa e l’amor patrio lo portarono a scegliere di non essere spettatore, ma un attore presente ed attivo nella Resistenza. Scrisse Pietro Calamandrei <12: “Era giunta l’ora di resistere, era giunta l’ora di essere uomini; di morire da uomini per vivere da uomini”. <13
Verso il 17 settembre per le continue sollecitazioni del padre, Giancarlo, con il conte Sormani, tentò di passare in Svizzera, ma non riuscì e nel ritorno si imbatté in una pattuglia di tedeschi che lo portarono in caserma a Como con altri giovani che non erano riusciti ad espatriare. Il giovane, con coraggio e risoluzione, consapevole della imminente deportazione, prese l’iniziativa di convincere l’interprete ad allontanare, con la scusa di reperire i moduli per trascrivere le generalità dei prigionieri, l’ufficiale tedesco e, inquadrati i compagni, uscì dal portone della caserma, salutando militarmente le sentinelle come se si trattasse di un regolare trasferimento. Quando i tedeschi si accorsero dell’equivoco era troppo tardi. <14
Non è facile stabilire, anche con attente ricerche d’archivio, i particolari delle operazioni compiute da Giancarlo Puecher, nelle settimane fra la sua decisione di aderire al gruppo autonomo di Ponte Lambro (13 settembre 1943) e la sua cattura avvenuta la notte del 12 novembre 1943. Nella denuncia che fu inviata dal Questore Pozzoli al Tribunale Speciale militare di Como, era citato l’episodio dell’assalto all’albergo “Crotto Rosa” di Erba, da dove furono asportati dei bidoni di benzina, lì a disposizione dei nazifascisti e borsaneristi, essendo i proprietari dell’albergo famosi fascisti. <15
L’azione fufatta passare come avente carattere di comune rapina, mentre si trattava di un’azione politica a scopo intimidatorio contro i proprietari e di un’azione militare per la requisizione del carburante che ormai scarseggiava. Visto che si sapeva che al “Crotto Rosa”, covo di borsaneristi, erano imboscate buone quantità di benzina. Numerose testimonianze smentiscono il fatto che Puecher agisse, in questa azione, come in altre, mascherato. Gianfranco Bianchi, autore dell’opera “Giancarlo Puecher”, scrisse: “anche il podestà di Erba, poi commissario prefettizio durante la RSI, Alberto Airoldi, detto Nanni, radunando i suoi ricordi, per rispondere al questionario formulatogli, ai fini dell’accertamento dei fatti da esporre in questa rievocazione, non si è pronunciato sul particolare della maschera”. <16
Le azioni avevano il carattere di colpi di mano, piuttosto sporadici, tesi a procurare armi, materiale, viveri, benzina, macchine da inviare ai gruppi che operavano sui monti e in questa fase anche Puecher, come gli altri, era convinto che gli Anglo-Americani, sarebbero giunti presto.
Il raggio d’azione di Puecher aveva come centro Ponte Lambro, luogo vicino ai monti sui quali si poteva scappare e non troppo lontano da Lambrugo, dov’era la sua famiglia. Raggruppati una ventina di uomini, Puecher e Fucci requisirono ai contadini i materiali dell’esercito di cui si erano appropriati dopo l’8 settembre ’43, seguirono varie azioni di disarmo di militi della R.S.I.
Dal verbale della denuncia inviata dal questore Pozzoli al Tribunale di Como, vi era scritto che Puecher fu autore di furti di automobili a Milano: una 1100 nera e un’Augusta. A proposito della 1100 nera 6 posti, da una testimonianza al presidio della Milizia Volontaria della Sicurezza Nazionale, fatta dal signor Airoldi, il giovane Puecher risultava pronto nell’agire e assai audace:
“[…] Verso i primi di ottobre non rammento con precisione il giorno alle ore 11 circa mi trovavo alla Pasticceria Bosisio di Erba; osservai davanti al negozio di elettricista Pizzoni una macchina 1100 6 posti nera sulla strada che porta alla Casa del Fascio, volta in direzione di questa. La macchina era pilotata da un giovane da me conosciuto e precisamente dal Puecher che mi risultava sfollato a Lambrugo. Notai che la macchina non si avviava per quanto il Puecher facesse. Accorsi per aiutarlo ma il motore si era avviato; salutai il detto Puecher con il quale entrai in conversazione. Poiché egli sedeva al volante ed io mi trovavo accanto a lui sulla strada appoggiato alla vettura, volsi lo sguardo all’interno della vettura e notai che tanto sul sedile anteriore e vuoto che su quello posteriore giacevano evidentemente armi sebbene coperte da teli. Il Puecher mi confermò che appunto trasportava armi per conto di certa Guardia Nazionale. Soggiunse che anche la vettura era di proprietà di tale Istituzione. Finalmente mi salutò e partì nella direzione surriferita”. <17
Anche il Comandante Fucci rubò a Milano una Topolino, che aveva sul vetro il foglio di requisizione del comando tedesco <18. Il 15 e il 17 settembre Puecher e Fucci recuperarono quattro cavalli e sei muli, abbandonati dall’esercito, dandoli in custodia ai contadini di Lambrugo. Armi vengono recuperate a Bindella, a Erba, a Cusano Milanino. Il materiale è portato a San Salvatore e quando il vecchio convento non fu più sicuro a Ponte Lambro <19
L’azione del gruppo di Ponte Lambro era finalizzata a rifornire i gruppi partigiani della vicina montagna. Francesco Magni, nel libro di memorie “I Ribelli della Resistenza nelle Prealpi Lombarde”, che è in pratica la storia della 55ª Brigata Rosselli, parla di un incontro che egli ebbe con Puecher nel 1943 a Lambrugo, per consolidare i legami fra montagna e pianura <20. Nel novembre del ’43 il gruppo di Ponte Lambro attuò alcune azioni dirette: sabotaggio delle linee
telefoniche tedesche nella zona Canzo-Asso. Il 4 novembre la scalinata del monumento ai Caduti di Erba fu ricoperta di volantini che esaltavano la patria e la libertà e una bandiera tricolore fu issata in cima, come fu segnalato il 5 novembre 1943 al Commissario Prefettizio dai militi del distaccamento delle CC. NN. <21.
Questo primo nucleo partigiano finì per destare l’interesse dei comandi milanesi, che stavano allora organizzandosi.
A metà ottobre, a Ponte Lambro, presso la canonica di Don Strada avvenne l’incontro tra Poldo Gasparotto, il colonnello Alonzi, incaricato dal comitato militare del C.L.N. milanese di tenere i collegamenti con il comasco, il colonnello Morandi, il tenente Fucci e Giancarlo Puecher al fine di organizzare nuclei partigiani stabili nella zona del Triangolo Lariano e canali di espatrio più sicuri di quelli che erano stati creati spontaneamente nella zona, dalle popolazioni, dagli antifascisti e dal clero <22. Il comandante Fucci <23 e il vice comandante Puecher agirono sempre, fino alla cattura, in stretto contatto, essendo i più audaci; assieme vennero anche catturati nella serata del 12 novembre, in modo casuale e come conseguenza di un episodio avvenuto lo stesso 12 novembre alle ore 18 a Erba: l’uccisione da parte di sconosciuti del centurione della milizia e cassiere del Banco Ambrosiano Ugo Pontiggia e dell’amico Angelo Pozzoli. <24
[NOTE]
1 Gariglio Bartolo, Cattolici e Resistenza nell’Italia Settentrionale, Edizione Il Mulino, Bologna 1997, di Carlotti Anna Lisa, Il laicato cattolico in Lombardia e la lotta di Liberazione, p.144.
9 Cfr. ASC, Fondo Prefettura, Carte di Gabinetto, II versamento, Carte riservate Scassellati cart. 2, sentenza del Tribunale Speciale di Erba, 21.12.1943, foglio n.154/Ris.sp.
10 Cfr. Bianchi Gianfranco, Giancarlo Puecher, Ed. Arnaldo Mondadori Editore, Milano 1965, p.16.
11 Gli appartenenti al gruppo di Ponte Lambro erano: Sacerdote Don Giovanni Strada, cappellano militare e amministratore generale del gruppo; Fucci Dott. Franco, comandante; Puecher Giancarlo, vice comandante; Rizzi Giovanni, vice comandante; Casanova Gaetano, Furiere; Alaimo Bartolomeo; Ballabio Felice; Ballabio Andrea; Bianchi Enrico. Cfr. Bianchi Gianfranco, op. cit., p.16;
12 PIETRO CALAMANDREI, nato a Firenze il 21 aprile 1889, dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università di Pisa nel 1912 partecipò a vari concorsi e nel 1915 fu nominato professore di procedura civile all’Università di Messina. Successivamente (1918) fu chiamato all’Università di Modena e Reggio Emilia per poi passare due anni dopo a quella di Siena ed infine, nel 1924, scelse di passare alla nuova facoltà giuridica di Firenze, dove ha tenuto fino alla morte la cattedra di diritto processuale civile. Prese parte alla Prima guerra mondiale come Ufficiale volontario combattente nel 218° reggimento di fanteria; ne uscì col grado di Capitano e fu successivamente promosso Tenente Colonnello, ma preferì uscire subito dall’esercito per continuare la sua carriera accademica. Politicamente schierato a sinistra, subito dopo la marcia su Roma e la vittoria del fascismo fece parte del consiglio direttivo dell’Unione Nazionale fondata da Giovanni Amendola. Partecipò, insieme con Dino Vannucci, Ernesto Rossi, Carlo Rosselli e Nello Rosselli alla direzione di “Italia Libera”, un gruppo clandestino di ispirazione azionista. Manifestò sempre la sua avversione alla dittatura mussoliniana, aderendo nel 1925 al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Durante il ventennio fascista fu uno dei pochissimi professori e avvocati che non ebbe né chiese la tessera del Partito Nazionale Fascista continuando sempre a far parte del movimento antagonista, collaborando ad esempio con la testata “Non Mollare”. Nonostante ciò, nel 1931 giurò come professore universitario fedeltà al regime fascista. Contrario all’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale a fianco della Germania, nel 1941 aderì al movimento “Giustizia e Libertà” ed un anno dopo fu tra i fondatori del Partito d’Azione insieme a Ferruccio Parri, Ugo La Malfa ed altri. In questo periodo (1939-1945) tenne un diario, pubblicato nel 1982. Nominato Rettore dell’Università di Firenze il 26 luglio 1943, dopo l’8 settembre fu colpito da mandato di cattura, cosicché esercitò effettivamente il suo mandato dal settembre 1944, cioè dalla Liberazione di Firenze, fino all’ottobre 1947. Nel 1945 fu nominato membro della Consulta Nazionale e dell’Assemblea Costituente in rappresentanza del Partito d’Azione. Partecipò attivamente ai lavori parlamentari come componente della Giunta delle elezioni della commissione d’inchiesta e della Commissione per la Costituzione italiana. I suoi interventi nei dibattiti dell’assemblea ebbero larga risonanza: specialmente i suoi discorsi sul piano generale della Costituzione, sui Patti lateranensi, sulla indissolubilità del matrimonio, sul potere giudiziario. Quando il Partito d’Azione si sciolse, entrò a far parte del Partito Socialdemocratico Italiano, con cui fu eletto deputato nel 1948. Contrario alla «legge truffa» votata anche con l’appoggio del suo partito, fondò dapprima il movimento politico Autonomia Socialista, e nel 1953 prese parte alla fondazione del movimento di “Unità popolare” con il vecchio amico Ferruccio Parri, che, nonostante l’esiguo risultato ottenuto, fu decisivo affinché la Democrazia Cristiana e i partiti suoi alleati non raggiungessero la percentuale di voti richiesta dalla nuova legge per far scattare il premio di maggioranza. Morirà a Firenze il 27 settembre 1956. Cfr. AA.VV., Nuova Storia Universale-Dizionario di Storia, Vol. 1, Ed. Garzanti, Torino 2004;
13 Cfr. De Antonellis Giacomo, Il Caso Puecher. Morire a vent’anni partigiano e cristiano, Ed. Rizzoli 1984, p.26;
14 Cfr. Bianchi Gianfranco, op. cit., p.19;
15 Cfr. ASC, Fondo Prefettura, Carte di Gabinetto, II versamento, Carte riservate Scassellati cart.2, relazione del Questore Pozzoli al Capo della Provincia, 10.03.1944, foglio s.n.;
16 Cfr. Bianchi Gianfranco, op. cit., p.80;
17 Cfr. ASC, Fondo Prefettura, Carte di Gabinetto, II versamento, Carte riservate Scassellati cart.2, verbale di testimonianza di Airoldo Airoldi, 24.11.1943, foglio s.n.;
18 Cfr. Bianchi Gianfranco, op. cit., p.83;
19 Cfr. Arienti Pietro, La Resistenza in Brianza 1943-1945, Ed. Bellavite Missaglia 2006, p.45;
20 Cfr. Ibidem;
21 Cfr. ASC, Fondo Prefettura, Carte di Gabinetto, II versamento, Carte riservate Scassellati cart.2, segnalazione del distaccamento delle CC. NN. al Prefetto, 5.11.1943, foglio s.n.;
22 Cfr. Roncacci Vittorio, La calma apparente del lago. Como e il comasco tra guerra e guerra civile 1940-1945, Macchione Editore Varese 2003, p. 241;
23 FRANCO FUCCI, ufficiale sbandato del V° Alpini, reduce dalla campagna di Grecia, di stanza a Milano, ma dopo il bombardamento dell’agosto 1943 sfollò a Lecco. Cfr. Arienti Pietro, op. cit., p.43;
24 Cfr. “La Provincia di Como”, 16 novembre 1943, foglio s.n.; Cfr. “La Provincia di Como”, 21 novembre 1943, foglio s.n.; Cfr. “La Provincia di Como”, 23 novembre 1943, foglio s.n.; Cfr. “La Provincia di Como”, 7 dicembre 1943, foglio s.n.;
Laura Bosisio, Guerra e Resistenza in Alta Brianza e Vallassina, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2008-2009

Quella del Puecher viene definita una figura emblematica del movimento antifascista globalmente inteso e di quello cattolico in particolare.
Nella sua storia personale si esprime l’intera storia della Resistenza: quella di tanti giovani che, a migliaia, si unirono agli adulti per costruire una componente, quella cattolica, non unica ma essenziale e necessaria della Resistenza italiana.
Giancarlo Puecher Passavalli nasce a Milano nel 1923 sotto auspici favorevoli, appartenendo ad una famiglia agiata che poteva vantare un titolo nobiliare.
Il padre Giorgio, stimato notaio, era stato volontario nel primo conflitto mondiale; politicamente si considerava un liberale ma l’avvento del regime l’aveva indotto a dedicarsi esclusivamente alla famiglia e al lavoro.
La madre Annamaria Gianelli era una donna disinvolta, moderna nei gusti e in grado di trasmettere ai suoi cari la propria giovialità.
Entrambi nutrivano una profonda fede in Cristo e nella sua istituzione terrena, la Chiesa cattolica.
Nell’arco della sua breve esistenza Giancarlo è sempre accompagnato dalla travolgente passione sportiva che lo porta ad affermarsi nel ciclismo, nel nuoto, nell’equitazione, nell’atletica, nel tennis, nelle discipline invernali e nelle competizioni motoristiche.
Questa sua passione non gli impedisce di applicarsi con profitto nello studio.
La sua formazione iniziale avviene nella scuola elementare di via Spiga, luogo deputato ad accogliere i figli della Milano-bene.

Milano: uno scorcio dell’Istituto Leone XIII

Terminate le elementari frequenta le medie inferiori all’istituto statale Parini; si iscrive poi all’Istituto Leone XIII, gestito dai padri gesuiti.
Terminato anche questo ciclo di studi decide, seppur contro voglia, di intraprendere gli studi giuridici per seguire il padre nella carriera notarile.
Ricco, intelligente e vivace, il giovane Puecher può superare le asprezze e i sacrifici della vita grazie all’attenzione dei genitori, che gli trasmettono una profonda devozione religiosa.
Nel 1941 la signora Annamaria Gianelli cede improvvisamente al male incurabile che l’aveva aggredita un anno prima; ne deriva un profondo periodo di crisi per il giovane, il quale tenta di colmare il vuoto venutosi a creare ricercando nuovi affetti nelle figure della zia Lia Gianelli e di Elisa Daccò, ragazza che egli aveva già scelto come compagna della sua vita.
Durante l’università Giancarlo porta avanti i suoi sogni di “defensor patriae” (Bianchi, 1965) e fa domanda di volontario quale pilota nell’Arma Azzurra, ma la destituzione di Mussolini nel luglio del 1943 gli impedisce di rendersi utile come aviatore.
Il giovane Puecher è estraneo alla politica, ma vive l’amor di patria come sentimento naturale, senza una specifica preparazione ideologica, se non quella del Vangelo.
La strada scelta da Giancarlo rientra nel filone cattolico democratico che si collega al Movimento guelfo d’azione, anche se egli non lo conosce direttamente.
Spinto dal desiderio di un profondo rinnovamento etico, viene a contatto con un’embrionale formazione partigiana autonoma, organizzata sui monti a nord di Erba dal tenente degli alpini Franco Fucci, diventandone uno dei punti di riferimento. Il gruppo è composto da pochi giovanissimi, dai diciotto ai ventitré anni; nel loro programma pochi obbiettivi ma funzionali: offrire assistenza agli sbandati, arrecare disturbo ai tedeschi, colpire il nemico senza spargimenti di sangue con azioni di risonanza.
Giancarlo e il suo gruppo non hanno né remore né timori: quando si affronta una strada anti-conformista occorre accettare la circostanza dell’imprevisto; hanno solo un sogno: vedere un’Italia libera e ricostruita soprattutto nello spirito.
Se l’epilogo del sogno dovesse coincidere con la morte, questo non li turba.
L’imprevisto si presenta la notte del 12 dicembre ‘43: nel corso del trasporto di esplosivo e di materiale di propaganda, Giancarlo viene sorpreso e catturato nei pressi di Erba, mentre Fucci, che lo accompagna, rimane gravemente ferito al ventre in un tentativo di reazione. La sua condizione di prigioniero politico lo rende pericolosamente oggetto delle rappresaglie repubblichine.
Il giorno 20 dicembre, a causa dell’uccisione di un noto squadrista locale Germano Frigerio, il prefetto di Como Franco Scassellati impone la costituzione di un tribunale straordinario che sentenzia la morte per Puecher e altri tre partigiani. Le condanne a morte di questi vengono subito commutate in pesanti pene detentive, quella di Puecher viene mantenuta.
L’avvocato Beltramini non riesce ad impedire la fucilazione di Giancarlo, essendo questa un atto preventivamente deciso dai dirigenti fascisti.
A Puecher rimane solo il tempo di scrivere un’ultima lettera al padre, che succesivamente deportato, morirà a Mauthausen.

Irene Crippa, Op. cit.: Erba – La muraglia del cimitero – “La mattina dopo, in ogni foro di proiettile era sbocciato un fiore… Oggi ancora fiori, sempre, dove un nome sul pilastro ed una scrostatura nell’intonaco segnano il punto del crimine senza nome”. Fonte: Brianza Popolare

Poi viene condotto al cimitero di Erba dove, dopo aver abbracciato in segno di perdono cristiano i componenti del plotone d’esecuzione, viene fucilato alle 2 del mattino del 21 dicembre 1943, alla luce dei fari di un camion.
Giancarlo Puecher Passavalli, partigiano e cristiano, è una delle prime vittime della guerra di liberazione. Come sottolinea Giacomo De Antonellis (autore della seconda biografia di Puecher), “il caso Puecher” deve servire a ricordare e non dimenticare chi ha perso la vita per riconquistare la libertà e la democrazia.
Massimiliano Suardi e Alessandro Vecchi, La Resistenza di Giancarlo Puecher in La Conca, Periodico del Centro culturale Conca Fallata – 60° Liberazione – anno XIII – aprile 2005

Il Puecher era totalmente estraneo a quel fatto di sangue, ma la sentenza era per così dire “già scritta”. Alcuni di loro dovevano essere passati per le armi poiché i fascisti non avevano altri da incolpare.
In realtà l’unico ad essere giustiziato fu Giancarlo Puecher, mentre sull’arbitrarietà della condanna e sulle irregolarità processuali si espresse persino il Guardasigilli della Repubblica Sociale. Ma è all’atto conclusivo della vicenda terrena di Puecher che egli scrisse una delle pagine forse più alte della Resistenza dell’Alta Italia. Affrontò quel tragico momento con una fede simile a quella dei cristiani delle origini. Infatti ad un milite del plotone d’esecuzione chiese il suo nome, perché: “…Tra poco andrò in Paradiso a raggiungere mia madre e lassù pregherò per tutti voi. Non siete responsabili di quanto state facendo. Vi perdono tutti…” <160.
Poi le armi crepitarono e il corpo di Puecher cadde a terra in prossimità del muro del cimitero nuovo di Erba.
Era la fredda notte del 21 dicembre del 1943.
Qualche giorno dopo il padre, Giorgio, venne tratto ancora in arresto. Dopo essere passato per il campo di concentramento di Fossoli, si spense presso il lager di Mauthausen a causa degli stenti patiti.
Sul piccolo monumento presso la canonica nella piazza di Lambrugo sta scritto, con riferimento ai martiri Giorgio e Giancarlo Puecher: “…Non piangeteci ma ricordateci!…” <161.
Una memoria “attiva” ci è quindi richiesta, cioè contemporanea: non si rimane eroi per sempre. Ma la vicenda del giovane Puecher non è soltanto un atto di eroismo. Secondo le parole di David Maria Turoldo è “…un sacrificio che grida contro la nostra dimenticanza, a dir poco, e fa coro con quanti hanno saputo morire ‘per amore’ come lui…” <162.
Cioè è un gesto estremo di amore per le persone e per il mondo. Di fronte alla vita il cattolico dimostra di avere responsabilità elevatissime, ma è al cospetto del mistero della morte che cerca la serenità che proviene dalla fede e la speranza quindi riposta nella promessa della vita eterna.
Un gesto che è lotta di Liberazione: perché così nacque allora la guerra partigiana.
Leo Valiani affermò che: “Nacque spontaneamente, ma per dirigerla ci volevano o dei militanti antifascisti esperti di organizzazione illegale oppure dei prodi, come Giancarlo Puecher, mossi da puro impulso morale e patriottico, che rivelarono inattese attitudini alla guerriglia e al comando”. <163
160 Giacomo de Antonellis, Il caso Puecher, ed. Civitas, Roma, p. 129.
161 Ivi, p. 191.
162 Ivi, p. 221.
163 , p. 225.
Giovanni Bianchi e Andrea Rinaldo, La Resistenza dalla foce. Quale nazione per gli italiani postmoderni, Eremo e Metropoli Edizioni, Sesto San Giovanni, aprile 2017

[…] Giancarlo Puecher Passavalli. Fucilato dai fascisti a vent’anni dopo un processo-farsa diretto da Sallusti nonno, denigrato decenni dopo da Sallusti nipote. La voce che gli dedica Wikipedia usa Sallusti Jr. come fonte, sminuisce il caduto e la sua scelta, sfuma le responsabilità dei suoi assassini. Il tutto grazie a Jose Antonio.
Giancarlo Puecher Passavalli fu la prima medaglia d’oro al valor militare della resistenza in Lombardia, fucilato dalle milizie repubblichine il 21 dicembre 1943. Di famiglia borghese e di stretta osservanza cattolica, nel luglio 1943 si arruola nell’aeronautica, ma dopo l’8 settembre con lo sfacelo dell’esercito e l’occupazione nazista dell’Italia inizia convintamente a organizzare nella zona tra Lambrugo ed Erba un primo nucleo di partigiani, per poi continuare nelle aree limitrofe la sua azione. La sua casa, dove vive con il padre Giorgio, notaio, diviene un luogo d’incontro e organizzazione della resistenza al nazifascismo nella provincia di Como.
Se si consulta la voce dedicatagli su it.wiki e si passa in rassegna la cronologia degli edit, subito si nota una lunga serie di interventi di Jose Antonio nella voce, più di sessanta edit tra il 10 e il 20 giugno 2010.
Per dar conto dell’evoluzione nel tempo di questa voce dell’Enciclopedia libera, il punto d’ingresso qui scelto risale ad alcuni mesi dopo l’intervento massiccio di Jose Antonio, precisamente al 14 novembre dello stesso anno. In quella giornata compare infatti sul quotidiano Il Fatto un’intervista di Luca Telese ad Alessandro Sallusti, pubblicata col titolo I topi scappano. Per il dopo c’è solo Marina. L’intervista verte su temi di stretta attualità della politica istituzionale; la Marina citata nel titolo, infatti, è la figlia di Silvio Berlusconi e tanto basta. A un certo punto Sallusti regala a Telese uno di quegli aneddoti che fanno gola a chi è interessato principalmente alla visibilità di un pezzo, tanto da pubblicare poi senza nessuna verifica quanto gli viene raccontato. Una «storia di famiglia» che Sallusti presenta come una confidenza: «Vedi, ti devo raccontare una storia della mia vita che nessuno conosce, nemmeno Giampaolo Pansa, neanche Vittorio Feltri». La storia è quella di Biagio Sallusti, nonno dell’intervistato, tenente colonnello dell’esercito repubblichino, che il 20 dicembre 1943 fu incaricato dal prefetto di Como a presiedere il tribunale militare straordinario che condannò a morte Giancarlo Puecher Passavalli. Nelle parole di Sallusti la vicenda viene raccontata così:
«[…] scoprivo che dopo quattro vigliacchi rifiuti dei suoi superiori di grado, perché la Repubblica di Salò era ormai alla fine e i partigiani alle porte, mio nonno aveva accettato di dirigere il tribunale che doveva giudicare Aldo Pucher, partigiano accusato per l’omicidio del federale Aldo Resega. Mio nonno salvò gli altri sei imputati, ma fu fucilato per quell’unica esecuzione.»
In sessanta parole, Sallusti infila una serie di affermazioni prive di fondamento, oltre che pesantemente denigratorie della figura di Giancarlo Puecher Passavalli. Innanzitutto storpia il nome di quest’ultimo in «Aldo Pucher»; gli addossa l’accusa dell’omicidio di Aldo Resega («capo del fascismo milanese», dal giugno 1943, passato poi al servizio della repubblica fantoccio di Salò), avvenuto da parte gappista a Milano il 18 dicembre 1943, quando Puecher Passavalli era in stato di arresto già dal 12 novembre 1943; va da sé, infine, che, nel dicembre del 1943, la Repubblica di Salò era agli esordi e lontana dalla sua fine, e la resistenza al nazifascismo ancora in fase embrionale.
Una settimana dopo la pubblicazione di quell’intervista, la nipote di Puecher Passavalli, Orsola Puecher pubblica sul blog Nazione Indiana un post per ribattere alle falsità storiche pronunciate da Sallusti nei confronti del nonno, definendole «un vero e proprio vulnus alla sua memoria e alla sua figura luminosa». Il post porta come titolo una frase estrapolata dalla lettera-testamento di Giancarlo Puecher Passavalli, L’amavo troppo la mia patria non la tradite… Qui di seguito ne riportiamo un estratto, offrendo a Orsola, una volta ancora, la possibilità di «ristabilire la verità», e a lettori e lettrici di questo post di conoscere le reali circostanze che portarono alla fucilazione di Puecher Passavalli:
«Giancarlo Puecher, punto di riferimento di un gruppo di giovani che in Brianza si stavano organizzando in una formazione partigiana ancora in nuce, e che si era macchiata fino allora solo di qualche sabotaggio e sequestro di mezzi e benzina, fu fermato per caso, in bicicletta con il compagno Fucci, da una pattuglia di militi della Repubblica Sociale Italiana a Lezza la notte del 12 novembre del 1943, ad un posto di blocco dei numerosi istituiti insieme al coprifuoco, in seguito al fatto che quella stessa sera erano stati uccisi il centurione della milizia e cassiere del Banco Ambrosiano di Erba, Ugo Pontiggia, e un suo amico, Angelo Pozzoli.
Puecher e Fucci, ignari di tutto e che, forse, se fossero stati a conoscenza dell’omicidio, avrebbero avuto maggiore prudenza, si stavano recando a una riunione clandestina. Avevano un tubo di gelatina e alcuni manifestini antifascisti, di cui però riuscirono, nel buio, a disfarsi. Fucci estrasse la pistola e tentò di sparare, ma l’arma si inceppò. Uno dei miliziani lo colpì ferendolo al ventre. Fu portato in ospedale e rimase in prigione fino alla fine della guerra. Giancarlo fu fermato, interrogato, picchiato e poi arrestato.
Il federale di Milano Aldo Resega, che Sallusti, senza storpiarne il nome, nomina, fu ucciso il 18 dicembre 1943, mentre Giancarlo Puecher era già in prigione e da più di un mese.
Giancarlo Puecher non fu accusato né processato per alcun omicidio.
Quando il 20 dicembre fu ucciso in un agguato anche lo squadrista di Erba Germano Frigerio, i fascisti decisero di mettere in atto una rappresaglia, con modalità tristemente consuete, che prevedeva la fucilazione di trenta antifascisti, dieci per ogni fascista ucciso ad Erba, cioè Ugo Pontiggia, Angelo Pozzoli e Germano Frigerio.
Nelle carceri di Como non trovarono un numero tale di prigionieri e li ridussero a sei, fra cui Giancarlo Puecher. I fascisti imbastirono un processo farsa, istituendo un Tribunale Speciale, presieduto da Biagio Sallusti, e con irregolarità processuali inconcepibili oggi, ma di regola ai tempi, Puecher fu l’unico condannato a morte, mediante fucilazione, non per omicidio, ma per aver promosso, organizzato e comandato una banda armata di sbandati dell’ex esercito allo scopo di sovvertire le istituzioni dello stato.»
L’intervista di Telese a Sallusti arriva come fonte nella voce it.wiki di Giancarlo Puecher Passavalli il 14 novembre 2010, per opera di Jose Antonio. A dispetto dell’arditezza nell’uso delle fonti che caratterizza l’utente, in questo caso Jose Antonio deve limitarsi, viste le abnormità della dichiarazione di Sallusti, a utilizzare l’intervista per riportare nella voce che Biagio Sallusti «ridusse il numero dei morituri che fu fissato alla fine ad uno solo, Giancarlo Puecher».
A questo punto, pur con la vasta bibliografia oggi disponibile sul caso Puecher Passavalli, anche di recente produzione (si veda, ad esempio: Giuseppe Deiana, Nel nome del figlio. La famiglia Puecher nella Resistenza, Mursia, Milano 2013; Samuele Tieghi, “Il fascicolo Puecher”, in Storia in Lombardia, n. 1-2, 2012), è importante incrociare questa affermazione con quanto riportato in un articolo del dicembre 1983, pubblicato su Storia Illustrata e firmato da Giacomo de Antonellis, dal titolo Puecher. Prima Medaglia d’oro della Lombardia.
La ragione di questa scelta è presto detta: parte degli edit di Jose Antonio del giugno 2010, citati sopra, riporta come fonte questo articolo di de Antonellis (a partire da questo edit). Analizzare la corrispondenza tra quanto riportato nell’articolo e quanto riportato in voce da Jose Antonio ci permette di riportare il focus sul suo operato nella voce in it.wiki.
Ebbene, cosa riporta de Antonellis sul conto di Biagio Sallusti nel processo in cui Puecher Passavalli venne condannato a morte?
«A presiedere il tribunale militare straordinario il prefetto metteva il comandante del Distretto, tenente colonnello Biagio Sallusti; altri sei militari completavano i ranghi. […] Il difensore d’ufficio, Gian Franco Beltramini, allibiva: non si conoscevano le accuse contestate, non esisteva flagranza di reato, non competeva giudicare a una corte militare. […] L’avvocato Beltramini rilevava l’assurdità umana e giuridica del processo riuscendo a concordare con il presidente Sallusti un estremo contatto con il prefetto Scassellati. Ultimo compromesso. Niente pena capitale per gli imputati, salvo per uno [Puecher Passavalli N.d.r.]» (pag. 64).
Non poteva essere stato diversamente per un processo-farsa imbastito al solo scopo di dare una parvenza di legalità a un’azione di rappresaglia. Tuttavia, Jose Antonio non ha resistito a perseguire il suo intento: umanizzare un repubblichino, offrirne l’immagine di uomo dotato di cristiana pietas. Un uso inverso della livella della violenza, dato che qui il tentativo è quello di offrire una personalità speculare, nel campo avverso, a quella di Puecher Passavalli. Addirittura arrivando a suggerire tra le righe che lo stesso Puecher Passavalli, per la sua personalità e formazione, fu vittima inconsapevole della sua scelta di aderire alla lotta nazifascista: un idealista, incapace di comprendere che stava facendo il gioco dei comunisti. Versione che Jose Antonio inserisce nella voce riportando le parole di Mario Noseda, maggiore della Guardia nazionale repubblichina a capo di azioni antipartigiane, pescate da Storia della guerra civile in Italia, opera di riferimento del repubblichino e revisionista Pisanò.
Poco importa che Biagio Sallusti sia stato fedele servitore del duce e dei nazisti fino agli ultimi giorni del – mancato – Ridotto della Valtellina. Diversamente, Jose Antonio si è ben guardato dal riportare nella voce la totale infondatezza delle accuse rivolte ai prigionieri passati per il processo, cosa che invece de Antonellis sottolinea, definendole «stupefacenti»:
«[…] al Giudici, per esempio, si rimproverava di aver esposto un ritratto di Matteotti nel lontano 1924; al Grossi addirittura di aver dato ospitalità ad alcuni squadristi dopo il capovolgimento del 25 luglio; per il Cereda non si riusciva a imbastire una qualsiasi imputazione, se non quella generica di antifascismo».
Ma questo è solo il tentativo definitivo di riscrivere la voce da parte di Jose Antonio, che in precedenza aveva lavorato via via allargando la parte dedicata a quella che diventerà, per sua iniziativa, una sezione propria della voce: L’omicidio di Ugo Pontiggia e di Angelo Pozzoli. È in questa parte degli interventi di Jose Antonio che la livella della violenza viene messa in opera, a suggerire che la cattura del tutto casuale di Giancarlo Puecher Passavalli e Franco Fucci fu una conseguenza diretta delle azioni partigiane a danno dei nazifascisti. Si spinge addirittura a riportare la descrizione dell’aggressione subita da parte di Pontiggia, nientepopodimeno che dalle parole pronunciate da quest’ultimo in punto di morte (sic!) e tratte da una testimonianza riportata, ancora, nell’opera di Pisanò.
Più di recente, nel novembre 2015, Jose Antonio scopre che i figli di Ugo Pontiggia sono personaggi noti. Almeno, abbastanza noti da risultare enciclopedici per it.wiki. Così, alla foto di Pontiggia che aveva già inserito nella voce, si affretterà ad annotare nella didascalia l’identità dei figli (qui e qui), subito dopo aver aggiunto un nuovo collegamento: un articoletto da il Giornale, dalle finalità strumentali almeno quanto quelle del Nostro.
Oggi – ahinoi – la voce è ancora profondamente inquinata da questo lungo lavorio di Jose Antonio che, senza vergogna e non trovando argine, ha reso la pagina di un giustiziato per rappresaglia dai nazifascisti valida esclusivamente come esempio dell’uso spregiudicato di quella che abbiamo battezzato «livella della violenza». Imparare a riconoscerla all’opera sarà un piccolissimo riconoscimento alla figura di Giancarlo Puecher Passavalli, in attesa che la voce venga riscritta.
Amministrazione, La strategia del ratto. 1a Parte. Manomissioni, fandonie e propaganda fascista su Wikipedia: il caso «Jose Antonio», Osservatorio sul fascismo a Roma, 11 aprile 2018 (prima parte de “La strategia del ratto” pubblicato il 21.02.2017 sul sito della Wu Ming Foundation dal gruppo di ricerca su falsi storici “Nicolatta Bourbaki”)