Il massacro del Grappa

Fonte: Lorenzo Capovilla, Op. cit. infra

Ai primi di settembre del ’44 sul Grappa i partigiani sono suddivisi in 4 formazioni. La più organizzata e armata è la brigata “G. Matteotti”. Sono circa 500 uomini, agli ordini del capitano Angelo Pasini “Longo” o “Dodici” di Asolo con cui collaborano diversi ufficiali veneziani di orientamento socialista. Essi occupano la parte centrale del massiccio e presidiano il territorio dalla malga Val delle Foglie fino alla valle dello Schievenin dove opera il 2º battaglione “B. Buozzi” agli ordini del tenente Livio Morello “Neri”, l’unico della formazione a tener a bada i rastrellatori e a sganciarsi dopo un drammatico scontro al Ponte della Stua ad Alano di Piave. Nel comando di Cima Grappa (presso il rifugio Bassano) è presente un reparto di carabinieri, agli ordini del tenente Luigi Giarnieri che verrà catturato, torturato e impiccato in piazza San Marco a Crespano.
Attestata lungo la valle del Piave e sul Monfenera, fino al monte Tomba e all‟Archeson, è la brigata “Italia Libera Archeson”, guidata dal maggiore Edoardo Pierotti, un ufficiale di orientamento moderato repubblicano che aveva combattuto nelle Argonne durante la Grande Guerra. Nella sua formazione, però, erano presenti anche ufficiali di pensiero azionista e cattolico. Al momento del rastrellamento l’“Italia Libera Archeson” è composta da 250 uomini, non tutti armati, che mantengono collegamenti con i gruppi Gap (Gruppi di Azione Patriottica) nella pianura e nelle colline asolane.
L’“Italia Libera Campo Croce”, con Lodovico (Vico) Todesco “Giorgi” e il capitano Emilio Crestani “Riva” suo comandante militare, opera sul lato ovest del massiccio, da Romano fino a Crespano con un distaccamento sul monte Oro e sui Colli Alti. È di orientamento azionista con una forte componente cattolica e comprende circa 300 uomini.
Infine, sul lato nordovest, inquadrati nella brigata “Gramsci” della divisione “N. Nannetti”, ma con ampia libertà operativa, troviamo il battaglione garibaldino “Montegrappa”, formato da partigiani in gran parte di Cismon del Grappa, e il battaglione “A. Garibaldi”, in tutto quasi 150 uomini, comandati da ufficiali di fede politica comunista. Essi controllano i sentieri e le mulattiere che salgono da Pove-Solagna, San Nazario-Cismon, nonché un tratto della strada Cadorna. L’armamento di queste formazioni, che comprendono all’incirca 1200 uomini, è in gran parte il risultato di colpi di mano contro caserme della RSI, della GNR e di qualche raro e recente lancio degli Alleati, per cui soltanto il 70% degli effettivi è in grado di sostenere uno scontro con il nemico. Le dotazioni sono di tipo prevalentemente leggero: poche mitragliatrici, qualche Bren, diversi Sten, carabine, fucili, bombe a mano. Abbonda il plastico prelevato soprattutto da polveriere e depositi della zona. Le munizioni comunque permettono di resistere al massimo per mezza giornata. I viveri provengono dal fondovalle e sono portati su con muli o con camion. Gli uomini alloggiano sotto le tende o all’interno dei fienili e dei ricoveri delle tante casere e malghe sparse per la montagna.
I partigiani che provengono dal disciolto regio esercito sono sufficientemente addestrati, mentre, al di là di tutti gli sforzi fatti dagli ufficiali, i più giovani, in gran parte renitenti alla leva repubblichina, sono poco preparati e soprattutto poco disciplinati, come poté constatare il capitano della missione inglese Paul Newton Brietsche giunto sul Grappa fra l’entusiasmo dei combattenti ai primi di settembre del 1944.
Il rastrellamento è opera di unità della Wehrmacht, delle SS, inoltre di Alpenjäger provenienti da Roncegno (Tn), di un contingente di volontari ucraini, reparti della polizia trentina, del reggimento “Bozen” e della “M Tagliamento”. In appoggio, soprattutto per allestire i numerosi posti di blocco, intervengono le Brigate Nere di Vicenza e Treviso e alcune compagnie della Gnr dislocate a Crespano e a Cavaso. I piani d’attacco, preparati da tempo, prevedono che il peso più rilevante dell’offensiva sia sostenuto dai reparti tedeschi e ucraini; le Brigate Nere dovranno soprattutto impedire ogni via di fuga ai partigiani. Le informazioni in possesso dei comandi tedesco e fascista sono state ottenute nelle settimane precedenti, estorte con la tortura e mediante una continua opera di infiltrazione di spie e informatori. L’armamento degli assedianti è completo di cannoni, mortai, autoblindo, mitragliatrici pesanti e lanciafiamme.
L’attacco ha inizio alle ore 6.30 del 20 settembre dal versante est a partire da Quero e Alano verso il Madal, dopo una preparazione intensa di mortai e batterie collocate tutte intorno al massiccio.
Sul lato sudovest, all’alba del 21 settembre i reparti nazifascisti non esitano a mandare avanti gruppi di civili presi in ostaggio e lo sfondamento avviene sul lato delle Pale di Crespano, difese soltanto da un piccolo contingente di ex prigionieri inglesi che vengono rapidamente sopraffatti. Il comandante Vico Todesco, il tenente Valle e gli uomini di Campo Croce tentano di ritirarsi verso i Colli Alti e il monte Oro. Todesco cade in combattimento in località Oret alla Busa delle Cavare; il tenente Valle verrà catturato e fucilato a Carpanè di San Nazario assieme alla moglie incinta che lo aveva voluto seguire. Solamente Andrea Cocco “Bill”, fra i comandanti di Campo Croce, riuscirà a raggiungere con 15 uomini il fondovalle, infiltrandosi fra i posti di blocco. Altri uomini guidati da Toaldo si sposteranno verso Cima Grappa, come aveva ordinato il capitano Pasini, ma saranno in gran parte catturati.
Verso le 13.30 del 21 settembre il Comandante unico di Cima Grappa, Pasini, emana l’ultimo ordine del giorno: «Le due Italia Libera hanno ceduto. Sono costretto a dare il “si salvi chi può”.
Pierotti, che aveva raggiunto la Cima, verrà arrestato da tre militi delle SS lungo la valle San Liberale. Pasini, invece, pur zoppicante, riuscirà ad arrivare al fondovalle con l’aiuto di pochi fedelissimi.
Gli uomini della missione inglese, che tanto avevano insistito per la difesa a oltranza, dopo aver distrutto la radio, cercheranno di mettersi in salvo versi i Salaroli, il Peurna e la valle dello Stizzon. Le altre formazioni a nord e al centro del massiccio resisteranno poche ore e tra la sera del 21 e la notte successiva i comandanti scioglieranno i battaglioni invitando i propri uomini a raggiungere i paesi della Pedemontana e la pianura. Fra i pochi a resistere fino ai primi di ottobre saranno gli uomini del battaglione “Buozzi”, che si sposteranno continuamente fra il Col dell‟Orso, Fontanasecca, la val Dumela, Cinespa e la valle di Schievenin, conoscitori come pochi altri di quegli anfratti.
Il 28 settembre i resti del “Montegrappa”, una ventina di uomini, si dirigeranno a piccoli gruppi verso le Vette Feltrine a raggiungere la brigata “Gramsci” del comandante Paride Brunetti “Bruno”, che il capomissione inglese Brietsche avrebbe voluto comandante unico delle formazioni del Grappa.
Alla fine delle operazioni di rastrellamento viene avviata dai vincitori quella che è stata definita dallo storico E. Ceccato «la mattanza». I partigiani catturati non sanno ancora l’esito crudele che li attende. Interrogati davanti a spie e delatori subiranno il destino che per loro hanno preparato, sulla base di una precisa strategia, i nazifascisti: fucilazione immediata sul posto di quelli sorpresi con le armi in pugno; impiccagione e fucilazione dopo sommari processi degli altri; deportazione in Germania dei collaboratori o di chi è catturato senz‟armi. Il Tribunale nazista e fascista a Paderno del Grappa e a Bassano, su richiesta dei fascisti locali, condannerà alla fucilazione 14 giovani partigiani il 24 settembre. Altri 31 verranno impiccati, alla fine di una lugubre cerimonia, bene in vista, agli alberi di alcuni viali di ingresso alla città del Grappa, due giorni dopo, il 26 settembre. Particolarmente efferata e crudele la sorte riservata a questi ultimi, in gran parte giovanissimi, provenienti dai paesi del fondovalle trevigiano e vicentino (ben 11 sono nativi di Pove).
I rastrellatori erano perfettamente coscienti della drammaticità e della spettacolarità delle impiccagioni: lo rivelano le sequenze fotografiche realizzate sullo sfondo del monte Grappa per l’occasione. L’ordine era di lasciare esposti per quattro giorni tutti i partigiani con un cartello al collo e la scritta “Bandito”. Vi rimasero 20 ore, che bastarono a far capire alle popolazioni dell‟area che avevano simpatizzato per loro, che non si poteva ribellarsi impunemente al potere nazifascista. Altamente drammatiche e profondamente emblematiche del terrore che si voleva diffondere nel territorio sono pure le esecuzioni portate a termine a Crespano nei confronti del tenente dei carabinieri Luigi Giarnieri, impiccato dopo inenarrabili torture nella centralissima piazza San Marco. A Possagno il tenente Leo Menegozzo viene impiccato ad un albero davanti alla sua abitazione avvolta nelle fiamme, all‟inizio del viale che porta al tempio del Canova. A Onè di Fonte il tenente Angelo Gino Ceccato viene a sua volta appeso a una mensola in ferro della sua casa, data alle fiamme, mentre i genitori straziati sono costretti ad assistere al tragico rogo.
Lorenzo Capovilla, Il massacro del Grappa (settembre 1944) tratto da Lorenzo Capovilla e Giancarlo De Santi, Sui sentieri dei partigiani nel massiccio del Grappa, Cierre Editore, 2006, come pubblicato in I Nuovi Samizdat

[…] Bassano del Grappa […] “Lunedì, alle 18, migliaia di cittadini gremivano la vasta piazza Vittorio Emanuele [oggi piazza Libertà, N.d.R.] in attesa delle aspettatissime parole del Duce, e quando dall’altoparlante la Sua voce si fece udire il più religioso silenzio regnò sulla moltitudine, sempre più emozionata sino a che irrefrenabile scoppiò l’applauso e l’invocazione: Duce! Duce!”; così scriveva il periodico locale Il Prealpe del 16 giugno 1940, a proposito dell’entrata in guerra; nella breve estate di libertà del 1943, all’indomani della caduta di Mussolini, lo stesso periodico bassanese poteva pubblicare numerosi articoli di condanna del passato regime, ma dopo l’8 settembre, con
l’occupazione tedesca della città, tornavano alla ribalta gli esponenti più fanatici ed inferociti del regime fascista; a fine novembre, proprio a Bassano si stabiliva il Sottosegretariato all’Aeronautica della R.S.I. ed un pesante clima di diffidenza e paura arroventava la città.
Diversamente dal Regno del Sud, dove, seppur lentamente, riprendevano vita i partiti antifascisti e le prime forme di confronto e partecipazione democratica, nell’Italia centrale e settentrionale, furono i giovani che, per primi, vennero coinvolti nella nuova situazione, in termini che non ammettevano deroghe o mezze misure.
“Nel periodo dal 15 al 30 novembre 1943, dovranno presentarsi per il servizio di leva […] tutti gli appartenenti alla classe 1925 della leva di terra. […] Coloro che senza esserne legalmente impediti non si presenteranno nel termine stabilito saranno denunciati al Tribunale militare territoriale di guerra ai sensi dell’articolo 151 del Codice Penale Militare di guerra.”
Recitava così il primo Ordine di chiamata alle armi per militari dell’Esercito che portava la fatidica data del 4 novembre 1943 e la firma del Ministro della Difesa Nazionale della R.S.I., il generale Graziani.
A Bassano, molti giovani si presentarono spontaneamente alla caserma “Cimberle-Ferrari”, riaperta come “Centro Raccolta Alpini”; cresciuti nel pieno del regime e frastornati dall’incessante propaganda fascista, dalle sue certezze assolute e dall’assenza pressoché totale di riscontri o alternative, non aveva avuto modo di valutare obiettivamente gli eventi in atto; si spiega così perché, nel novembre 1943, la classe del 1925 avesse risposto alla chiamata alle armi nella quasi totalità, con una percentuale minima di renitenti, come ebbe a sottolineare lo stesso Graziani.
Nonostante prevedessero la pena di morte, i bandi di reclutamento successivi vennero però in gran parte disattesi ed al posto di un esercito di leva regolare, che dimostrasse la legittimità e la continuità della R.S.I. rispetto al passato regime, prevalse invece una molteplicità di milizie, fortemente politicizzate, espressamente designate a compiti di repressione, spesso riottose ed indisciplinate, mentre appariva sempre più evidente la profonda dipendenza della Repubblica di Salò dalle truppe tedesche, dai loro interessi ed obiettivi.
In tale contesto, per il territorio bassanese, il Grappa ha un ruolo chiave: fin dall’armistizio dell’8 settembre, molti militari dell’ex Regio Esercito, che non avevano potuto tornare a casa e volevano fuggire alla deportazione in Germania, avevano trovato nella montagna simbolo della Grande Guerra un rifugio facile e relativamente sicuro; nella tarda primavera del 1944, con la ripresa dell’alpeggio e la riapertura delle numerose malghe, ad essi si erano aggiunti anche i molti giovani che non volevano essere reclutati con la Repubblica Sociale Italiana o servire i tedeschi nell’organizzazione Todt.
Tuttavia, nonostante i ripetuti lanci alleati di armamenti, esplosivi, indumenti, viveri e medicinali, non tutti i renitenti potevano essere armati o minimamente addestrati ed era difficile anche trovare pane e coperte. Profonde divisioni, inoltre, contrapponevano le stesse formazioni partigiane, complicando ulteriormente il quadro: un assembramento eterogeneo di partigiani […] di idee politiche di colore diverso annotava a proposito il maggiore inglese Harold W. Tilman, capo di una missione alleata.
In effetti, alle formazioni iniziali, caratterizzate da una preponderante presenza ed organizzazione militare, si erano presto aggiunte la brigata “Matteotti”, d’ispirazione socialista, ed il battaglione garibaldino “Monte Grappa”, d’ispirazione comunista; nel luglio del 1944, si aggiunsero anche il battaglione garibaldino autonomo “Anita Garibaldi”, la brigata “Italia Libera val Piave” e la brigata “Italia Libera val Brenta”; le ultime due, precedentemente unite, si erano divise a causa delle divergenti concezioni strategiche, che opponevano il maggiore Edoardo Pierotti, che mirava ad evitare il più possibile azioni che provocassero la rappresaglia avversaria, e coloro che, come Ludovico Todesco, “capitano Giorgi”, o il tenente Gigi Toaldo, vicini al Partito d’Azione, non ammettevano debolezze e patteggiamenti di sorta. Solo ai primi di settembre, grazie alla determinazione del capitano inglese Paul N. Brietsche, che operò sul Grappa nell’estate 1944 con la missione guidata da Tilman, si riuscì a costituire un embrione di Comando Unico di tutte le formazioni del Grappa.
Sul piano operativo, nonostante le gravi difficoltà interne, lo scarso coordinamento e le non sempre sopite rivalità, nell’estate 1944 le azioni dei vari gruppi partigiani stanziati sul Grappa si erano fatte più continue ed audaci, grazie al collegamento con le formazioni partigiane della pianura ed ai lanci alleati. Una lunga serie di sabotaggi, assalti, incendi, catture e requisizioni si registrò in tutto il territorio circostante il massiccio, a partire dal clamoroso attentato al forte Tombion della notte tra il 6 ed il 7 giugno 1944, che provocò l’interruzione ferroviaria e stradale della Valsugana per molti giorni. Tra luglio ed agosto, si intensificarono ulteriormente le azioni di sabotaggio sulle linee ferroviarie Bassano-Padova e Trento-Bassano-Venezia, tanto che il Comando Supremo tedesco pose il Grappa tra gli obiettivi dei grandi rastrellamenti dell’estate 1944: a seguito dello sbarco in Normandia, il fronte italiano aveva perso d’importanza per la strategia alleata ed era sempre più vitale per i tedeschi garantirsi collegamenti sicuri con la madrepatria, eliminando alla radice ogni forma di Resistenza.
A partire dai primi giorni di settembre, si accentuò quindi l’arrivo nel territorio bassanese di un gran numero di truppe tedesche, specializzate nella lotta contro i partigiani […]
Sicuramente segreta era l’articolazione operativa del rastrellamento, ma il fatto che il massiccio fosse isolato e completamente circondato da 142 chilometri di strade asfaltate, lungo la Valbrenta, il Feltrino, la valle del Piave e la Pedemontana, lasciava facilmente prevedere un’azione fatta di accerchiamenti successivi e concentrici; inoltre, grazie alla fitta rete di relatori ed infiltrati allestita dal tenente Perillo, capo dell’ “Ufficio Politico Investigativo” di Bassano, per il comando tedesco era facile anche conoscere con esattezza la consistenza e l’armamento delle formazioni partigiane.
In particolare, all’elaborazione del piano d’attacco di quella che sarà chiamata “Operazione Piave”, risultarono molto utili le informazioni fornite da Eleonora Licia Naldi, una giovane bolognese che, da semplice dattilografa della sede bassanese del ministero dell’Aeronautica, era divenuta segretaria ed amante dello stesso tenente Perillo. Il diario di Lino Camonico, giovane studente bassanese e coetaneo della bolognese, che aveva avuto modo di conoscerla già da alcuni mesi, è particolarmente esplicito a riguardo: “A proposito della Licia, mi è venuta in mente un’idea, che può essere bizzarra, ma che non mi esce più dal cervello. Non potrebbe darsi che tutto questo voglio dire questi arresti siano opera sua: perché se non sbaglio qualche volta aveva visto a casa mia tanto Lucio che Bepi, e forse i nomi erano sfuggiti a me o ai miei” […]
Anche i comandanti partigiani erano informati del rastrellamento che si stava preparando per il Grappa, dopo che, tra agosto e settembre, erano già avvenuti rastrellamenti in grande stile nei vicini territori di Asiago e del Cansiglio; la testimonianza dell’antifascista bassanese Carlo Manfrè ricostruisce in termini precisi il clima ed i timori diffusi in città durante quei giorni cruciali […]
Definite con precisione ed adeguatamente preparate, le operazioni di rastrellamento vennero portate a termine da diversi reparti tedeschi, per un totale di circa 5.000 uomini, e da varie formazioni della R.S.I., complessivamente di circa 3.000 uomini; nei giorni immediatamente precedenti l’assalto al Grappa, il loro arrivo si evidenzia in vari modi, come scrive il parroco di Fonzaso: “Dovunque soldati armati, in gran parte ex prigionieri russi: entrano spavaldi nelle case, chiedono prepotenti vino, alcolici, minacciano, fanno paura. Le requisizioni, ruberie di viveri, vestiario, oggetti d’ogni sorta sono all’ordine del giorno. La popolazione terrorizzata si tappa in casa”.
Tra le formazioni italiane, vi era anche la XXII Brigata Nera “Antonio Faggion” al comando dell’ing. Passuello […]
Era italiano anche il comandante della XXII Brigata Nera “Antonio Faggion”, protagonista di un altro episodio che, al pari di quello accaduto ad Onigo, non rimase isolato durante quei giorni terribili […]
In tale contesto, le esecuzioni capitali cominciarono presto, secondo le modalità che erano state esplicitamente prefigurate in un comunicato del colonnello della SS-Polizei Paul Zimmermann, tra i responsabili delle operazioni, datato 17 settembre 1944: “Uccidete tutti coloro che catturerete, distruggete i loro corpi rendendoli irriconoscibili, agite pensando di avere davanti il peggior nemico, un assassino senza scrupoli, che vi colpisce nell’ombra, alle spalle, incendiate tutto, ricordate che la popolazione parteggia per i ribelli!”
Tra il 22 e il 28 settembre, all’esterno del muro di cinta meridionale della caserma “Efrem Reatto”, vennero eseguite diciassette fucilazioni […]
Oltre che l’eliminazione dei ribelli, il rastrellamento aveva anche l’obiettivo di terrorizzare la popolazione civile, colpevole di sostenere i partigiani; per questo motivo, in tutti i paesi attorno al Grappa ci furono fucilazioni ed impiccagioni pubbliche, alle quali vennero obbligati ad assistere gente comune e, in molti casi, i parenti delle vittime. Ad Arten, frazione di Fonzaso, tra i fucilati vi fu anche Lino Camonico, che aveva cercato inutilmente di fuggire al rastrellamento andando in direzione opposta alla sua Bassano.
Nella città del Grappa, l’obiettivo di terrorizzare la popolazione civile venne ampiamente raggiunto il pomeriggio del 26 settembre 1944 […]
Prestando fede ad una testimone, almeno altri trenta cappi avrebbero dovuto essere predisposti sulle rimanenti vie di accesso alla città, in modo che le impiccagioni potessero essere di monito non solo per i bassanesi, ma anche per tutti coloro che arrivavano in città, oltre che dalla Valbrenta e dal Trevigiano, anche da Padova e da Vicenza; il terribile proposito non fu però completamente attuato, perché la serie di impiccagioni venne sospesa a seguito di un intervento diretto del vescovo di Vicenza, dopo gli infruttuosi tentativi dell’arciprete abate di Bassano e del Commissario Prefettizio della città, Rolando Stecchini: in una relazione scritta, don Antonio Fioravanzo, segretario del vescovo Zinato, riferisce di una convocazione in seminario dell’ammiraglio Sparzani, ministro della Marina della R.S.I., al quale il vescovo richiese con fermezza di por fine alle esecuzioni, protestando fortemente per quelle appena avvenute; alla presenza di mons. Zinato, prosegue la relazione, l’ammiraglio si mise telefonicamente in contatto con Mussolini, che ottenne dal comando tedesco la sospensione delle impiccagioni […]
Il più giovane degli impiccati aveva appena compiuto sedici anni, il più anziano non aveva trent’anni. Essi si aggiungevano ai diciassette barbaramente fucilati, nei giorni precedenti, all’esterno del muro di cinta della caserma “Efrem Reatto”, mentre la lunga scia di morti e barbarie continuerà anche in seguito, con i tre fucilati di San Michele, il 5 gennaio 1945, ed i tre fucilati per rappresaglia sul ponte Vecchio, il 22 febbraio dello stesso anno, dopo l’attentato partigiano al Ponte Vecchio.
Le loro singole vicende sono state oggetto dell’amorevole ricostruzione effettuata da Lorenzo Rossi, Paolo Meggetto, Roberto Zonta e Diego Geremia; grazie al loro lavoro, raccogliendo testimonianze ed incrociando numerosi studi più recenti, è stato possibile aggiungere un volto ed una storia ai tanti Martiri finora poco conosciuti e fissare un’ipotesi di nome e cognome per gli impiccati ed i fucilati che sono ancora ricordati come “ignoti” su croci e lapidi.
Tutto questo impegno, certosino ed appassionato, ci rende più vicine e riconoscibili anche le pagine più tragiche e cupe della storia recente della nostra città. Francesco Tessarolo, Il Monte Grappa nell’estate del 1944, Introduzione a Francesco Tessarolo, Paolo Meggetto, Roberto Zonta, Vite spezzate. Gli eccidi nell’agro bassanese (1944-45), Attiliofraccaroeditore, 2018

Fonte: Lorenzo Capovilla, Op. cit.

Il libro della Residori ricostruisce il massacro perpetrato dai nazifascisti nel corso del rastrellamento organizzato per annientare le formazioni partigiane operanti nella zona del monte Grappa, nel settembre 1944. Attraverso un uso attento delle fonti a disposizione, l’a. giunge ad una descrizione delle vicende e delle modalità relative alle uccisioni di partigiani e fiancheggiatori, o presunti tali, di ex prigionieri alleati, di ostaggi rastrellati nel corso delle operazioni. L’azione antipartigiana si rivolge in modo sistematico e premeditato contro i civili, colpevoli di fornire quegli appoggi senza i quali i partigiani non potrebbero resistere in montagna. Ma non si tratta di una violenza indiscriminata, che colpisce dall’esterno le comunità ai piedi del Grappa. In molti casi la violenza segue una pista precisa, disegnata dai conflitti e dagli odi della guerra civile: sono infatti i fascisti locali, e in altri casi meschini delatori per denaro, che contribuiscono alla cattura dei fuggiaschi, anche con subdoli trucchi che utilizzano i preesistenti legami all’interno delle comunità. Proprio a partire dal ruolo e dalle dirette responsabilità che fascisti locali e brigatisti neri ebbero nel massacro, la storia dell’eccidio del Grappa si ricongiunge alle complesse vicende nazionali che portarono alla transizione dal fascismo alla Repubblica. La fine della guerra sembrò offrire ai parenti delle vittime l’opportunità di veder realizzata la punizione dei colpevoli dell’eccidio. Il CLN locale si adoperò per raccogliere tutte le informazioni necessarie per cominciare i processi, attraverso lo strumento delle Corti d’Assise straordinarie, ma ben presto tali istituzioni furono svuotate di ogni potere reale. Per contro il passaggio dei casi all’amministrazione giudiziaria ordinaria fu l’inizio di un percorso accidentato e tortuoso, lungo un itinerario attraverso il quale gli orientamenti della magistratura giudicante si fanno sempre più sordi alle richieste di giustizia, e sempre più attenti alle esigenze di un discorso di pacificazione imposto dall’alto, e nella maggioranza dei casi condiviso dalla magistratura stessa. Ed è qui che si assiste a un clamoroso capovolgimento, che utilizza alcuni degli elementi costitutivi del processo di ricostruzione dell’identità nazionale italiana. Le responsabilità dei fascisti vengono ridimensionate nel paragone con la ferocia tedesca; i repubblichini si spacciano, a volte con successo, per difensori della popolazione dalle angherie delle truppe germaniche. Ma c’è da dire che neanche la gran parte dei crimini di guerra compiuti dagli occupanti tedeschi contro i civili furono perseguiti, in base alle esigenze di una complessa strategia diplomatica maturata nel contesto dei nuovi equilibri internazionali. E quando le responsabilità dei fascisti sono evidenti ci pensa l’indulgenza della corte a mitigare le condanne, fino all’amnistia di Togliatti, che di fatto allontana definitivamente ogni possibilità di giustizia. Forse l’interesse maggiore che suscita questo lavoro consiste proprio nel suo contributo alla riflessione storica sul tema della transizione nel dopoguerra che ancora necessita di una fase di approfondita ricerca.
Andrea De Santo, Sonia Residori, Il Massacro del Grappa. Vittime e carnefici del rastrellamento (21-27 settembre 1944), Verona, Cierre, 280 pp., Euro 12,50 2007, Sissco Società italiana per lo studio della storia contemporanea

Nel settembre 2007 è uscita la memoria di Santo Valenti dal titolo “Stellette sul Grappa” edita dall’Istresco e conclusa da un’ampia postfazione di Roberto Fontana. Questo ricercatore ha potuto accedere a nuovi documenti di parte neofascista e attingere via Internet a nuove fonti inglesi. Altre ricerche sono state portate avanti dal gruppo di lavoro dei due Istituti storici di Treviso e Vicenza con Sonia Residori, Federico Maistrello, Lorenzo Capovilla. E’ stato così possibile ricostruire il ruolo della truppe nazifasciste nel corso del rastrellamento, la catena di comando germanica, in particolare il ruolo svolto dal gen. delle SS Karl Brunner direttamente collegato al gen. Wolff di Verona in quanto componente del suo stato maggiore e soprattutto è stata messa in luce la parte svolta dal ten. Herbert Andorfer considerato il responsabile immediato dell‟ordine di impiccagione del 26 settembre a Bassano.
Contemporaneamente proseguivano le ricerche coordinate da Sonia Residori e Federico Maistrello che, in contatto con il prof. Carlo Gentile, uno dei più esperti studiosi di stragi naziste e consulente di tribunali italiani sulla presenza germanica in Italia nel corso della Resistenza, arrivavano a individuare e precisare l‟esistenza di uno speciale gruppo mobile di azione contro le “bande” partigiane, chiamato Kommando Andorfer dal suo comandante, il tenente delle SS di origine austriaca Herbert Andorfer. Questo ufficiale è stato ritenuto responsabile di azioni antiguerriglia prima nella provincia di Savona e Imperia nel marzo del 1944, è stato a capo di una sezione staccata a Macerata fra maggio e luglio. Questo gruppo, composto da una sessantina di elementi, è presente anche in azioni di rastrellamento nel Parmigiano chiamate operazione “Wallenstein”. Verrà spostato in Veneto e impiegato nell’Operazione Piave del rastrellamento del Grappa nel settembre 1944.
Tausch sarebbe il tedesco che organizza e fa eseguire le impiccagioni del 26 settembre 1944 a Bassano.
Perillo lo ritiene presente a Bassano ancora ai primi di gennaio 1945 e, in un documento trovato negli archivi inglesi, lo fa responsabile dell’esecuzione di tre partigiani, Antonio Todesco, Tullio Campana e Leone Mocellin, che egli teneva prigionieri in attesa di processo e che furono trucidati in Valrovina verso Campese. Il Kommando Andorfer aveva soprattutto compiti di identificazione e di primo interrogatorio dei partigiani catturati. Ne faceva parte anche uno dei principali responsabili della repressione antipartigiana nel feltrino, Willy Niedermayer, un albergatore altoatesino arruolatosi nelle SS, e autore dell‟eccidio di Arten dove vennero impiccati ai cancelli di Villa Zampieri 2 partigiani del Grappa, mentre altri 4 furono fucilati senza processo. Altre piste di ricerca che hanno portato a novità importanti sui fatti del Grappa del settembre 1944 sono contenute nel volume di Sonia Residori “Il massacro del Grappa”, uscito a novembre dell’anno scorso edito da Cierre e Istrevi.
Anzitutto la questione relativa al numero delle vittime partigiane del rastrellamento. Una tabella proposta in appendice al volume arriva a censire 230 caduti, dei quali 187 fra bruciati, fucilati e impiccati, 23 morti in combattimento, mentre di 20 persone non si conosce la circostanza della morte. Sono cifre ancora indicative, ma certamente molto lontane da quelle fornite nel 1986 dalla pubblicazione di Opocher, Morello, Toaldo “Il rastrellamento del Grappa –20-26 settembre 1944” che parla di 171 impiccati e fucilati, 300 morti in combattimento e circa 400 deportati di cui due terzi non fecero ritorno.
Altro capitolo interessante e poco studiato è quello relativo ai deportati del rastrellamento del Grappa. Abbiamo tentato una ricostruzione sistematica del numero e delle vittime della deportazione, ma diverse difficoltà stanno rallentando il lavoro. Siamo riusciti però ad individuare un campo di deportazione-sottocampo di Dachau – a Huberlingen sul Lago di Costanza dove furono deportati come politici una decina di rastrellati sul Grappa, sette dei quali, dei comuni di Romano d‟Ezzelino, Borso del Grappa, Crespano e Paderno del Grappa morirono vittime di malattie e incidenti nel corso dei lavori forzati cui furono sottoposti. Essi sono stati sepolti nel 1945 in un cimitero di guerra a Birnau voluto dal comandante francese delle truppa alleate a pochi Km. dalle gallerie Stollen che un migliaio di deportati stavano scavando. I capitoli “Il dolore degli altri” e “Corpi appesi e corpi nascosti” del volume della Residori gettano nuova luce sui giovanissimi fucilati del 24 settembre ’44 alla Caserma Efrem Reatto, su alcuni impiccati del comune di Pove e sulle responsabilità dei gerarchi fascisti locali. Mettono in evidenza poi l’ingenuità e la buona fede di alcuni famigliari che convinsero diversi partigiani a presentarsi ai loro carnefici. Altri spunti di ricerca hanno messo in luce il ruolo di alcuni esponenti della chiesa locale in gran parte vicini e solidali con i partigiani del Grappa, ma in taluni casi, come quello del frate padre Antonio di Gesù, schierati con i rastrellatori al punto da partecipare ad alcune azioni sul massiccio.
Lorenzo Capovilla, considerazioni conclusive in art. cit. (specifico) in I Nuovi Samizdat

Questo libro di Sonia Residori è la storia del rastrellamento del Grappa che si risolse in un massacro di inermi, ma è anche la storia di una gigantesca menzogna e di un’enorme ingiustizia che conferiscono all’“evento” la fisionomia di una grande tragedia collettiva. Gli esecutori negarono ogni loro responsabilità, alcuni reparti non vennero neppure processati e, alla fine, nessuno scontò la pena per quanto aveva commesso: le vittime, dopo l’ingiustizia del massacro, subirono l’ulteriore ingiustizia dell’assenza di giustizia.
Con questa ricerca si dimostra il valore che assume l’analisi dettagliata di un fatto traumatico per la comprensione di un contesto e anche per i nuovi interrogativi che ne scaturiscono e che coinvolgono il nostro passato ma anche il nostro presente insieme con la nostra stessa qualità di esseri umani. Il lavoro infatti ha al centro la ricostruzione del massacro del Grappa operato da truppe del Terzo Reich e della Repubblica sociale italiana fra il 20 e il 28 settembre 1944, ma si allarga a investire questioni di giustizia e di memoria (pubblica e privata), nonché di elaborazione del lutto, mentre riflette sui caratteri di quella violenza spropositata. È anche, possiamo dire, una microstoria che pone domande alla macrostoria o, se vogliamo, l’analisi di un “episodio”, collocato in uno spazio ben definito e in un tempo altrettanto delimitato, che – proprio in virtù di questo ancoraggio – riesce a dialogare con altri “episodi” analoghi per la definizione di una propria specificità o di eventuali similitudini.
Residori si concentra soprattutto sull’azione dei massacratori – nazisti e “repubblichini” -, ma osserva lo stesso movimento partigiano di cui discute la leggenda che lo vuole ancorato ai soli valori combattentistici e a un mondo di eroi, più robot che uomini, votati innanzitutto alla morte. Con ciò colloca il suo lavoro nella storiografia più generale che da decenni, e specialmente dal volume di Claudio Pavone del 1991, ha sottolineato la complessità della Resistenza e la sua molteplicità (nonché il suo carattere “morale” prima che “militare”) <1.
È il caso di spendere alcune parole sul procedimento della ricerca che qui si presenta, sul suo momento di avvio e sul suo svolgimento.
L’autrice è partita da una domanda molto semplice ma altrettanto basilare per chiunque voglia ricostruire una storia: che cosa avvenne realmente in quei giorni del settembre 1944?
Sorretta da una tensione conoscitiva non comune, come si può capire fin dalle prime pagine di questo libro, Sonia Residori, per rispondere alla domanda, si è mossa come un segugio in molteplici direzioni alla ricerca della documentazione. Poteva già contare su alcuni importanti lavori, principalmente quelli di Opocher, Ceccato, Gios, Maistrello, Capovilla e De Santi, che avevano anche evidenziato l’impegno in prima fila – nel promuovere studi storici e raccolte di testimonianze – degli Istituti per la storia della Resistenza del Veneto e delle province di Belluno, Treviso, Vicenza <2. Fondamentali si sono rivelati i fascicoli dei processi celebrati nell’immediato dopoguerra che, oltre alle deposizioni di testimoni ed esecutori, alle relazioni di funzionari dell’ordine pubblico richiesti di informazioni, contengono anche carte coeve al massacro raccolte nel corso delle indagini. Il confronto con altre fonti già edite, principalmente le carte dei parroci, ha consentito alla fine che i diversi pezzi del puzzle abbiano cominciato a inserirsi l’uno nell’altro e a disegnare un insieme più chiaro.
Per quanto non sia possibile far piena luce su tutti i singoli episodi di quelle giornate, inequivocabile risulta la fisionomia della carneficina. Quella che doveva essere e si cercò, poi, di far passare come un’“operazione militare” contro i partigiani – l’“Operazione Piave” -, acquistò dopo poche ore i tratti del massacro contro prigionieri e civili disarmati. Le forze della Resistenza asserragliate sul Grappa non avevano – infatti – le armi adeguate e sufficienti e neppure le munizioni per fronteggiare un rastrellamento in grande stile e, dopo un breve tentativo per contrastarlo, dovettero abbandonare il terreno.
Si può senza dubbio parlare di ingenuità dei comandi partigiani che non seppero prevedere un attacco di quelle proporzioni, ma in questo caso, come in altri analoghi, non si deve cadere nell’errore di prospettiva storica che presuppone una parità di condizioni fra il rastrellatore e il rastrellato, fra chi ha imposto e vuole imporre con la forza il suo ordine militare, politico, culturale e amministrativo e chi cerca di opporvisi ed è obbligato a muoversi nella clandestinità. Inatteso in quelle sembianze il rastrellamento produsse panico fra molti di quei ragazzi che si erano rifugiati sul Grappa, quasi una zona libera, per sfuggire alle ingiunzioni della Repubblica sociale che li voleva precettati per la continuazione della guerra dell’Asse, che era – non si deve dimenticare – la guerra per il Nuovo ordine europeo razzista e antisemita.
In generale, dunque, pur con variazioni a seconda delle zone, dopo poche ore la violenza nazista e fascista si dispiegò contro degli inermi: uomini, non già anche e specialmente donne e bambini, come nei casi di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto-Monte Sole. Ma, comunque, uomini inermi.
Non solo: la violenza si configurò in modo tale da richiedere aggettivazioni supplementari o l’utilizzo di altri termini per designarla, non sembrando la parola “violenza” sufficiente per denominare ciò che avvenne. Così si deve ricorrere a termini quali “crudeltà”, “atrocità”, “orrore”, “terrore” o a “violenza estrema”, “atroce”, “crudele” <3…
Del resto, Guerra di sterminio, Politica del massacro, Terra bruciata, Guerra ai civili sono titoli di libri e al contempo categorie di interpretazione delle strategie e delle pratiche di guerra adottate dalla forza occupante nazista, che alcuni studiosi e studiose hanno impiegato in particolare dal 1997 a oggi per caratterizzare quella violenza <4.
Quando, poi, quali soggetti attivi di violenza – in subordine o in autonomia rispetto ai reparti militari della Germania nazista – si ritrovano, come nel rastrellamento e nel massacro del Grappa, reparti e uomini della Repubblica sociale italiana, il quadro ne esce complicato e più difficile risulta convenire su una terminologia soddisfacente. Ma il problema di una definizione adeguata, per quanto rilevante, non deve essere di ostacolo alla ricostruzione degli “eventi”: avremo modo di trovare i termini più appropriati, ma intanto procediamo con l’analisi, come alcuni dei padri della storiografia ci hanno insegnato.
Dunque, una violenza particolare, eccessiva, abnorme. Quale espressione infatti possiamo usare per caratterizzare l’impiccagione dei 31 uomini appesi agli alberi di alcune vie principali di Bassano del Grappa? Sapendo, poi, che il cappio era già stato predisposto e che giovanissimi “repubblichini” passavano, su un camion, lungo il percorso con i partigiani o presunti tali catturati, si fermavano sotto l’albero di turno, sistemavano il laccio attorno al collo del prigioniero e procedevano dando a quest’ultimo una spinta o semmai aggrappandosi al suo corpo perché penzolasse meglio?
Doppia ferocia: quella delle forme della morte degli uccisi e quella che proviene dal volto adolescente degli uccisori e che ci pone interrogativi drammatici su chi consentì quell’agire.
L’episodio di Bassano, che generò allora raccapriccio fra la popolazione presente e che tuttora genera raccapriccio quando se ne guardi la fotografia, è piuttosto conosciuto. Ma l’indagine di Sonia Residori si incarica di farci conoscere altre impiccagioni attuate in diverse località dell’area, nonché esecuzioni sommarie con plotoni misti italiani e tedeschi e – prima – fermi, incarcerazioni, torture e – ancora – devastazioni, incendi di caseggiati, razzie di bestiame. In alcuni casi si irrise e si umiliò la vittima. In altri si incoraggiarono i parenti a far opera di persuasione presso i giovani affinché si presentassero ai comandi italiani: avrebbero avuta salva la vita, li si sarebbe inviati al servizio del lavoro obbligatorio; ma molti ragazzi, alcuni minorenni, furono ammazzati. Altri, in numero tuttora imprecisato, furono deportati e molti non fecero ritorno.
[…] È difficile comprimere in poche parole la corsa del ’camion della morte’ lungo la strada che da Pederobbia va a Cavaso e poi a Possagno.
Il rischio è che la contrazione descrittiva provochi una riduzione conoscitiva. Bene ha fatto, perciò, Residori a restituirci larghi spaccati di quelle terribili giornate mediante il racconto dei singoli episodi. Prendiamo, per esempio, questo: «Gilberto [Carlessol fu impiccato il 25 settembre 1944 a Cavaso del Tomba, al poggiolo della casa del dottor Luigi Dalla Favera, in via Paveion. Quello stesso giorno furono impiccati Marcello Zilio al poggiolo del Municipio di Cavaso davanti al forno; Guerrino Dissegna, Matteo Scalco e Michele Ancona tutti e tre al poggiolo di casa Binotto dalla parte rivolta verso piazza Caniezza; mentre uno sconosciuto veniva appeso al poggiolo del cinema in piazza Caniezza. Il giorno precedente, domenica 24 settembre, erano stati impiccati Girolamo Binotto ad un palo della luce in via Virago, davanti alla chiesa di san Vittore; Mirto Andrighetti ad un palo della luce presso la chiesa di san Vittore di fronte a Binotto; Ermenegildo Metti ad un palo della luce situato dopo l’osteria Bellincanta, a sinistra della chiesa parrocchiale; e Carmine D’Innocenzo al poggiolo di casa Rigattieri in località Caniezza. Sabato 23 erano stati impiccati Giuseppe Ardito sempre al poggiolo di casa Binotto che dà su via Roma, all’angolo del Municipio, in piazza Caniezza; un marinaio rimasto sconosciuto, forse veneziano, ad un palo della luce presso la cappelletta dell’Angelo, davanti alla chiesa parrocchiale di Cavaso; e Alfredo Ballestin ad un gelso dietro la propria abitazione in via Roma, mentre la casa veniva data completamente alle fiamme».
Esposizione dei corpi degli uccisi, su cui ha riflettuto Mario Isnenghi <5. Ma pure occultamento di corpi, gettati anche in discariche per accelerarne la decomposizione e ai quali era stato prima sottratto qualsiasi segno di riconoscimento. Per tutti non si poté stabilire l’identità alla fine della guerra e diversi corpi sono rimasti innominati, mentre non siamo ancora in grado di stabilire il numero esatto degli assassinati, ben oltre i 192 ai quali è stato possibile attribuire un nome. «Ancora ai nostri giorni – viene qui scritto ed è un’informazione agghiacciante – è diffusa l’opinione che un numero imprecisato di uccisi senza identificazione sia sepolto da qualche parte sul Grappa, e che le gallerie della prima guerra mondiale siano state utilizzate come nascondigli per i corpi dei partigiani uccisi. Non è escluso che al fondo di questa convinzione di molti vi sia qualcosa di vero, anche se è probabile che questi uccisi appartengano più alla categoria dei massacrati che dei morti in combattimento».
La presenza di desaparecidos e di “ignoti” fa riflettere sul tipo di violenza messa in atto, dal momento che gli esecutori provvidero a occultare i corpi e a distruggere i segni di riconoscimento. Qualcosa di calcolato si inserì in quella violenza, che immediatamente potrebbe apparire istintiva e irriflessa. E infatti, come fa emergere Residori, si trattò di un fenomeno complesso in cui il piacere del rastrellare in quelle forme – di cui diedero prova diversi reparti e gruppi – si combinò con la “freddezza” più tipica delle strutture militari e con la pianificazione dall’alto e a vari livelli dell’intera operazione.
L’“Operazione Piave”, del resto, era stata organizzata dai comandi nazisti e ad essa avevano voluto contribuire forze armate della Repubblica sociale. In un Appunto per il duce del 21 settembre, Alessandro Pavolini – comandante generale delle Brigate Nere – vantava questa presenza che, agli ordini del colonnello Menschik, era costituita dalla «1a Legione SS “Tagliamento” al comando del Colonnello Zuccari» e dalla «22° Brigata Nera Provinciale di Vicenza, al Comando del Federale Passuello». Pavolini informava poi Mussolini che il 20 settembre la Brigata Nera vicentina si era radunata a Bassano del Grappa, equipaggiata e armata e che i suoi uomini si erano «presentati molto bene»: «tutto il loro portamento denotava l’ansia di misurarsi col nemico, di combattere, di gareggiare in bravura ed ardimento con i Camerati Germanici» <6.
Una gara di emulazione, dunque, nei riguardi del nemico comune rappresentato dai partigiani, non importa se nella stragrande maggioranza italiani e non importa – possiamo aggiungere noi – se il rastrellamento si risolse di fatto in un massacro di uomini disarmati. I cosiddetti “banditi” costituivano il “nemico numero uno” della Rsi, ne palesavano il deficit di consenso e aggregazione anche – o forse specialmente – davanti all’alleato nazista. Quale credibilità poteva avere il governo di Salò con una dissidenza e un movimento partigiano così allargati? Come poteva farsi rispettare se le sue forze armate, da sole, non riuscivano a debellarli e se si rendeva necessario lo spiegamento di truppe della Germania nazista?
Invece di pensare che la Repubblica sociale era un regime imposto e sovrapposto alla popolazione e che si doveva pertanto chiudere con quell’esperienza, la dirigenza di Salò trasse altre conclusioni: affidò al Terzo Reich il compito di sconfiggere il movimento partigiano ma, contestualmente, volle dimostrare di avere degli uomini disposti a quel tipo di combattimento.
Dunque, vanto di Pavolini (e senz’altro anche di Mussolini) per quella presenza italiana fra le truppe rastrellatrici. E forse allora vanto degli stessi combattenti “repubblichini” che si erano inquadrati il 20 settembre a Bassano, «in uniforme, equipaggiati ed armati», per essere passati «in rivista dal Capo di Stato Maggiore».
Predisposizione, quindi, anche da parte della Repubblica sociale del rastrellamento. E anche fierezza per quella ostentazione di forza. Ma nel dopoguerra tutto questo venne negato. Come scrive Residori, i militi di Salò dissero di essere convenuti al massiccio del Grappa per una “gita” o per una “esercitazione”, di non essere stati assolutamente informati dell’azione che si andava a svolgere. Quando dovettero ammettere di essere stati presenti ai posti di blocco che nella pedemontana dovevano impedire la fuga dei rastrellati, dichiararono che nel luogo in cui si trovavano non era accaduto nulla e che, comunque, loro non avevano sparato.
C’erano i morti ma non c’erano gli assassini. Di fronte all’evidente incongruenza si tentò, in sede processuale, di addebitare ogni responsabilità ai tedeschi. Prendeva allora l’avvio, anche nel nostro Paese, quel teorema del “tedesco cattivo” che tanto cammino avrebbe fatto nel dopoguerra e che era molto utile per scagionarci delle nostre responsabilità.
Già nei primi mesi dopo la fine del conflitto si faceva strada in Italia il costrutto della “colpa tedesca” e della “discolpa italiana” che la memorialistica fascista, da Anfuso a Graziani, avrebbe sanzionato incontrando tanti seguaci nell’opinione pubblica non fascista o persino antifascista, così come allora in numerosi giudici dei tribunali epurativi <7.
Dagli studi di Andrae, Klinkhammer, Schreiber, Collotti, Pezzino, Carlo Gentile conosciamo i caratteri e i risultati della “vendetta tedesca” e dello stragismo messo in opera da SS e Wehrmacht in Italia <8. Ma la teoria della violenza e del terrore perpetrati esclusivamente dagli uomini del Terzo Reich riversa sul “nemico esterno” ogni responsabilità degli omicidi e dei massacri, i quali, come italiani, non ci riguarderebbero o, meglio, ci riguarderebbero in quanto vittime e non come autori-esecutori-responsabili.
Vedere i tedeschi come concentrato di ogni male ha come conseguenza il rafforzarsi del mito degli “italiani brava gente” e implica che si concepisca la questione del male come una questione biologica, che attiene a un popolo o a una “razza”, mentre un altro popolo o un’altra “razza” ne sono indenni in quanto portatori naturali di bene.
[…] «Se le Brigate Nere avessero voluto, avrebbero potuto fare del bene. Essi prendevano ordini dai Tedeschi, ma volendo avrebbero anche potuto chiudere un occhio, perché i Tedeschi non li controllavano molto accuratamente»: la deposizione del teste Zanatta al processo sui fatti del Grappa chiarisce alcuni dei margini di autonomia di cui potevano godere i fascisti italiani persino nel corso di un rastrellamento. Essi erano subalterni ai nazisti ma anche autonomi fino a poter prendere la decisione di uccidere “in piena libertà” anche in assenza di truppe tedesche: «I fascisti hanno impiccato mio figlio, dirà Maria Scopel. Tedeschi non ne ho visti all’impiccagione di mio figlio».
Ci fu chi, dopo il massacro, scrisse di vergognarsi di essere fascista, come Ermanno Zen e chi, come Filippo Zen, manifestò tutta la sua indignazione con il reggente locale del fascio aggiungendo di non sentirsela «più di appartenere ad un partito che permette o tollera simili delitti».
L’intreccio fra terrore pianificato e terrore spontaneo, quest’ultimo innestato sul primo e impossibile in quelle forme reiterate senza un imprimatur dall’“alto”, caratterizzò la “liberazione” del Grappa da parte dei nazisti e dei “repubblichini”. La presenza di adolescenti delle Fiamme bianche per tutta la durata dell’“Operazione Piave” e perfino di un bambino, Tonino, in un plotone di esecuzione non può lasciar dubbi sul tipo di guerra programmata a Salò. Quasi che anche l’Italia non dovesse restare seconda rispetto alla Germania nella mobilitazione totale della popolazione, compresi i ragazzini. Non si sarebbe del resto giunti, su un piano centrale, ad ammettere i minori di diciotto anni nelle Brigate Nere anche senza il consenso del padre? E sulla stampa non si tesseva ripetutamente l’elogio dei bambini “patriottici”?
L’assenza di giustizia nel dopoguerra non rese giustizia alle vittime ma, forse, non rese giustizia neppure a questi adolescenti e bambini istigati a diventare assassini. […]
[NOTE]
1. Pavone C., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Per la storiografia sulla Resistenza sia sufficiente rinviare a Peli S., La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, alla bibliografia ivi contenuta, e agli studi di Anna Bravo che si sono indirizzati alla definizione e all’analisi della Resistenza civile.
2. Opocher E. (a cura di), Il rastrellamento del Grappa, Istituto veneto per la storia della Resistenza, Marsilio, Venezia 1986; Ceccato E., Il rastrellamento del Grappa (1944), in «Venetica», n.s., n. 4, a. XII, 1995; Gios P., Parroci e Resistenza nei vicariati di Fonzaso e di Quero, Istituto bellunese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Belluno 2003; Maistrello F. (a cura di), Processo ai fascisti del rastrellamento del Grappa. Corte d’Assise straordinaria di Treviso, 1947, Istresco (Istituto per la storia della resistenza e della Società contemporanea della Marca Trevigiana), Treviso 2004; Capovilla L. e De Santi G., Sui sentieri dei partigiani nel massiccio del Grappa, Istresco-Cierre, Verona 2006.
3. Pur se rivolte a differenti contesti, sono utili anche per noi le analisi e le riflessioni di Véronique Nahoum Grappe (L’uso politico della crudeltà: l’epurazione etnica nell’ex-Jugoslavia: 1991-1995) e Claudine Vidal (Il genocidio dei Ruandesi tutsi: crudeltà voluta e logiche dell’odio), in F. Héritier (a cura di), Sulla violenza, Meltemi, Roma 1997 (l’ed. orig. è del 1996). Si veda inoltre Mark Mazower, Violence and the State in the Twentieth Century, in «American Historical Review», ottobre 2002, pp. 1158-1178; Le XX siècle des guerres, sotto la direzione di Pietro Causarano, Valeria Galimi, Franqois Guedi, Romain Huret, Isabelle Lespinet-Muret, Jéróme Martin, Michel Pinault, Xavier Vigna, Mercedes Yusta, Les Editions de l’Atelier/Editions Ouvrières, Parigi 2004; Baldissara L. e Pezzino P. (a cura di), Crimini e memorie di guerra. Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004. Per alcune sottolineature di carattere generale su questi temi mi sia consentito rinviare a Gagliani D., La guerra come perdita e sofferenza. Un vagabondaggio negli evi e nelle rilevanze storiografiche, in «Parolechiave», n. 20/21, 1999 (numero dedicato alla Guerra), p. 187 e ss.
4. Battini M. e Pezzino P., Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944>, Marsilio, Venezia 1997; Gribaudi G. (a cura di), Terra bruciata. Le stragi naziste sul fronte meridionale, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2003; Fulvetti G. e Pelini F. (a cura di), La politica del massacro. Per un atlante delle stragi naziste in Toscana, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2006. Gianluca Fulvetti, nel suo saggio introduttivo, propende per una interpretazione plurale: «guerre ai civili» al posto di «guerra ai civili», ivi, p. 9 e sgg. «Guerra di sterminio» è utilizzato da Ivano Tognarini (a cura di), Guerra di sterminio e Resistenza. La provincia di Arezzo (1943-1944), Esi, Napoli 1990. Accanto al termine “massacro” la storiografia ha aggiunto l’aggettivo “ordinario”, per designare la “normalità” di quella violenza: Paggi L. (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996. Si rinvia inoltre a Contini G., La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997 e a Portelli A., L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine e la memoria, Donzelli, Roma 1999.
5. Isnenghi M., L’esposizione della morte, in Ranzato G. (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 330-52.
6. Appunto per il duce: Operazione antiribellistica zona del Monte Grappa, 21 settembre 1944, ACS, SPDCR, b. 30, fasc. 238, edito in Istituto storico bellunese della Resistenza (a cura di), 1943-1945: Occupazione e Resistenza in provincia di Belluno. I documenti, Comitato organizzatore per il 40° della Medaglia d’Oro al Valore Militare alla città di Belluno per la lotta di liberazione della Provincia, Belluno 1988, p. 94. L’Appunto è riprodotto fotostaticamente in Maistrello R(a cura di), Processo ai fascisti del rastrellamento del Grappa, cit., fra i “Documenti”.
7. Sulla costruzione di questo tipo di memoria, si veda Germinario F., L’altra memoria. L’Estrema destra, Salò e la Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Per le memorie di riferimento: Anfuso F., Roma, Berlino, Salò (1936-1945), Garzanti, Milano 1950; R. Graziani, Ho difeso la Patria, Garzanti, Milano 1950.
8. F. Andrae, La Wehrmacht in Italia. La guerra delle forze armate tedesche contro la popolazione civile 1943-1945, Editori Riuniti, Roma 1997 (ed. orig. 1995); Klinkhammer L., Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili (1943-44), Donzelli, Roma 1997 (nuova ediz.: 2006); Schreiber G., La vendetta tedesca. 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000 (ed. orig. 1996). Per i lavori di Collotti, sia sufficiente rinviare a Collotti E., Occupazione e guerra totale nell’Italia occupata, in Matta T. (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Electa, Milano 1996, pp. 11-35; Id., Obiettivi e metodi della guerra nazista. Le responsabilità della Wehrmacht, in Paggi L. (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, cit., pp. 24-45. A Carlo Gentile siamo debitori di una vasta ricerca sulle biografie dei nazisti e sugli episodi che li videro protagonisti: qui si rinvia solo a Gentile C., “Soldati politici”. La 16. SS-Panzergrenadier-Division “Reichsfiihrer-SS” e le stragi in Italia e Una unità di élite in guerra: la divisione “Hermann Goering” e le stragi di civili in Toscana, in Fulvetti G. e Pelini E(a cura di), La politica del massacro, cit. Per i lavori di Pezzino, sia sufficiente ricordare Pezzino P., Guerra ai civili: le stragi tra storia e memoria Introduzione a Baldissara L. e Pezzino P. (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit. Si veda anche Baldissara L., Guerra totale, guerra partigiana, guerra ai civili, in Fulvetti G. e Pelini F. (a cura di), La politica del massacro, cit.
Dianella Gagliani, Prefazione a Sonia Residori, Il Massacro del Grappa. Vittime e carnefici del rastrellamento (21-27 settembre 1944), Verona, Cierre, Istrevi, 2007