Il caso Girolimoni

Quando a Roma, nei quartieri popolari, a partire dal 1924, iniziano a scomparire delle bambine, che poi vengono ritrovate abusate ed uccise, la notizia all’inizio non trapela quasi sui giornali. Il regime infatti opera una censura puntuale sulla cronaca nera. Ma i fatti passano di bocca in bocca tra la gente delle borgate.
Emma Giacomini e le altre cinque piccole vittime sono figlie del popolo. La rabbia per questi barbari omicidi presto divampa. La stampa inizia a parlarne finalmente e la notizia arriva perfino sulla scrivania di Mussolini che infuriato convoca Arturo Bocchini il capo della polizia e gli ordina di trovare un colpevole. Partono le pressioni verso il prefetto, il questore e singoli commissariati perché le indagini siano risolte nel minor tempo possibile.
Sebbene diversi testimoni abbiano visto le bambine uccise allontanarsi con un uomo baffuto e dall’aria signorile, all’inizio il colpevole è cercato tra gli strati più emarginati della popolazione: ubriaconi, disoccupati, storpi. Un vetturino arrestato si suicida per la vergogna, poi è la volta di un sacrestano. Entrambi sono buchi nell’acqua.
Il regime allora mette una taglia di 50.000 lire, una gran cifra per l’epoca, sulla testa del serial killer ma finisce solo per complicare il lavoro dei poliziotti, sempre più pressati dalla stampa e dai superiori. E così alla fine nella primavera del 1927 viene fermato Gino Girolimoni, un giovane mediatore dall’aria scanzonata.
Gira con una Peugeot fiammante e bei vestiti, ma solo per far colpo sulle donne. In realtà non è ricco e non porta nemmeno i baffi. Lo arrestano mentre parla con una bambina di dodici anni, che in realtà è a servizio da una sua amante.
Per gli agenti è lui l’assassino. Lo confermano anche diversi testimoni. E questo sebbene Gino non corrisponda agli identikit. Per la polizia usa dei travestimenti e per il criminalista Samuele Ottolenghi, seguace di Lombroso, ha i tratti somatici tipici dei criminali più efferati.
Il regime stappa lo spumante, Mussolini si vanta dei successi della polizia, la stampa grida la mostro. Solo il commissario Giuseppe Dosi, vista l’inesistenza di ogni prova concreta, prova a riaprire le indagini, almeno finché non lo arrestano e lo sbattono in manicomio. C’è già un colpevole.
E invece no. Girolimoni nemmeno va a processo. Il giudice istruttore, su richiesta dell’accusa, lo proscioglie dopo 11 mesi di carcere. È innocente, ma nessuno lo dice.
Quando va bene si becca un trafiletto in fondo ai giornali. Per tutti resta un mostro, anzi il mostro, tanto che il suo cognome diventerà sinonimo di pedofilo e assassino.
Vissuto nella povertà e nel pregiudizio, Girolimoni così non avrà pace nemmeno dopo la morte.

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