Il Critical Social Work (CSW) si sviluppa per contrastare la natura oppressiva e conservatrice del Social Work

Fig. 1 – Modello di ricerca-azione rappresentato nella “spirale di cicli” da S. Kemmis, Action Research in Retrospect and Prospect, relazione presentata alla riunione generale annuale dell’Australian Association for Research in Education, Sydney, novembre 1986 – Fonte: Chiara Panciroli, Op. cit. infra

1.1 Possibili definizioni
Secondo Narayan (1996) esistono due macro approcci nel mondo della ricerca sociale: la conventional research e la participatory research. La conventional research è caratterizzata dal fatto di essere realizzata da “esperti”, estranei o esterni alla situazione oggetto di indagine, che raccolgono dati quantitativi o qualitativi riguardo, ad esempio, le persone, le comunità, le aziende o le situazioni, senza che questi soggetti della ricerca siano coinvolti nel processo.
Quest’ultimo si presenta relativamente statico: le informazioni sono raccolte, elaborate ed analizzate dagli esperti per i loro fini, talvolta viene dato un feedback al soggetto cui è dedicata l’indagine, altre volte nemmeno questo.
Per questi motivi, secondo Narayan, le ricerche implementate attraverso un approccio convenzionale sono sostanzialmente unidirezionali: vi è un esperto ricercatore che studia e indaga un soggetto, o un fenomeno, che, anche qualora sia rappresentato da individui, comunità o gruppi di persone, rimane in un ruolo passivo. Al contrario, la ricerca partecipativa (PR), rappresenta un approccio bi-direzionale al processo di ricerca: vi è una relazione reciproca tra ricercatore e soggetto. Da un lato, infatti, il professionista si pone in un atteggiamento di apertura e ascolto, includendo nel processo di ricerca coloro che sperimentano, o hanno sperimentato, le situazioni oggetto di ricerca; l’esperto fornisce ad essi elementi e conoscenze utili per poter implementare al suo fianco il processo d’indagine. Dall’altro lato i soggetti coinvolti nella realizzazione della ricerca condividono con il professionista le informazioni e le conoscenze sul fenomeno indagato da essi possedute in virtù delle loro esperienze dirette di vita. Questo avviene non solo nella fase di raccolta dati, come nelle ricerche convenzionali, ma anche in altre fasi del processo di ricerca (come si vedrà meglio nel capitolo 2). Non vi è quindi solo l’esperto che studia l’oggetto d’indagine, ma quest’ultimo diviene soggetto attivo. Il processo è in sé dinamico; parte dall’esigenza dell’individuo di approfondire la condizione in cui si trova ed è orientato al cambiamento (Narayan, 1996). Il processo, come si vedrà, può partire, infatti, dal ricercatore ma, a volte, la richiesta d’indagine nasce dalle persone stesse che sperimentano bisogni o disagi e che sentono la necessità di studiare la loro condizione. Nel caso in cui la domanda di ricerca sorga dal mondo scientifico – accademico, il professionista intercetterà in un secondo momento le persone vicine al tema oggetto d’indagine; queste, a loro volta, si affideranno a lui per implementare la ricerca. Gli esiti di questa non andranno poi solo ad arricchire il sapere riguardante il fenomeno indagato, ma avranno ricadute dirette sulle vite dei partecipanti, creando i presupposti per un cambiamento nelle realtà da essi quotidianamente vissute. Per questi motivi alcuni studiosi individuano aspetti di dinamicità e circolarità nell’approccio partecipativo.
In letteratura non è data una definizione univoca dell’approccio di PR e non vi sono rigide regole che indicano quali elementi vadano a costituire la PR (Bourke, 2009). Diversi autori, tuttavia, hanno provato ad elaborare una propria definizione a partire dall’ambito di indagine e dal campo d’interesse nel quale si inseriscono le ricerche da loro implementate.
«Terminologies used to describe participatory research approaches are complex and frequently overlapping» (Braye e McDonnell, 2012, p. 268).
Rimane difficile giungere ad una definizione condivisa di PR proprio perché la sua diffusione è cresciuta negli anni e i contesti e le aree geografiche nelle qualiè stata sperimentata sono diversificati (Maiter et al., 2012). Questo approccio, infatti, è stato, ed è, utilizzato per comprendere e approfondire differenti tipologie di argomenti, in diversi paesi del mondo. Si possono qui citare tra i tanti: gli studi di Collins (2005) sulla povertà; le ricerche condotte in India sul lavoro minorile da The Concerned for Working Children (2002); l’indagine sulla capacità d’intraprendenza in Darfur e Sudan del Sud (Abdelnour et al., 2008) o la ricerca sulla responsabilità locale rispetto ai bisogni alimentari dei senza fissa dimora a Toronto (Wellesley Institute, 2008).
Molti studiosi hanno provato ad individuare gli aspetti caratterizzanti la PR, senza tuttavia giungere ad una posizione condivisa. C’è chi sostiene, ad esempio, che sia difficile stabilire anche solo l’elemento essenziale che definisce la PR, permettendo di distinguere questo approccio da altri affini (Bourke, 2009). Alcuni studiosi, tuttavia, hanno provato ad individuare la caratteristica principale. Cornwall e Jewkes (Cornwall e Jewkes, 1995; Park, 1999), ad esempio, sostengono che l’elemento chiave della PR non risieda nei metodi, ma nell’attitudine del ricercatore. Questa, a loro parere, risiederebbe in un atteggiamento di apertura e ascolto verso i soggetti ritenuti i reali esperti del fenomeno oggetto d’indagine cui spetta assumere scelte e decisioni durante l’intero processo. Altri autori suggeriscono che l’aspetto centrale sia da ricercare nell’importanza di una partnership equa tra ricercatore e partecipanti (Lister, Mitchell, Sloper & Roberts, 2003). Ancora, Macaulay sostiene che l’elemento centrale risieda nella collaborazione, nel processo educativo e nel passaggio successivo all’azione che la ricerca genera (Macaulay et al., 1999).
Qui si vuole sostenere la tesi che vi sia un elemento che effettivamente ricorre e che permette di definire i confini entro cui si può parlare di approccio di ricerca partecipativo. Questa caratteristica è rappresentata dal fatto che la PR viene implementata con le persone che costituiscono il target della ricerca e non su di loro (Cornwall e Jewkes, 1995; Fleming 2010; Littlechild et al., 2015). La ricercatrice Lisa Bourke (2009), ad esempio, definisce la PR come «research process which involves those being researched in the decision-making and conduct of the research, including project planning, research design, data collection and analysis, and/or the distribution and application of research findings». (Bourke, 2009, p. 458)
Anche se, come si analizzerà nel dettaglio nel paragrafo 2.1, i gradi della partecipazione possono essere differenti nelle varie fasi della ricerca, ciò che rimane centrale è l’obiettivo di coinvolgere i diretti interessati e questo costituisce anche il fulcro della filosofia che sta alla base di tale approccio.
Come sostiene Narayan, «A central goal of the process is to involve people as active creators of information and knowledge» (Narayan, 1996, p. 17).
L’idea fondamentale è quindi che i soggetti, tradizionalmente intesi come “oggetti di ricerca”, nel processo di PR assumono il ruolo di co-ricercatori e dialogano con i ricercatori in ogni fase del percorso (Redmond, 2005; Lushey & Munro, 2014).
La ricerca partecipativa può definirsi tale se si presenta quel «faticoso processo» che si genera nel momento in cui due sfere d’azione, quella del mondo scientifico – accademico e quella del mondo della pratica e della vita quotidiana, si incontrano, interagiscono e sviluppano una comprensione reciproca (Bergold e Thomas, 2012). Questo incontro tuttavia, pone anche nodi critici e solleva diversi dilemmi, che verranno successivamente esaminati.
1.2 Lo sviluppo dell’approccio partecipativo
Risulta difficile stabilire con certezza le origini e il percorso di sviluppo seguito dalla ricerca partecipativa dato che la sua diffusione è avvenuta in ambiti diversificati ed in differenti aree geografiche. Alcuni studiosi (Aldridge, 2015; Bergold & Thomas, 2012; Healy, 2001; Thiollent, 2011) evidenziano una connessione tra questo approccio e la ricerca-azione (Lewin, 1946; 1951; Elliot et al., 1993); altri (Aldridge, 2015; Healy, 2001; Pinter & Zandian, 2015; Stevenson, 2014; Thiollent, 2011) vedono il suo sorgere nei movimenti di coscientizzazione ed emancipazione dell’America Latina degli anni Settanta (Freire, 1971). Se si mantiene il focus sull’ambito del Social Work, inoltre, i principi e gli obiettivi che la PR si prefigge risultano in stretta connessione con due grandi filoni: il Social Work anti-oppressivo (Dominelli, 2002a; Thompson, 2006) e i movimenti degli utenti e dei familiari dei servizi di welfare (Barnes, 1999; Beresford, 1994). Nel presente paragrafo si cercherà di analizzare i punti di connessione e le differenze tra alcuni approcci di ricerca noti nel Social Work e la PR.
1.2.1 La ricerca-azione: connessioni e differenze con la ricerca partecipativa
La ricerca-azione si sviluppa negli anni Quaranta grazie alle teorizzazioni che Kurt Lewin (1946; 1951) compie in seguito a sperimentazioni nel campo della psicologia sociale. Secondo Lewin i ricercatori sociali si occupano di fenomeni il cui studio deve essere accompagnato ad una vicinanza sul campo all’oggetto di ricerca. La ricerca-azione si caratterizza per il fatto di porsi come motore di cambiamento sociale: il suo obiettivo non si limita quindi all’ampliamento delle conoscenze, ma alla risoluzione di problemi o processi di miglioramento in campo pratico. Elliott (Elliott et al., 1993) ne dà la seguente definizione: «Si potrebbe definire la ricerca-azione come lo studio di una situazione sociale con lo scopo di migliorare la qualità dell’azione al suo interno. In altre parole, essa mira a introdurre una valutazione pratica in situazioni concrete; la validità delle “teorie” o ipotesi che essa genera dipende non tanto da verifiche “scientifiche” della verità, quanto dalla loro utilità nell’aiutare le persone ad agire in modo più intelligente e abile. Nella ricerca-azione le “teorie” non sono convalidate indipendentemente e poi applicate alla pratica. Esse sono convalidate attraverso la pratica» (Elliott et al., 1993)
Secondo Lewin, infatti, la ricerca-azione è finalizzata sia a verificare l’efficacia relativa di forme d’azione che a valutare ex-ante condizioni per preparare strategie operative. Elemento centrale della ricerca-azione diviene quindi il coinvolgimento di operatori sul campo, gruppi e comunità, in sintesi, di persone che non svolgono la professione di ricercatore, ma che quotidianamente sperimentano le situazioni di vita che si intendono modificare. In questo modo la dimensione formativa della ricerca acquista una grande importanza. Diversi attori prendono parte, infatti, all’intero processo sia per fornire informazioni utili dal campo sia per apprendere come modificare o applicare strategie operative efficaci. Per questo motivo, una dimensione spesso associata alla ricerca-azione è la circolarità fra teoria e pratica: attraverso la ricerca-azione si sperimentano azioni che possono essere implementate e poi di nuovo verificate fino a creare un processo a spirale (come mostrato nella Fig.1).
La ricerca-azione si differenzia quindi dagli approcci di ricerca convenzionali principalmente per due ragioni: da un lato perché caratterizzata da una forte istanza di cambiamento sociale, dall’altro perché prevede la collaborazione con persone vicine alla tematica oggetto d’indagine. Proprio grazie alla presenza di questi due elementi deriva la sua vicinanza all’approccio di ricerca partecipativo e diversi autori (Aldridge, 2015; Bergold & Thomas, 2012; Healy, 2001; Thiollent, 2011) ne sottolineano somiglianze e affinità a livello di principi ed obiettivi.
I principali ambiti di applicazione in cui si sviluppa la ricerca-azione sono la psicologia sociale, la pedagogia, il servizio sociale e le politiche sociali; ma questo approccio ha visto una grande implementazione anche nel campo della salute e della tutela dell’ambiente, nelle scienze organizzative e della comunicazione. In virtù del cambiamento sociale che può sorgere in seguito all’implementazione di ricerche così condotte, nuove forme di ricerca-azione si diffondono in contesti di oppressione, emarginazione ed esclusione sociale.
La nascita della ricerca partecipativa viene, infatti, da alcuni ricondotta ai movimenti per la liberazione e l’acquisizione di coscienza di classe sviluppatisi in America Latina tra gli anni ’50 e ’60 sotto l’impulso di Paulo Freire (Aldridge, 2015; Healy, 2001; Pinter & Zandian, 2015; Stevenson, 2014; Thiollent, 2011). Il pedagogista brasiliano si è attivato per l’alfabetizzazione degli adulti appartenenti alle masse operaie, introducendo una nuova forma di educazione basata sulla relazione di reciprocità tra insegnante ed alunno e sulla necessità di rendere gli operai consapevoli della situazione di oppressione nella quale vivevano (Freire, 1971). Freire sosteneva che qualsiasi movimento di coscienza critica poteva essere raggiunto solo attraverso un’autentica collaborazione con le persone che vivevano direttamente il problema, solo in questo modo ne sarebbe potuta conseguire un’azione efficace.
«Once man perceives a challenge, understands it, and recognizes the possibilities of response, he acts. The nature of that action corresponds to the nature of that understanding» (Freire, 1973, p. 44).
La conoscenza vera che porta ad una azione di libertà, secondo Freire, è quindi conseguenza di una collaborazione alla pari tra professionisti e persone che vivono situazioni di emarginazione ed oppressione in un processo che vuole essere democratico e potenziante.
«In questo modo soggettività e oggettività si incontrano in quell’unità dialettica da cui risulta un conoscere che è solidale con l’agire, e viceversa. Questa unità dialettica genera un agire e un pensare esatti dentro la realtà, e circa la realtà, per trasformarla» (Freire, 1970, p. 24).
La produzione di conoscenza e sapere non rimane quindi “faccenda esclusiva degli accademici”, ma diviene il risultato di un <1 processo condiviso in cui chiunque può dare un apporto significativo.
A partire dalle forme di ricerca-azione sorte in questo campo nascono quindi diversi approcci di ricerca che possono essere ricondotti dentro quello che viene definito un «broad umbrella <2» (Aldridge, 2015, p. 7): participatory action research (Kemmis e McTaggart, 2005), participatory rural appraisal (PRA), participatory learning and action (PLA), participatory learning research (Chambers, 2008), community-based participatory research (CBPR) (Unger, 2012).
Tutti questi diversi approcci hanno in comune con la participatory research il fatto di essere basati sul principio della reciprocità ed, inoltre, tutti prevedono la loro ideazione e promozione attraverso un coinvolgimento attivo di quei soggetti che, negli approcci di ricerca convenzionali, sono visti come oggetti della ricerca (Chataway, 1997; Fals Borda, 1988; Reason, 1993; McTaggart, 1997). Rapoport (1970), evidenzia, tuttavia, come la participatory research si distingua da altri approcci di ricerca per il fatto di promuovere un coinvolgimento attivo degli interessati in tutto il processo di ricerca con uno specifica attenzione all’instaurazione di una collaborazione all’interno di un paradigma etico da tutti condiviso.
Kemmis & McTaggart (2005) sostengono, inoltre, che la PR sposti l’enfasi dalla fase di azione e cambiamento alle attività di ricerca svolte attraverso una partecipazione piena. L’obiettivo principale non è quindi il produrre un cambiamento nella pratica durante il processo di ricerca, piuttosto quello di produrre una conoscenza condivisa tra accademici e non.
Alcuni sostenitori della PR evidenziano come, dal punto di vista della ricerca-azione, la riflessione che deriva dal processo di ricerca non sia senza conseguenze nella pratica, ma che tuttavia, dal punto di vista scientifico, i produttori di conoscenza farebbero bene inizialmente a sottrarsi dall’aspettativa di riscontrarne un’immediata utilità operativa (Bergold & Thomas, 2012).
Il cambiamento che la PR si propone, quindi, non è necessariamente nell’azione pratica dei soggetti che partecipano, ma nel modificarsi delle asimmetrie di potere all’interno del processo di produzione del sapere.
Reason (1994) evidenzia infatti come potere e conoscenza siano profondamente interconnessi: «As I read about the work of practitioners of participatory action research, whose emphasis is on establishing liberating dialogue with impoverished and oppressed people, I understand the link between power and knowledge […]. It seems to me to be urgent for the planet and for all its creatures that we discover ways of living in more collaborative relation with each other and with the wider ecology. I see the participative approaches to inquiry and the worldview they foster as part of this quest» (Reason, 1994, p. 325).
L’approccio di ricerca partecipativa dovrebbe, quindi, condurre ad un processo congiunto di produzione della conoscenza che porta nuove consapevolezze in tutte le persone coinvolte, siano esse scienziati, accademici o persone solitamente lontane dal mondo della ricerca: la produzione di sapere così sviluppatasi rappresenta già di per sé la possibilità di un vero cambiamento personale e sociale.
1.2.2 Il Critical Social Work: connessioni e differenze con la ricerca partecipativa
Intorno agli anni ’70, anche nel campo del Social Work, cominciano a diffondersi movimenti contro i sistemi e le strutture di oppressione. È proprio a partire da questo ambito che può essere individuato, infatti, un altro grande filone di sviluppo della ricerca partecipativa (Maguire, 1987).
Nel mondo Occidentale, la professionalizzazione del Social Work si è sviluppata intorno ad un’idea paternalistica dell’aiuto (Weiss-Gal et al., 2014). Alla base della concezione della relazione tra operatore e assistito vi è sempre stato il modello terapeutico che prevede, a fronte di una fragilità dell’individuo, la necessità di un intervento specializzato per favorire l’adattamento psicologico e sociale (Elliot, 1997; Weiss-Gal et al. 2014). All’interno di questo paradigma, quindi, gli operatori sociali sono concepiti come i possessori di una conoscenza obiettiva in grado di dare una lettura appropriata alle situazione e ai bisogni delle persone che necessitano di aiuto. L’idea che deriva da questo approccio è che solo il professionista esperto, in virtù del proprio sapere e delle proprie conoscenze, può trovare le soluzioni efficaci per il miglioramento di situazioni spesso difficili e complesse. La conseguenza diretta di questa impostazione è il fatto che i contesti professionali di Social Work contribuiscono, in realtà, a perpetrare dinamiche sociali di oppressione (Garcia & Melendez, 1997; Pollack, 2004). A partire dalla metà del secolo scorso, diversi filoni di pensiero hanno quindi cominciato a mettere in discussione questa visione del Social Work e della relazione d’aiuto. Partendo infatti da teorie e approcci sociali radicali e anti-oppressivi, ma anche dai movimenti femministi (Dominelli, 2002a), antidiscriminatori (Thompson, 2006) e anti-razzisti (Dominelli, 1988), nasce un nuovo paradigma, definito dalla letteratura internazionale Critical Social Work (Rossiter, 1996; Ife, 1997; Healy, 2000; Pozzuto, 2000; Fook, 2002; Allan et al., 2003).
Il Critical Social Work (CSW) si sviluppa per contrastare la natura oppressiva e conservatrice del Social Work, sia a livello di teorie ispiratrici che di pratiche professionali. […]
[NOTE]
1 «Non si può esprimere offesa più grossolana, ingiuria peggiore contro i lavoratori che affermando che le discussioni teoriche sono faccenda esclusiva degli “accademici”» Luxemburg R. (1963), Riforma o Rivoluzione?, in Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Milano, Edizioni Avanti!, p. 144.
2 Con l’espressione «broad umbrella» Aldridge vuole indicare un’ampia categoria dentro la quale possono rientrare diversi approcci accomunati dall’elemento della partecipazione nel processo di ricerca.
Chiara Panciroli, La ricerca partecipativa nel Social Work. Una sperimentazione in un quartiere povero di Reggio Emilia, Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Anno Accademico 2015-2016