Nel dopoguerra il paradigma “razziale” della diversità umana non cadde né venne scalfito dalla stagione dei razzismi di Stato. L’effetto Auschwitz contribuì, anche se solo progressivamente – a far crescere un tabù sulla considerazione degli ebrei come “razza”, ma sopravvissero a lungo le convinzioni che l’umanità fosse da osservare e studiare suddivisa in razze, che l’ereditarietà dei caratteri coinvolgesse anche la sfera psichica, e che le “civiltà” si potessero confrontare in una scala di valori e fossero in buona parte da collegare all’identità “razziale” dei popoli. Se ne trovano tracce abbondanti nei testi di geografia di vari autori, che mostrano quanto radicata fosse questa visione antropologica dei popoli del mondo.
Ecco come viene presentata l’alterità “razziale” nelle pagine di geografia antropica di un sussidiario del 1948. <498 Nel paragrafo: “Le razze umane e la loro civiltà”, con il sottotitolo “Vari tipi della stessa umanità” compaiono le foto del viso e del busto di cinque rappresentanti delle “razze”: il rappresentante di quella bianca è al primo posto sorridente, ripreso di tre quarti con giacca e cravatta mentre il rappresentante della “razza negra” è ripreso di profilo nella tipica posa spersonalizzante dell’antropologia fisica o della fotografia criminale. Nelle brevi didascalie si legge: “1° Razza bianca o caucasica, che è la più civile e la più sparsa nel mondo”. <499 E più oltre “Le popolazioni indigene […] appartengono alla razza negra, che è la più arretrata in fatto di civiltà. Tra esse ve ne sono addirittura alcune, come i Boscimani e i Niam Niam, ancora selvaggi che sono piccoli e brutti e scarsamente intelligenti”. <500
Qui emerge con evidenza dove si situa il “noi” e chi siano gli “altri”. La fattura e la disposizione delle immagini fotografiche esemplificano giudizi e gerarchie organizzati su criteri estetici e di intelligenza, illustrano i diversi livelli di sviluppo evolutivo.
Nello stesso sussidiario, nell’edizione per la classe terza, si può vedere una volta di più l’immagine sintetica dell’Africa equatoriale ferma ai quadretti ottocenteschi, tra il terrore delle belve e gli esseri viventi primitivi: “in regioni coperte da grandi foreste abitano i popoli di ‘razza negra’, ancora in gran parte incivili, che vanno quasi nudi e dimorano in povere capanne dette ‘tucul’ o in ricoveri fatti di frascame, situati fra i rami degli alberi, per sfuggire al morso di giganteschi serpenti e alla ferocia delle belve”. <501
Invece, in testi di geografia più complessi, destinati agli studenti delle scuole medie, è possibile trovare passi come questo: “La razza bianca, alla quale noi apparteniamo, ha caratteri che la distinguono da tutte le altre. Essa è in certo modo come il sale della storia e la sorgente della civiltà. […] Gli uomini della razza bianca insegnarono al mondo tutte le scienze, dall’agricoltura alla navigazione, dalla matematica alla medicina[…]”. <502 Poco prima la descrizione dei caratteri fisici segnalava che gli individui di razza bianca “si distinguono per l’armonia dei lineamenti, la proporzione delle membra”. Se in quinta elementare si parlava direttamente di bruttezza degli africani, qui si articola il criterio estetico in modo meno ingenuo ma ugualmente plateale.
Una tradizione di studi di lunga data, irrigidita dalla recente stagione del razzismo di stato, fornisce ai compilatori le idee e i materiali antologici per supportare questa classificazione dell’umanità. La gerarchia delle civiltà è netta e indiscutibile; e se anche non viene fatta derivare direttamente e biologicamente dall’essenza “razziale”, l’indipendenza da essa è solo formale. Nei paragrafi seguenti infatti si articola il tema delle religioni, anch’esse poste sulla scala delle civiltà: “Ne viene di conseguenza che la civiltà sia tanto più elevata quanto più nobile ed alto è il concetto che gli uomini si formano della divinità”. <503
Non si tratta solo dei testi di autori poco aggiornati sulla disciplina o nostalgici dell’impero. Nel volume di Almagià e Migliorini del 1948, nella sezione generale antropica firmata da Migliorini, si trova scritto: “Anche negli uomini attuali vi sono molti aggruppamenti che si differenziano tra loro per caratteri biologici e culturali. I caratteri biologici – che sono ereditari, cioè si trasmettono da padre in figlio – sono, sia somatici, cioè attinenti al corpo, sia fisiologici e anche psichici. Essi servono a distinguere varie razze umane. I caratteri fisiologici e psichici possono finora difficilmente concretarsi ed esprimersi in modo preciso, mentre i caratteri somatici possono essere espressi mediante misurazioni e indici; essi sono perciò presi prevalentemente a base della distinzione fra le varie razze umane”. <504
E poco oltre riemerge il valore “evolutivo” dell’angolo facciale di Camper: “L’angolo formato da una linea che va dal foro dell’orecchio alla base dei denti incisivi con un’altra che si qua va al centro della fronte (angolo facciale) può essere più o meno vicino al retto; è più vicino all’angolo retto nelle razze più evolute”. <505
Le “razze australiane” vengono descritte con la “faccia a tratti grossolani” e si aggiunge poco avanti che “I Tasmaniani, che avevano tratti ancora più rozzi, si sono estinti nel secolo XIX”, <506 mentre gli “europoidi” hanno “corporatura ben proporzionata”. <507 Addirittura i “meticci”, nati da unioni miste tra soggetti di “razza diversa”, oggetto di demonizzazione razzista durante gli ultimi anni del regime fascista, vengono ancora considerati soggetti dalle dubbie caratteristiche: “Si ritiene da taluni che i meticci non costituiscano elementi ben dotati per qualità biologiche e anche morali, in confronto alle razze dalle quali provengono ma ricerche larghe e obiettive al riguardo sono ancora molto scarse e non permettono conclusioni sicure”. <508
Leggere così chiare affermazioni sull’ereditarietà dei caratteri psichici e sul valore gerarchizzante di alcuni caratteri somatici in un progetto editoriale firmato anche da un geografo come Almagià, di origine ebraica, che si vide espulso per motivi “razziali” dall’università nel 1938, fa una certa impressione. Soprattutto perché tali affermazioni – nei suoi testi per le scuole non contenevano così chiare affermazioni né dieci né vent’anni prima. Evidentemente questa convinzione della produttività scientifica della suddivisione in “razze” dell’umanità era ancora forte e veniva vista dai suoi cultori come profondamente separata sia dalle sciagure del razzismo di stato, sia dall’idea che potesse portare in sé i germi di una ingiusta e antiscientifica discriminazione verso intere popolazioni.
La storia dell’idea di razza e la sua influenza sulla didattica nazionale non stava certamente esaurendosi se, ancora nel 1970, una ristampa (la 6a) di un volume di geografia generale firmato da Umberto Toschi, già citato per un volume degli anni Trenta, include foto tipologiche che sembrano essere riutilizzate senza neppure rimettere mano alle didascalie, tanto che sotto l’immagine di un africano possiamo leggere “Negro puro (del Senegal)”. Ma anche all’interno dei testi si trovano passaggi significativi: nella descrizione dei caratteri della “razza bianca” l’autore passa dagli elementi somatici a quelli culturali in questi termini: “Ne sono caratteristiche il colorito piuttosto chiaro, […] labbra sottili, capelli ondulati, spirito d’iniziativa, di praticità, massima capacità di adattamento e dominio dei più diversi ambienti”; nella descrizione dei “mongoloidi”, specificando che sta parlando dei “tipi più puri”, elenca “i capelli lisci neri, lo scarso sviluppo di barba e baffi, lo spirito pensoso, fatalistico, sprezzante della vita individuale propria come dell’altrui”; i “negroidi” invece hanno “labbra tumide, statura alta, prontezza di riflessi e istintiva attitudine alla ripetizione esatta ma meccanica degli atti appresi”; infine, parlando dei “gruppi misti o razze miste”, descrive i Dravidi come “di colorito scurissimo, poco sviluppati somaticamente e intellettualmente”. <509
Anche la prospettiva iconografica fatica tantissimo a liberarsi dello sguardo tipologizzante sulle cosiddette “razze inferiori”. Si mostra solo un esempio datato 1971 tratto dal volume di “Geografia Generale” di Cori e Osterman. Nelle stesse pagine troviamo affiancate la foto a colori di un ”uomo di razza bianca” vestito e intento a fumare la pipa e quella in bianco e nero, di profilo e di fronte come nelle riproduzioni di criminologia, della “razza negra o africana”, mostrando con la massima evidenza la freddezza dello sguardo estraneo, scientifico, dell’antropologo anni Trenta a fianco della rilassata convivialità suggerita dal fumatore di pipa europeo. <510
Si tratta quindi di uno sguardo che, per inerzia o per convinzioni radicate, si prolunga fin dentro gli anni Settanta, mentre altri autori stavano invece modificando profondamente la stessa concezione dell’antropologia umana.
[NOTE]
498 Sussidiario Italia, classe V, L’Italia editrice, Roma, 1948.
499 Ivi, p. 160-161.
500 Ivi, p. 192.
501 Sussidiario Italia, classe III, L’Italia editrice, Roma, 1948, p. 130
502 V. Bazzicalupo, Corso di geografia per le scuole medie inferiori : Vol. I. Geografia generale, De Simone, Napoli, 1945, pp. 126-126.
503 Ivi, p. 135.
504 Roberto Almagià, Elio Migliorini, La terra e le sue ricchezze. Corso di geografia generale ed economica per gli istituti tecnici commerciali, vol. 2. per la seconda classe: Geografia generale, biologica ed antropica, a cura di Elio Migliorini, Roma, Perrella, 1948, p. 188.
505 Ivi, p. 189.
506 Ivi, p. 190.
507 Ivi, p. 191.
508I vi, pp. 195-196.
509 U. Toschi, Corso di geografia generale, Zanichelli, Bologna, 19706, pp. 313-314.
Gianluca Gabrielli, Insegnare le colonie. La costruzione dell’identità e dell’alterità coloniale nella scuola italiana (1860-1950), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2014