
Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, i partiti antifascisti non dispongono di un’organizzazione ben definita e un fronte unitario è ancora da consolidare.
L’attività politica e i contatti con la realtà italiana riprendono dopo la crisi del regime fascista. Dunque, il movimento inizialmente è composto dai militanti antifascisti del ventennio e dai “giovani” inquadrati nei Gruppi universitari fascisti sotto il regime, i quali si allontanano dal fascismo «di fronte all’esaurirsi dell’ideologia corporativistica, all’intervento nella guerra di Spagna, al razzismo e alla persecuzione antiebraica, all’alleanza con il nazismo» <1139. In questo periodo, i vari rappresentanti dei partiti si incontrano sempre più spesso fino a costituire a Roma un comitato delle opposizioni tra il 27-28 luglio 1943. Tuttavia, l’intesa non è scontata e da subito sorgono divergenze. I partiti di sinistra (Pci, Psiup, Pd’A) sono inclini a valutare l’iniziativa politica dal basso, mentre gli altri (Pl, Dc, Dl) preferiscono “attendere” lo sviluppo degli avvenimenti e consigliano di attenersi ad una posizione moderata <1140. Questo linea politica scaturisce dallo stato di incertezza e che caratterizza il quadro politico italiano. Sebbene il problema dell’abbattimento del fascismo si risolva con la destituzione di Mussolini e con lo smantellamento del regime, i partiti antifascisti si trovano comunque ad agire in una condizione di semiclandestinità e devono far fronte agli «ostacoli frapposti dalla frammentarietà dei contatti, dal relativo isolamento delle singole realtà regionali, dal ritardo con cui i detenuti politici vengono liberati, dalle resistenze degli apparati di polizia» <1141.
Oltretutto, il governo Badoglio vieta ogni forma di associazione, quindi «non possono né organizzare pubbliche manifestazioni, né aprire proprie sedi, né stampare o diffondere materiale di propaganda» <1142. Perciò, nei primi quarantacinque giorni del governo Badoglio, i neocostituiti partiti italiani «mantengono una posizione di benevola attesa nei confronti del governo Badoglio» <1143. Nel contenuto dei manifesti diffusi in diverse città d’Italia – che sono impostati in modo tale da non generare disordine – è facile scorgere siffatto attendismo. Infatti, gli accenni su possibili scenari futuri scompaiono e si riserva spazio soprattutto alle colpe del fascismo <1144. Anche nelle pagine de «l’Unità», pubblicate il 27 luglio 1943 e durante il mese di agosto, si riflette la linea “attendista” <1145. I socialisti in questo periodo sono ancora in fase di edificazione del PSIUP e alle prese con le diatribe interne, per cui si trovano alla ricerca di una “precisa fisionomia” <1146. Mentre l’organo della Democrazia cristiana, «Il Popolo», esce soltanto a partire da ottobre 1943 <1147. Del resto, la posizione moderata di De Gasperi e di Bonomi è confacente alle condizioni reali in cui si trovano i partiti, privi di «deleghe precise (…) [e con il compito] di radicarsi e legittimarsi come rappresentanti dell’opinione pubblica» <1148.
Nondimeno, benché la linea moderata sia predominante, non mancano le critiche al governo, soprattutto in alcune città, come Milano e Torino, ove l’attività dei partiti di sinistra e l’agitazione sociale sono più intense <1149. Infatti, nella pubblicistica di «Italia Libera» è palese il senso critico nei confronti del governo Badoglio e della monarchia e la sollecitazione sull’ineluttabilità dell’opposizione antifascista. Già dal numero di luglio 1943, nel giornale azionista si evidenzia che le classi dirigenti non sono interessate ad una svolta politica e sociale che rompa con il passato, ma si rendono autrici della perpetuazione del fascismo <1150. E questo perché nei mutamenti sul piano istituzionale non si scorge la volontà di avversare e contenere i retaggi del fascismo. Invero, la liquidazione di Mussolini e la continuazione della guerra, nella pubblicistica di «Italia Libera», sono le due decisioni basilari che portano avanti i “lineamenti politici più propriamente fascisti” <1151. Mentre la crisi politica dell’Italia è conseguenza «di un regime infame e di uomini corrotti» – commenta il giornale -, l’establishment (Gran Consiglio, Monarchia e alcuni capi militari) propende per la «rivoluzione di palazzo» allo scopo di «mantenere ancora virtualmente in piedi le forze della reazione» e smarcarsi dalle responsabilità politiche <1152. Gli italiani vengono informati, inoltre,
che sul piano bellico non vengono adottati provvedimenti per salvaguardare “la Patria” dagli effetti devastanti della guerra promossa dal fascismo – l’impresa rivelatosi un «crimine consumato contro l’Italia» ad opera della monarchia e di Mussolini. Pertanto, sui destini della nazione incombe l’imminente occupazione del territorio dall’esercito nazista e il suo disegno di «sostenere il regime fascista contro il popolo» <1153. In questo modo, il futuro del paese è ancora condizionato dal carattere ideologico antiliberale ed antidemocratico della guerra fascista e dall’imperialismo fallimentare del regime, che si rinnovano attraverso il progetto dei fascisti di continuare una guerra “suicida” al fianco dei nazisti, permettendo l’occupazione del territorio dallo straniero e contrapponendosi a «tutti i valori morali dell’italianità, tutta la fede del Risorgimento» <1154. Insomma, il pericolo fascista, che minaccia l’affermarsi della democrazia <1155, è in agguato a causa delle complicità della monarchia con il regime e della difesa degli «interessi particolaristici di classe e di casta», che mettono in subordine gli interessi nazionali.
Tutto ciò, in base alla comunicazione di «Italia Libera», mina la credibilità e la legittimità governativa dell’istituto monarchico, alla luce del fatto che «non ha saputo né rispettare né difendere i diritti dei cittadini, che ha portato il fascismo al potere, che lo ha appoggiato in tutti i suoi eccessi e le sue follie [e] ha pienamente fallito alla sua funzione» <1156. Appunto per questo, «l’eliminazione radicale degli istituti fascisti e monarchici» risulta la premessa per arrivare alla soluzione dei “problemi nazionali” legati all’andamento del conflitto <1157. Al popolo italiano, si legge nel giornale, «il rispetto e la difesa senza debolezze [della sua] libertà, e insieme la tutela e lo sviluppo del benessere materiale e morale della Nazione» possono essere garantiti «soltanto da un regime di vera, non apparente democrazia, nella sua naturale e necessaria forma repubblicana, operante senza oppressioni centralistiche, attraverso la snodatura delle autarchie comunali e regionali» <1158.
Dunque, il Partito d’Azione si propone «come partito direttivo dell’Italia libera»; chiede il contributo di tutto il popolo alla «liberazione del Paese dalla servitù fascista e dal regime del feudalismo corporativo»; promuove la giustizia sociale; sollecita l’intensificazione dell’opposizione delle «forze antifasciste italiane (…) contro lo schiavismo fascista» <1159.
Dall’analisi del giornale emerge che, pure nella fase in cui i partiti antifascisti incidono meno nella politica italiana e decidono di attendere lo sviluppo degli eventi, il Pd’A rimarca uno dei suoi tratti identitari principali: la pregiudiziale antimonarchica e la lontananza dall’idea di collaborare con la classe dirigente. «Ad accumunare gli azionisti è la convinzione che una democrazia compiuta, una “democrazia dei cittadini”, ha bisogno di un maturo e diffuso senso civico, di un popolo cosciente della sua storia e della sua identità, di istituzioni capaci di far crescere partecipazione e responsabilità; di una politica aperta alla società, animata da una forte tensione etica e da un limpido conflitto tra idee e posizioni distinte» <1160.
Indubbiamente, la trattazione della pregiudiziale antimonarchica mira a sviluppare i punti del programma del partito (resi noti nel primo numero di «Italia Libera» a gennaio 1943) per affermare l’ideale democratico. Il Pd’A – attingendo dall’eredità del movimento Giustizia e Libertà e dalla tradizione democratica, repubblicana e liberale e ispirandosi alle idee di Mazzini e di Gobetti – sostiene la necessità di realizzare una “rivoluzione morale” del popolo italiano con l’istituzione di «una nuova democrazia basata su ampie autonomie locali» <1161. Un’altra priorità del Partito d’Azione è quella di «correggere gli squilibri e le ingiustizie» del sistema capitalistico <1162. Dunque, si propone di intervenire, oltre al piano politico, «in quello economico, [con] la nazionalizzazione dei monopoli e dei grandi complessi industriali e finanziari e la libertà per le piccole imprese, [e] in quello internazionale, [con] la promozione di una coscienza unitaria europea grazia alla quale riorganizzare il continente dopo la fine della guerra in una grande federazione» <1163. In merito all’attuazione del programma, gli azionisti si dichiarano irremovibili e sono contrari ai compromessi, situandosi in una posizione di “rigida intransigenza” <1164. Ma, tanto l’atteggiamento intransigente (ereditato dal movimento di GL e dalla vocazione intellettuale dei fondatori), quanto lo scarso radicamento nelle masse lavoratrici, ne compromettono l’azione politica del partito e lo espongono a numerose critiche <1165.
[NOTE]
1139 G. Oliva, La grande storia della Resistenza (1943-1948), Milano, DeA Planeta Libri, 2018, Il governo dei quarantacinque giorni, p. 6. (Il libro è consultato in formato file Kindle).
1140 Ibidem.
1141 Ivi, p. 7.
1142 Ibidem.
1143 Ivi, p. 14.
1144 Ibidem.
1145 Cfr. V. Castronovo, N. Tranfaglia (a cura di), La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, cit., p. 114; AA.VV, I colori della Resistenza. Fatti e ideologie nell’Italia del 1943-45, cit., p. 113.
1146 V. Castronovo, N. Tranfaglia (a cura di), op. cit., p. 126; M. Ragionieri, 25 luglio 1943. Il suicidio inconsapevole di un regime, cit., p. 91.
1147 «I partiti, numericamente assai deboli al momento della caduta di Mussolini, furono del tutto presi in contropiede dall’azione di Badoglio e del re il 25 luglio. Durante i “quarantacinque giorni” essi furono costretti a svolgere un ruolo subordinato e solo dopo la fuga del re ritornarono alla ribalta. (…). Il Pli e la Democrazia cristiana, dettero un contributo quasi irrilevante durante i primi mesi della Resistenza, ma furono presenti nei numerosi comitati antifascisti creati dopo il 25 luglio. I liberali, partito tradizionale della borghesia italiana, volevano un ritorno allo Stato prefascista. La Democrazia cristiana(….) era ancora un partito in formazione» (Cfr. P. Ginzburg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, Einaudi, (I ed. 1989), 2014, pp. 17-18).
1148 G. Oliva, La grande storia della Resistenza (1943-1948), cit., I comitati unitari, p. 15.
1149 Ivi, p. 16.
150 Al popolo italiano, in «Italia Libera», n. 3, luglio 1943, p. 1.
1151 Cfr. M. Palla, Mussolini e il fascismo, Firenze, Giunti, 1993, p. 57.
1152 Al popolo italiano, in «Italia Libera», cit.
1153 Ibidem.
1154 Salvare l’Italia, in «Italia Libera», luglio 1943, pp. 1-2
1155 Relativamente al modo in cui il concetto del pericolo fascista influenza la tenuta della democrazia nel dopoguerra cfr. E. Gentile, Chi è Fascista, Roma-Bari, Laterza, 2009.
1156 Che cosa è il Partito d’Azione, in «Italia Libera», n. 3, luglio 1943, p. 3.
1157 Al popolo italiano, in «Italia Libera», cit.
1158 Che cosa è il Partito d’Azione, cit.
1159 Ibidem.
1160 Cfr. C. Novelli, Il Partito d’Azione e gli italiani. Moralità, politica e cittadinanza nella storia repubblicana, Firenze, La Nuova Italia, 2006, https://books.google.it 03.04.2019. L’atteggiamento critico sul piano storico e politico degli esponenti del Pd’A, anche dopo la dissoluzione del partito, continua ad essere oggetto di dibattito tra gli studiosi. Alla fine della guerra, «la sconfitta del Partito d’azione, cioè la mancata trasformazione della Resistenza in rivoluzione democratica e la stabilizzazione della moderata della Repubblica, [viene interpretata], come un’ulteriore dimostrazione dei difetti di fondo dell’esperienza storica nazionale, quasi una conferma – drammatica ma perfettamente realistica – del fatto che l’Italia restava una democrazia incompiuta». Tale asserzione degli intellettuali ispirati alla tradizione azionista viene giudicata inadeguata a coltivare un pensiero liberaldemocratico genuino nell’Italia repubblicana. L’accento sui «limiti degli sbocchi politici e istituzionali della Resistenza e sull’incompiutezza dei processi di modernizzazione del paese» viene ricondotto al giudizio di «un’élite tanto brillante quanto minoritaria e sterile, incline alla deprecazione tout court del passato, rancorosa verso i “vincitori” e quasi compiaciuta del ruolo di “vinti”». Marco Scavino, ritiene che la valutazione del contributo degli intellettuali di matrice azionista nell’Italia repubblicana rispecchi una visione limitata del loro ruolo e non sia molto fedele ai fatti storici. Se è impossibile stabilire la loro «capacità di orientare gli studi storici», non vuol dire che non abbiano fornito «un contributo importante alla costruzione della memoria collettiva del paese, introducendovi – per più aspetti – una prospettiva critica che [tenta] richiamarsi a una visione della storia d’Italia di segno antimoderno, in cui la Resistenza si [collega] idealmente a tendenze, aneliti e spinte del passato che [vengono] lette come tracce della democrazia in cammino» (M. Scavino, Gli azionisti e l’Italia liberale, in AA.VV, Storia e politica, Annali della Fondazione Ugo La Malfa, XXVI, Roma, Gangemi, 2011, pp. 99-100).
1161 P. Ginzburg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 17-18.
1162 Ibidem.
1163 G. Oliva, La grande storia della Resistenza (1943-1948), cit., pp. 10-11. Sulla pregiudiziale repubblicana si veda G. De Luna, Storia del Partito d’Azione. La rivoluzione democratica (1942/1947), Milano, Feltrinelli, 1982, p. 42 sgg.
1164 Il politologo Maurizio Viroli spiega che l’intransigenza, nel pensiero filosofico politico, non è un atteggiamento che rientra «fra le classiche virtù politiche» e nemmeno fra le “virtù deboli”. Secondo Cicerone sono virtù politiche «la giustizia, la prudenza, la fortezza, la temperanza»; secondo Seneca la massima virtù è la prudenza; secondo Machiavelli «la pietà, la fedeltà, l’umanità, l’integrità»; Secondo Erasmo da Rotterdam «la clemenza, la gentilezza, l’equità, la civiltà, la benignità, la prudenza, l’integrità, la sobrietà, la temperanza, la vigilanza, la beneficienza, l’onestà». Quando il vocabolo entra a far parte del patrimonio linguistico nel XIX secolo ricalca «l’atteggiamento “intollerante” dei repubblicani federalisti spagnoli nei confronti della repubblica unitaria del 1873-74». Perciò, la parola ‘intransigenza’ è legata ad un vizio piuttosto che ad una virtù ed è slittata nel linguaggio politico italiano con lo stesso significato. Infatti, l’intransigenza del Pd’A, per i suoi critici, rappresenta «la più grave colpa e la ragione principale per cui quella formazione non si [trasforma] in un grande partito democratico». Al contrario, per i militanti azionisti la loro intransigenza viene intesa come sinonimo di difesa dei valori etici (onesta, coerenza) e di grande dedizione alle cause politiche. Ma, «“l’inclinazione all’astrattezza, la vena pedagogica e moralista”, e l’idea che la politica per avere un senso e valore “[deve] implicare una rigenerazione degli italiani, secondo il sogno irrealizzato di Mazzini”», valgono al Pd’A la qualifica di “partito dell’intransigenza”. Piero Gobetti, una delle figure di riferimento degli azionisti, viene letto quale personaggio ponte per il trasferimento «dell’atteggiamento elitistico-valoriale, idealistico, antiliberale» di una parte degli intellettuali dell’epoca liberale agli antifascisti militanti durante la seconda guerra mondiale. Da ciò deriva la constatazione che «l’antifascismo non può che essere intransigente ed etico, cioè moralista, proprio perché nasce ideologicamente come prodotto di una sconfitta» e nella democrazia «non è una virtù politica» (M. Viroli, L’intransigente, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 3 sgg.)
1165 G. Oliva, La grande storia della Resistenza (1943-1948), I comitati unitari, cit., p. 11.
Violeta Carkaj, Il nemico della democrazia. Il fascismo raccontato dalla stampa antifascista (1922-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2019