Il numero delle salme presenti nella voragine non verrà mai accertato

Fonte: Wikipedia

Iniziano così i quaranta giorni di occupazione jugoslava di Trieste, una liberazione dal punto di vista della comunità slovena residente nella città, una terribile oppressione per gli italiani, per i triestini che ancora oggi ricordano con dolore quel capitolo della loro storia.
Sono gli anni delle foibe (il termine indica originariamente i grandi inghiottitoi naturali tipici della regione carsica): a partire dall’autunno del 1943 il disfacimento dell’esercito italiano in Venezia Giulia aveva permesso agli slavi un ampio controllo dei territori del litorale adriatico. Le eliminazioni di elementi fascisti si fanno sempre più frequenti, coinvolgendo un numero crescente di persone, sino ad arrivare al tragico traguardo delle torture ed uccisioni per via della nazionalità di appartenenza. È la vendetta slovena, la risposta a decenni di barbarie fasciste, ma non solo. È l’inevitabile e purtroppo comprensibile evoluzione di un rapporto tra popoli che forse non troverà mai pace.
Con l’occupazione jugoslava si verificano requisizioni, confische, arresti di numerosi cittadini, sospettati di nutrire scarsa simpatia nei confronti dell’ideologia comunista o ritenuti inaffidabli per posizione sociale, censo, origini familiari e, come accennato in precedenza, nazionalità.
Nel documentario “Le vie della memoria – La foiba di Basovizza”, a cura dell’IRSML <62, gli studiosi Raoul Pupo e Roberto Spazzali forniscono un’esauriente descrizione della situazione. Gli storici introducono l’argomento partendo dal primo maggio 1945, in corrispondenza quindi con l’inizio dell’occupazione jugoslava della Venezia Giulia. Qui l’amministrazione titina trova vasti consensi non solo tra la popolazione slovena, ma anche tra gli operai italiani di orientamento comunista. Forte disaccordo è invece manifestato dalla restante parte della popolazione italiana. I poteri popolari provvedono alle necessità prime dei cittadini e li coinvolgono nella creazione del nuovo regime, ma a tale politica propositiva si affianca la repressione. Questa assume la forma di un’ondata di violenza di grandi proporzioni: nella Venezia Giulia i nuovi poteri adottano la medesima logica di eliminazione di massa degli avversari politici adottata nei territori jugoslavi appena liberati dai tedeschi. A Trieste si contano alcune migliaia di arresti, che avvengono sulla base di liste da tempo preparate dalla polizia politica, l’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, ossia Dipartimento per la Sicurezza del Popolo). Le categorie colpite sono prevalentemente quadri del partito fascista e delle organizzazioni del regime, collaborazionisti dei tedeschi, rappresentanti dello stato italiano, membri delle forze di polizia, elementi che negli anni precedenti in qualche modo si erano distinti per il loro antislavismo, aderenti ad associazioni patriottiche italiane, persone note per i loro sentimenti italiani, ma anche sloveni anticomunisti, soggetti che a diverso titolo avrebbero potuto guidare il dissenso nei confronti delle nuove autorità. All’arresto segue di rado l’accertamento di responsabilità individuali. Gli arrestati vengono uccisi subito o, nella maggior parte dei casi, inviati nei campi di prigionia, dove condizioni di vita precarie, maltrattamenti e mancanza di alimentazione mietono un alto numero di vittime. Il più noto è il campo di Borovnica, presso Lubiana. I rilasci cominciano alla fine dell’estate, ma di alcune migliaia di persone si smarrirà ogni traccia.
Uno degli episodi più controversi di quell’ondata di violenza è quello comunemente chiamato foibe, che avviene nel villaggio di Basovizza, sul Carso triestino: fra il 29 e 30 aprile del 1945, il paese è teatro di violenti scontri tra tedeschi e jugoslavi. Cessati i combattimenti con la caduta dei tedeschi, carcasse di cavalli e materiali di rifiuto vengono sgombrati precipitandoli in una grande voragine, il cosiddetto “pozzo della miniera”, profondo più di 200 metri. Nei giorni successivi, secondo alcune testimonianze, nei pressi del paese viene costituito un tribunale militare jugoslavo, che processa con rito sommario alcune centinaia di italiani. Sembra, per la maggioranza, agenti ed ufficiali di polizia. Il procedimento si conclude con la condanna a morte e la fucilazione in massa degli arrestati, i cui corpi vengono poi gettati nel pozzo. Per occultare l’accaduto, nella voragine vengono gettati anche altri materiali, comprese munizioni inesplose.
In seguito all’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945, che come si vedrà sancisce il ritiro delle truppe jugoslave da Trieste, iniziano a circolare fra i triestini confuse notizie su quanto accaduto a Basovizza e le autorità aprono un’inchiesta. Ne emergono testimonianze piuttosto dettagliate, anche se le indagini condotte nel pozzo danno scarsi risultati a causa sia della mole di materiale gettatovi che della profondità dell’abisso. Il numero delle salme presenti nella voragine non verrà mai accertato.
Negli anni ’50 la “foiba di Basovizza” viene utilizzata come discarica fino a quando, nel 1959, viene chiusa con una lastra di cemento armato ad opera del commissario generale per le onoranze in guerra del ministero della difesa. Nel 1980 è stata dichiarata monumento di interesse nazionale, memoriale di tutte le vittime delle stragi del ’43 e del ’45, per poi diventare vero e proprio monumento nazionale nel 1992 <63.
[NOTE]
62 Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Provincia di Trieste.
63 Cfr. Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Le vie della memoria – La foiba di Basovizza, Trieste, IRSML, 2010
Mattia Radina, Trieste e la Venezia Giulia nel Secondo dopoguerra. Testimonianze di un confine in movimento, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno accademico 2011/2012

La questione di Trieste prende definitivamente corpo in corrispondenza ai quaranta giorni di occupazione jugoslava del capoluogo giuliano. Il fatto compiuto posto in essere dagli jugoslavi contraddice gli accordi stipulati tra Tito ed il Generale Alexander a Belgrado il 2 marzo 1945, secondo cui gli anglo-americani avrebbero amministrato Trieste e Pola <1 in quanto comunicanti con l’Austria. Tito giustifica però l’occupazione con “un’imprevista resistenza tedesca che ha reso necessarie siffatte misure” <2, senza invece esplicitare le vere ragioni della sua azione militare: le velleità annessionistiche <3 di parte slovena sul Litorale Sloveno, la Val Canale, la Slavia Veneta, e di parte croata su Zara, Fiume e tutta l’Istria <4.
Mentre le truppe della IV armata e del IX Korpus jugoslavi il 1° maggio del 1945 penetrano Trieste, i comunisti giuliani si rifiutano di sottoscrivere il documento programmatico del CLN5 che richiama In seguito all’armistizio dell’8/9/43, con l’esercito lasciato allo sbando ed i gerarchi fascisti privi di direttive dal governo centrale, in gran parte dell’Istria (che a parte la città di Pola era un territorio quasi interamente rurale) si creò un vuoto di potere nel quale si inserirono le prime formazioni partigiane che organizzarono una sorta di potere popolare, il cui comando ebbe sede a Pisino. In questo periodo furono arrestati molti esponenti del regime fascista, una parte dei quali fu passata per le armi in episodi di giustizia sommaria, ma i più furono invece uccisi quando i partigiani cominciarono ad essere incalzati dall’avanzata nazista, che stava riprendendo il controllo dell’Istria (l’operazione Wolkenbruch di cui parleremo più avanti): non potendo portarseli dietro nella fuga e non volendo lasciarli nelle mani dei tedeschi, decisero di ammazzarli, gettandone i corpi nelle foibe.
Quasi tutti gli storici, di destra e di sinistra, concordano nello stimare in alcune migliaia i morti delle foibe in Istria, ma due tra gli storici più attendibili e cioè Mario Pacor <14 e Galliano Fogar <15, affermano che nelle foibe istriane furono gettate, dopo essere state fucilate, 400/500 persone.
Il maresciallo Arnaldo Harzarich, sottufficiale dei Vigili del Fuoco di Pola, eseguì diversi recuperi da varie “foibe” istriane, dal 16 ottobre 1943 fino alla primavera del ’44: nel 1945 fu interrogato dagli angloamericani e rese una testimonianza nella quale riassume i recuperi effettuati. Da esso risultano recuperate da dieci foibe istriane 204 salme, metà circa delle quali riconosciute; sono poi indicate altre cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi, più ancora 19 persone fucilate e gettate in mare da una barca nella zona di Albona <16. La foiba nella quale fu rinvenuto il maggior numero di salme (84) fu Vines presso Albona: più di metà degli uccisi furono identificati come impiegati e dirigenti della miniera dell’Arsia, mentre gli altri risultano arrestati in altre località, anche piuttosto distanti (Pisino, Parenzo ed altre): secondo Giacomo Scotti nella zona di Albona vi furono dei pesanti scontri tra partigiani e una colonna tedesca, quindi è probabile che fu in questa circostanza che avvennero le esecuzioni, come accennato sopra.
Esiste un documento del federale dell’Istria Luigi Bilucaglia che dovrebbe mettere un punto fermo riguardo al numero reale degli “infoibati” in Istria nel periodo. Infatti Bilucaglia decise di inviare, nell’aprile ‘45, ad una persona di propria fiducia (il capitano Ercole Miani del CLN di Trieste) una documentazione che consisteva in 500 pratiche relative a risarcimenti destinati a parenti di persone uccise dai partigiani dall’8/9/43 fino allora <17.
È quindi una stessa fonte ufficiale fascista a dichiarare che, ad aprile 1945, gli “infoibati” in tutta l’Istria non erano stati più di 500, comprendendo in questo numero anche gli uccisi per fatti di guerra dopo il periodo di potere popolare nella zona di Pisino.
Quando si parla degli “orrori delle foibe” in Istria, si tralascia però sempre di citare la quantità di morti che costò la “pacificazione” operata dai nazifascisti nei territori da loro “liberati” dai partigiani. Scrive ad esempio Galliano Fogar: «Il 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani”. Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri… A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili (…) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino Il Piccolo. (…). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani. Infatti è stato ucciso anche il Podestà italiano e di sentimenti fascisti» <18.
Fogar aggiunge: «Pisino, la capitale provvisoria del movimento insurrezionale croato, benché abitata da italiani, è bombardata senza pietà da “Stukas” e cannoni. Molti cittadini sono mitragliati dai rastrellatori, irritati per un debole tentativo di resistenza dei partigiani. Vi si insedia temporaneamente il capo della Polizia ed SS Globocnik che decide sulla vita dei prigionieri, quando ne venivano fatti, ordinando brutali esecuzioni». Ed ancora: «Canfanaro è in parte incendiata ed il parroco è impiccato. A Gimino i tedeschi penetrano in molte case uccidendo vecchi, donne e bambini, incendiando fienili e cantine dove numerosi abitanti hanno cercato scampo e lanciano granate nei cespugli, nei fossi (cioè le foibe? n.d.a.), nei campi, ovunque scorgano dei superstiti» <19.
Un interrogativo che viene spontaneo porsi a questo punto è il seguente: tutti questi morti ebbero regolare sepoltura oppure i corpi furono gettati sbrigativamente (per evitare epidemie) in qualche “foiba” e furono inseriti tra le salme recuperate dalla squadra di Harzarich?
Una particolare vicenda è stata strumentalizzata negli anni (come il recente film Red Land, privo di rigore storico, che indulge soprattutto su scene di violenze attribuite ai partigiani), quello dell’uccisione di Norma Cossetto, della quale l’unica cosa che si sa con certezza è che il suo corpo è stato recuperato da una foiba. Tutte le descrizioni sulle violenze e le torture cui sarebbe stata sottoposta prima di venire infoibata non sono suffragate da alcuna testimonianza, e persino la sorella Licia, che sostenne di avere assistito al recupero della salma, ha dato svariate descrizioni diverse e contraddittorie di come avrebbe riconosciuto il corpo di Norma. È da tenere presente che il testo che viene di norma citato oggi è quello di Frediano Sessi, che ha raccolto una serie di testimonianze ed articoli ma poi, visto che non c’erano altre “fonti” per ricostruire il finale ha deciso di “inventare” la conclusione, “immaginando” un diario che Norma Cossetto potrebbe avere scritto: ed alla fine chi legge viene indotto a credere che le pagine create dalla fantasia di Sessi siano proprio le memorie della giovane <20.
In merito alle innumerevoli descrizioni di presunte torture e violenze carnali alle quali sarebbero state sottoposte le vittime prime di essere infoibate, va detto innanzitutto che non risultano testimoni oculari di tali atti, e poi che è materialmente impossibile valutare su corpi recuperati in stato di avanzata decomposizione se la persona in vita aveva subito violenze; e che molto spesso le violenze descritte sono la riproposizione delle torture operate dai nazifascisti nei confronti dei loro prigionieri.
Emblematica a questo proposito la questione dei due sedicenti “sopravvissuti all’infoibamento”, Graziano Udovisi e Giovanni Radeticchio. Negli anni ’90 Udovisi (che era stato comandante della Milizia nazifascista di Portole <21 e che nel dopoguerra fu processato e condannato come responsabile degli arresti di partigiani che erano stati “legati con il filo di ferro” <22) iniziò a raccontare di essere stato catturato dai partigiani ai primi di maggio ’45, torturato e poi portato ad una foiba legato con filo di ferro assieme ad altri cinque commilitoni; che la raffica di mitra cui erano stati fatti oggetto non lo aveva colpito ma aveva spezzato la catena alla quale era legata la grossa pietra che avrebbe dovuto farlo affondare nella foiba, piena d’acqua, quindi vi si sarebbe gettato dentro e ne sarebbe risalito portando con sé uno dei prigionieri. Ma esiste un documento del 1945 nel quale è riportata una testimonianza attribuita ad un altro milite dell’MDT di Portole, Giovanni Radeticchio, che racconta la stessa vicenda, con gli stessi particolari e le stesse parole, con la sola differenza che Radeticchio dichiara di essere il solo ad essersi salvato e che Graziano Udovisi era morto nella foiba. Nonostante Radeticchio abbia asserito che Udovisi era morto nella foiba, ed Udovisi abbia dichiarato di avere salvato Radeticchio, a tutt’oggi queste testimonianze continuano a venire ambedue citate acriticamente da divulgatori ed anche da storici accademici.
[…] Le nostre ricerche (basate sugli elenchi pubblicati in un libro edito dall’Istituto Friulano di Storia del Movimento di Liberazione nel 1986 e da controlli incrociati con documenti raccolti in diversi archivi italiani e sloveni) ci danno come “scomparse” dalla provincia di Trieste nel periodo dei “40 giorni” circa 500 persone. Questa cifra non si discosta molto da quelle riportate sia dall’IFSML (601 tra morti e dispersi <23), sia da alcuni appunti conservati nell’archivio dell’IRSML di Trieste (550) sia da Ennio Maserati nel suo “L’occupazione jugoslava di Trieste” (600). Abbiamo applicato lo stesso criterio per gli scomparsi da Gorizia, ed abbiamo raggiunto la cifra di circa 550 arrestati non rientrati. Per Fiume, invece, l’Istituto di Studi Fiumani (gestito da esponenti dell’esodo giuliano-dalmata) ha segnalato circa 400 scomparsi.
Per comprendere il comportamento degli Jugoslavi a Trieste leggiamo la testimonianza dello storico Mario Pacor, che così descrisse il “malcontento operaio” nel maggio del ‘45: «Fu così che agli operai insorti non fu permesso di procedere a quelle liquidazioni di fascisti responsabili di persecuzioni e violenze, a quegli atti di “giustizia sommaria” che invece si ebbero a migliaia a Milano, Torino, in Emilia e in tutta l’Alta Italia nelle giornate della liberazione e poi ancora per più giorni. “Non ce lo permettono” mi dissero ancora alcuni operai “pretendono che arrestiamo e denunciamo regolarmente codesti fascisti, ma spesso, dopo che li abbiamo arrestati e denunciati, essi li liberano, non procedono. E allora?” ne erano indignati…».
Ed in un articolo di Trieste Sera del 4/2/48, si legge che «a Trieste non avvenne come nell’Italia settentrionale. Niente morti ai margini delle strade, niente uccisioni sulla soglia di casa. Gli arresti o “prelevamenti” avvenivano sulla base di precedenti segnalazioni. La maggior parte degli arrestati ritornavano a casa dopo alcuni giorni di indagini e molti subito. Sarebbe interessante invitare tutti gli arrestati durante i primi giorni di occupazione della città che hanno ripreso immediatamente la loro vita civile e sarebbe interessante vedere quanti di essi erano compromessi col fascismo e col nazismo per giudicare le autorità popolari d’allora. Circa 2.500 persone vennero arrestate e trattenute, 2.500 su 250.000, dunque l’uno per cento. Molte di queste ritornarono durante questi due anni e mezzo, ma del loro numero nessuno si occupò di tener conto. Oggi tutti, anche i ritornati, vengono sempre fatti figurare come scomparsi».
In effetti, ancora oggi si parla di arrestati e poi rilasciati che “vengono fatti figurare come scomparsi”: anche storici accademici citano i 7.000 arrestati dagli Jugoslavi a Trieste nei primi giorni di maggio 1945, omettendo però di specificare che dopo sei mesi ne erano stati rilasciati più di 6.000; e va aggiunto che in molti elenchi che fanno lievitare le cifre degli “infoibati” compaiono anche partigiani uccisi dai nazifascisti <24.
In data 17/12/45 fu inviato al Pubblico Accusatore di Trieste un elenco di 939 nomi di “internati civili in Jugoslavia” per i quali si chiedevano informazioni. Nell’Archivio di Lubiana sono conservate alcune relazioni (che purtroppo non sono datate e quindi non ci permettono di ricostruire esattamente i fatti) redatte dall’ufficio del Pubblico Accusatore in merito alla sorte di queste persone, dove il relatore scrive che i 939 nomi sono «molti di meno quindi di quanti parla la propaganda avversaria» <25.
Inoltre va qui citato quanto il professor Diego De Henriquez ha annotato in uno dei suoi “diari”: «Il capitano Miani ritiene che le persone scomparse durante l’occupazione di 40 giorni jugoslavi erano circa cinquecento e non migliaia come egli usa dire nelle sue azioni di propaganda contro gli slavo-comunisti».
È quindi incomprensibile che, se queste sono le risultanze documentali, non solo divulgatori che si esprimono per fini politici ma anche diversi storici considerati politicamente corretti, continuino a parlare di “migliaia di infoibati” (sia pure nel senso “non letterale”, per citare Pupo e Spazzali) nelle zone di Trieste e Gorizia e addirittura “migliaia” nella sola “foiba” di Basovizza.
Parliamo ora della cosiddetta “foiba” di Basovizza (che è in realtà un pozzo di miniera), monumento nazionale: ancora oggi sentiamo parlare di centinaia od anche di migliaia di infoibati, che sarebbero stati legati uno ad uno col filo di ferro e poi, sparando al primo della fila, essi sarebbero precipitati a decine nel pozzo. Anticipiamo subito che questa è una cosa fisicamente impossibile considerando le dimensioni dell’apertura del pozzo. Dal pozzo di Basovizza furono estratte, tra settembre ed ottobre 1945, una quindicina di salme (tra cui una donna ed alcuni militari tedeschi). Le autorità militari alleate sospesero poi le ricerche perché si era appurato che non vi era più nulla da recuperare; nel 1954 una ditta svuotò il pozzo per recuperare il materiale bellico che vi era stato gettato, ma non trovò alcun resto umano, e per anni, quando il Comune era guidato dal sindaco Gianni Bartoli, autore del primo elenco di “infoibati”, fu usato come discarica. Nel 1959 fu coperto da una lastra di pietra, senza che si fosse proceduto ad altri recuperi. Nel 2005, in occasione del progetto di “riqualificazione” del monumento nazionale, fu presentato un esposto alla Procura della Repubblica per chiedere la sospensione dei lavori e di procedere ad una esplorazione per verificare la presenza, segnalata da più parti (dichiarazioni di politici e di pubblicistica) di ulteriori salme, che avrebbero dovuto essere inumate in luoghi adibiti a sepoltura. Il Procuratore Capo di Trieste archiviò in un paio di giorni la denuncia con la formula “non esiste notizia di reato”: il che significa che nessuna salma è ancora presente nel pozzo di Basovizza e pertanto le uniche persone gettate lì dentro sono la «decina di corpi smembrati ed irriconoscibili», come scrisse un articolo del Piccolo del 1995. Nel 1949 fu celebrato un processo contro alcuni partigiani che confessarono di avere ucciso ed “infoibato” a Basovizza l’ausiliario dell’Ispettorato Speciale Mario Fabian (condannato a morte ancora nel corso del conflitto da un Tribunale militare jugoslavo, in quanto si era reso responsabile di torture efferate nei
confronti degli arrestati). Vanno però considerate due testimonianze che parlano dell’uso delle “foibe” (in particolare del pozzo di Basovizza) fatto da parte dell’Ispettorato Speciale: l’ispettore Umberto De Giorgi (che nel dopoguerra operò i recuperi dalle foibe triestine) dichiarò che nel corso della guerra aveva rinvenuto cadaveri che «la banda Collotti buttava in cespugli e anfratti dopo le torture, girando la notte con un furgoncino che aveva sequestrato alla ditta Zimolo» <26; e Jordan Zahar, che da ragazzo pascolava il bestiame nella zona, testimoniò di avere visto nell’estate del 1944 agenti in divisa che arrivavano con un furgone mortuario portando con sé dei civili (anche donne) che «uno alla volta, gettavano dentro il pozzo» <27.
Un discorso a parte sugli esponenti del CLN giuliano che sarebbero rimasti vittime della repressione jugoslava, fatto che viene citato per dimostrare che l’intenzione di Tito era di eliminare tutti coloro che si opponevano all’annessione di Trieste alla Jugoslavia. In realtà le cose andarono diversamente, e qui va stigmatizzato il fatto che spesso, anche ad alti livelli culturali e politici, non si vuole riconoscere alla Jugoslavia il ruolo di alleata nella compagine antifascista (ricordiamo che il Regno del Sud era solo “cobelligerante”). Secondo gli accordi intercorsi tra CLNAI ed Alleati, i combattenti della libertà erano tenuti a consegnare le armi agli eserciti alleati man mano che arrivavano.
Ciò valeva anche per il CLN di Trieste (che pure era rimasto al di fuori dal CLNAI, non avendo voluto obbedire alle direttive di esso di collaborare con la Resistenza jugoslava), i cui militanti però rifiutarono in alcuni casi di consegnare le armi agli jugoslavi.
Un caso a parte riguarda invece la settantina di finanzieri arrestati ed internati (non “infoibati” a Basovizza, come appare su una lapide all’interno del monumento nazionale) nei primi giorni di maggio, in quanto, nonostante la GdF fosse stata inquadrata neI CVL, due suoi reparti aprirono il fuoco a fianco dei nazisti contro l’esercito jugoslavo che stava entrando in città.
Infine, nel periodo di amministrazione jugoslava il CLN si organizzò clandestinamente in armi contro il CEAIS (il governo civile istituito in città). Fu questo il motivo per cui una ventina di militanti del CVL triestino (alcuni dei quali avevano precedentemente militato in formazioni collaborazioniste come la Guardia civica o la Decima mas) furono arrestati e portati in Jugoslavia, ed alcuni di essi non fecero ritorno (alcuni morirono di malattia, per gli altri si presume siano stati condannati a morte dopo processo).
Tra il 1945 ed il 1947 fu attiva una “Squadra esplorazioni foibe” (SEF), composta da agenti della Polizia civile del GMA e da speleologi: essa effettuò 71 ricognizioni ed operò il recupero di 464 salme da cavità delle zone di Trieste e di Gorizia, ma anche nella bassa Friulana e nell’attuale provincia di Pordenone. La maggior parte dei morti estratti erano militari uccisi durante il conflitto; poi alcuni civili che, sempre durante il conflitto, erano stati vittime di criminali comuni; mentre per quanto riguarda le esecuzioni sommarie avvenute dopo la fine della guerra nella provincia di Trieste le vittime identificate sono una quarantina, delle quali 18 (gettate nell’abisso Plutone) furono vittime di infiltrati nella Guardia del Popolo.
La maggior parte degli “scomparsi” da Trieste e Gorizia non furono quindi “infoibati” in senso letterale: per metà circa si tratta di militari deceduti nei campi di prigionia, circa 150 invece gli arrestati accusati di crimini di guerra e processati dai tribunali militari jugoslavi (presumibilmente condannati a morte o deceduti in prigionia). Quindi, una volta fatta quella che viene definita (spesso con tono di condanna, quasi fosse un’offesa nei confronti dei morti e non un’azione necessaria per la ricostruzione storica) la “contabilità dei morti”, si comprende come non possono essere sbrigativamente accomunate nel termine “violenze di massa” le “migliaia di vittime” cui fanno riferimento Pupo e Spazzali. Non si possono accomunare tra loro le vittime della rivolta del settembre 1943 in Istria, i militari (o i civili collaborazionisti) uccisi dai partigiani o dall’Esercito jugoslavo nel corso del conflitto, i militari internati nei campi e morti di tifo (va aggiunto che militari italiani furono internati anche dagli angloamericani, ed anche in questi campi molti prigionieri persero la vita, però non si parla di “violenze di massa” operate dagli angloamericani nei confronti degli italiani), gli arrestati per crimini di guerra e condannati a morte dai tribunali jugoslavi, le vittime di vendette personali del dopoguerra. Vendette personali che peraltro nelle zone controllate dagli Jugoslavi rappresentarono un fenomeno minore che non nelle altre zone del Nord Italia controllate dagli angloamericani.
Parlare quindi di “violenze di massa” in riferimento a tutto questo è quantomeno inappropriato: in fin dei conti stiamo parlando di un periodo di guerra, dove la violenza, di massa o no, rappresentava la regola e non l’eccezione. Riteniamo quindi il criterio unificante esposto da Pupo e Spazzali non solo privo di valore scientifico, ma fuorviante poiché consente anche a chi non ha intenzione di determinare quanto realmente accaduto ma ha come scopo la mera continuazione della montatura creata da decenni di propaganda nazionalista, irredentista e post-fascista, di procedere in questo suo fine di deformazione della realtà.
Sarebbe invece il caso di chiarire una volta per tutte che non ha senso parlare di un “fenomeno delle foibe” quando in realtà si tratta di una serie di fenomeni del tutto distinti tra loro e che hanno come unico elemento accomunante il fatto che si sono svolti nel corso o in conseguenza della Seconda guerra mondiale.
Come già accennato, infine, parlando di “titini” o di “slavi” invece che di Esercito popolare di liberazione jugoslavo, si fa in modo di sminuire il ruolo della Jugoslavia nella guerra, non riconoscere che è stata uno dei Paesi alleati nella lotta contro il nazifascismo. Se le si riconoscesse questo ruolo si dovrebbe di conseguenza riconoscere anche che l’Esercito jugoslavo aveva il diritto e l’autorità di fare prigionieri i militari nemici e di arrestare i presunti criminali di guerra per sottoporli a processo, così come fecero gli eserciti delle altre nazioni alleate. E quindi crollerebbe anche tutta la costruzione dei crimini jugoslavi rivolti contro gli innocenti italiani.
Basilare per la creazione della criminalizzazione della Resistenza jugoslava fu un documento prodotto a cura del Ministero per gli Affari Esteri nel 1947, da presentare alla conferenza di Parigi per la definizione del trattato di pace, nel quale vengono presentate presunte prove su massacri ed atti di violenza commessi ai danni degli italiani <28, molte delle quali completamente false, come il richiamo ad una “relazione” redatta dal tenente di vascello Carlo Chelleri (nel quale si descrivevano tra gli altri gli infoibamenti di Basovizza e la vicenda del “sopravvissuto” all’infoibamento di cui abbiamo parlato in precedenza), apocrifa in quanto lo stesso Chelleri smentì di averla scritta <29. Parimenti falso è il richiamo ad una testimonianza attribuita al partigiano garibaldino friulano Federico Vincenti relativa a violenze commesse dagli Jugoslavi su prigionieri italiani in un campo: Vincenti non solo negò di avere rilasciato quella testimonianza, ma aggiunse che non era mai stato detenuto nel campo indicato.
Ingigantire la portata del cosiddetto “fenomeno” delle foibe serve inoltre alla seconda parte della mistificazione cui assistiamo: dimostrare che, terrorizzati dalle foibe, gli italiani dell’Istria se ne andarono in massa dalle loro case per non restare sotto la Jugoslavia (si parla di 350.000 esuli, ma va detto che nel 1958 l’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati pubblicò una sorta di censimento dal quale appare che i “profughi legalmente riconosciuti” erano 190.905), e tutto ciò viene troppo spesso (l’ha fatto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella) definito come “genocidio” degli italiani d’Istria.
A parte che il termine “genocidio” non è parola da usare con leggerezza ed al solo scopo di colpire l’immaginario pubblico, chiunque conosca anche solo poco la storia degli italiani rimasti in Jugoslavia (in Slovenia e Croazia dopo il 1992) sa bene che questa comunità si è sviluppata negli anni producendo cultura in tutti i campi: e sono le stesse comunità istriane a vantarsi di questo fatto. Tutto ciò sicuramente non solo non può essere considerato “genocidio”, ma neppure “pulizia etnica”, visto che alla comunità italiana furono da subito riconosciuti il diritto al bilinguismo in Istria, scuole con lingua d’insegnamento italiana, organi di stampa, una radio ed una televisione (Radio e TV Capodistria) e persino seggi garantiti nei parlamenti locali.
[…] Il caso però più eclatante è quello dell’ultimo prefetto di Zara italiana, Vincenzo Serrentino (fondatore del Fascio in Dalmazia, squadrista, ufficiale della Milizia e nel Direttorio del PFR) che aveva anche svolto il ruolo di giudice a latere (assieme a Pietro Caruso, che fu poi fucilato a Roma alla fine della guerra) del Tribunale Straordinario per la Dalmazia (presieduto dal generale Gherardo Magaldi), che si spostava in volo da Roma per emanare condanne a morte ad antifascisti. Denunciato come criminale di guerra alle Nazioni unite, si era rifugiato a Trieste, dove fu arrestato l’8/5/45, sottoposto a processo e fucilato a Sebenico un paio di anni dopo. I familiari di Serrentino hanno anche ricevuto l’onorificenza prevista dalla legge sul Giorno del ricordo. Come sarebbe considerata un’eventuale onorificenza attribuita oggi ai familiari di Pietro Caruso, che con le stesse accuse fu fucilato dalle autorità italiane?
La storia è unica, si diceva, ma la memoria è diversa.
[NOTE]
14 M. Pacor, “Confine orientale”, Feltrinelli 1964, pag. 195-199.
15 G. Fogar, “Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali”, Del Bianco 1968, p. 65.
16 Il documento si trova in archivio IRSMLT n. 346.
17 In Luigi Papo. “L’Istria e le sue foibe”, Settimo Sigillo 2000.
18 Il podestà (che era anche preside del locale ginnasio) si chiamava Vitale Berardinelli.
19 G. Fogar, op. cit., che cita articoli del Piccolo del 4, 6 e 8/10/43 e la “relazione inedita” del dottor Marcello Cordovado, “La dura sorte di Pisino” (Archivio IRSMLT VIII/366).
20 Frediano Sessi, “Foibe rosse”, Marsilio 2007.
21 La Milizia Difesa Territoriale, ne parleremo in seguito.
22 Cfr. Sentenza n. 165/46 della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste.
23 Abbiamo trovato tra questi nomi alcune duplicazioni ed alcuni errori, inoltre circa una trentina di persone che risultano “scomparse” sono in realtà rientrate dalla prigionia (in diversi casi i prigionieri rilasciati dai campi jugoslavi venivano inviati in Italia senza passare da Trieste (che all’epoca non faceva parte del territorio italiano, ma era sotto amministrazione militare alleato), ma direttamente ad Ancona o a Bari, quindi il loro rientro nelle località di origine (se non tornavano a Trieste) non veniva registrato dall’anagrafe locale.
24 Ad esempio Gaetano La Perna ha indicato come “ucciso dagli Jugoslavi” il questore di Fiume Giovanni Palatucci, morto in un lager nazista.
25 Lettera dell’Associazione Congiunti Deportati in Jugoslavia, in Arhiv Slovenjie AS 1584 zks ae 459.
26 Il Meridiano di Trieste, 26/2/76. La ditta Zimolo era l’impresa di pompe funebri.
27 Lettera pubblicata sul Piccolo del 3/11/99.
28 “Trattamento degli italiani da parte jugoslava 1943-1947”, ristampato nel 2011 a cura dell’Istituto fiumano di cultura e con i finanziamenti della Regione Lazio.
29 In R. Spazzali, “Foibe, un dibattito ancora aperto”, Lega nazionale 1990, p. 88.
(a cura di) Claudia Cernigoi, Storia e memoria al confine orientale, Supplemento al n. 383 – 1/4/19 de “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”