Dichiarazione
Dopo il combattimento del 4 ottobre 1943 il Ten. Alfieri ordinò che ci ritirassimo sulle pendici della Maiella. A sera, riuniti tutti i superstiti, disse che i viveri che avevamo portati con noi erano scarsi ed insufficienti, perciò chi non credeva di continuare la lotta sulla montagna poteva ritirarsi.
Così con il Ten. Alfieri rimanemmo in sei: Cavorso Nicola, Rutolo Renato, Melideo Giovanni, Siciliano Camillo e Mariano.
Il 13 ottobre dovemmo allontanarci dalle posizioni per una nuova incursione fatta dai tedeschi, questa volta con carri armati e autoblindi. Circondarono il nostro vecchio accampamento, incendiarono i casolari e catturarono Natali Filippo e Giangiulio Casimiro e altri, questi ultimi furono fucilati a S. Pietro Avellana.
Data l’ostilità della popolazione e l’assoluta mancanza dei viveri dovemmo allontanarci definitivamente dalla montagna di Palombaro.
Chieti, 22 novembre 1946
F/ti Camillo Siciliano
Rutolo Renato
Melideo Giovanni
Mariano Siciliano
Dichiarazione di Amalia D’Aloisio
Io sottoscritta Amalia D’Aloisio ved. Cavorso, espongo alla S. V. quanto segue:
Verso i primi del mese di gennaio 1944 vennero nella mia abitazione sita in Largo Teatro Vecchio certi Cruciani e Di Natale, chiedendo di mio figlio Nicola Cavorso. Una delle mie sorelle, che era in casa, fece loro presente che il nipote (Nicola Cavorso) trovavasi in campagna ed essi, non rivolgendo ulteriori domande, andarono via.
Il giorno 21 dello stesso mese, alle ore 10:30 circa, il Sig. Colalè Michele, chiedendo del Sig. Teramo, si presentò a casa e fu allora che si incontrò con mio figlio, col quale non scambiò parola alcuna. La visita del Colalè mi risultò del tutto insolita ed inaspettata, tanto che esclamai: “Non è ora questa di trovare il Sig. Teramo in casa”.
Il giorno seguente la visita si ripetè e nuovamente il Colalè e mio figlio, che era in cucina per la colazione, si incontrarono e nemmeno questa volta si dissero una parola.
La sera del venerdì si cominciò a vedere un signore passeggiare continuamente dal Largo Teatro Vecchio all’albergo Scocco sito in Vico dei Veneziani, di fronte al portone della mia abitazione. Questo fatto si ripetè per tre giorni di seguito, tanto che chi l’osservava si poneva la domanda: “Che fa questo signore qui?”. E soltanto il 24 gennaio, giorno dell’arresto di mio figlio, si poté intuire che quel signore era un agente di questura e precisamente l’agente di P.S. Acciarita (testimoni dell’accaduto sono i Sigg. Carmine Mincone e D’Arezzo Vincenzo, sfollati il primo da Torrevecchia e il secondo da Crecchio).
La sera del 23 gennaio, domenica, si presentarono a casa, alle ore 18, due persone: certo Cruciani e certo Rossi, il primo di Elice in provincia di Pescara e il secondo di Fiume. Dissero che volevano il “Professore”, ossia mio figlio, ad ogni costo per consegnargli una lettera.
Riconfermai l’assenza ed aggiunsi ancora che mio figlio era in campagna. Vollero però entrare perché, a loro detto, avevano notizie segrete da dirmi; dissero che erano otto volte che passavano il fronte ed avevano interesse di partire subito, la mattina seguente, perché dovevano condurre via quindici inglesi e desideravano perciò avere subito in consegna i prigionieri noti al Professore.
A tali parole dissi che mio figlio non sapeva nulla perché viveva lontano da tutti e non aveva visto mai alcuno. I citati signori insistettero tanto però nel dire che erano sicuri della presenza a Chieti di prigionieri ed inoltre loro venivano a nome di Tommaso Moro, che salutava mio figlio. Mi limitai soltanto a rispondere che per mezzo di una mendicante, alla quale avevo fatto elemosina, avevo saputo che a Chieti scalo vi erano due faccette nere, ma non le conoscevamo né le avevamo mai viste.
Allora il Cruciani ed il Rossi si allontanarono ricevendo da me la raccomandazione di non farsi vedere dai fascisti perché questi erano tutti delinquenti. Andarono via e promisero di tornare la mattina seguente alle sette e trenta.
Tornarono invece il lunedì, 24 gennaio, alle dieci e mezzo: videro mio figlio ed appena questi si accingeva a parlare si presentarono l’Agente di P.S. Acciarita, che faceva la ronda le sere avanti, e due fascisti, i cui nominativi
saranno noti certamente all’Acciarita. Chiesero a mia sorella (perché io non ero in casa) il libretto di affittacamere ed ebbero la risposta di attendere il mio ritorno.
Entrarono poi nella camera da pranzo dove si trovavano mio figlio con i due lazzaroni Rossi e Cruciani, che poi attestò essere stato il Colalè a comunicargli che Nicolino era in casa. Subitamente l’agente Acciarita ordinò: “Si chiudano le porte e nessuno esca”. Subito dopo intervennero altri fascisti, ne erano oltre dieci, ed uno di questi, alto bruno con i capelli ondulati, dette dei pugni sulla spalla di mia sorella Venere e le intimò di seguirlo subito in questura.
Mia sorella tentò di rifiutarsi all’ordine ricevuto ma Toti, caposquadra dei militi repubblicani, e Madonna la minacciarono di gettarla per le scale e dissero di non costringerli ad adoperare i fucili mitragliatori. Allora fu costretta ad uscire e Toti si permise di dire ad una sfollata che piangeva perché un proprio fratello era tra quelli arrestati: “Stai tranquilla che tuo fratello riuscirà subito, noi siamo venuti ad arrestare quel “cecato” (perché mio figlio portava le lenti)”.
In questo frattempo il Colalè era fuori sulla porta come spettatore, tanto che una signora gli disse “vai ad avvisare la mamma”. Difatti venne a chiamarmi e mi condusse in questura insieme ad una mia nipote che egli vide e chiamò per la via. Poi questi uscì e tornò di nuovo accompagnando mia sorella.
In questura fu ordinata la perquisizione della mia casa ed io protestai perché questa avvenisse in mia presenza. A tale osservazione il milite Zolfanelli disse “Nessuno vi ruba nulla”; allora mio figlio Nicolino aggiunse “Che perquisizione un corno”. Intervenne subito l’agente Acciarita con parole oscene che potranno essere ripetute dai testimoni: Mincone (nome non chiaro nell’originale ndr.), D’Arezzo, Cipolla ed altri. Rivolgendosi a mio figlio aggiunse: “Faremo i conti e dovrai rendere conto dell’affronto che mi hai fatto”. E subito lo spinse in malo modo nella camera di sicurezza. Era presente anche un certo Menecucci Tommaso che un milite fece uscire dopo aver ricevuto dalla moglie di questi la somma di L. 100.
Da citare intanto che l’Acciarita era in astio con me e con mio figlio a causa di una contravvenzione elevatami la sera del 5 gennaio 1942 perché suonavamo il grammofono ad ora tarda, ma senza chiasso, tanto che la mattina l’agente andò casa per casa del vicinato per domandare se avessero sentito nulla. L’indagine ebbe esito negativo e questi si urtò e disse: “Io vi voglio fare del bene e voi non lo volete”, parole queste riferite al questore.
Intanto la mia casa venne perquisita da cinque o sei fascisti, tra i quali Cipollari, Toti e Zolfanelli, che non trovando altro rubarono all’ufficiale Lombardi tre coperte di lana, dieci lenzuola, più di 140 saponette, un’ottantina di pezzi di sapone da bucato, due kg. di caffè, zucchero, un fiasco di cognac, 15 scatole di carne in conserva, 10 pezzi di cioccolato al latte, una divisa da ufficiale, un paio di scarpe alpine (queste ultime prese una sera mentre si era al ricovero); a me invece due maglie di lana, bottiglie di profumo del Sig. Teramo, una scatola di marmellata e del pane (approntati per la colazione di mio figlio e del Sig. Cipolla), una penna d’oro che il mio povero figlio aveva nel cassetto del suo comodino e infine strapparono lettere della fidanzata di Nicolino ed altre di mio figlio prigioniero in Germania.
Unico frutto della perquisizione fu il sequestro di un libro illustrato dove erano effigiati i gerarchi della milizia e del partito da una parte e i capi dell’esercito dall’altra. In tale libro risultò soltanto che alla figura di Mussolini sulla fronte spuntavano due corna ed al margine di essa era scritta una parola oscena.
I militi si ritennero poi autorizzati a mandar via l’ufficiale Lombardi e si impossessarono della sua camera e di quella di mio figlio, spadroneggiandovi e restandovi per la durata di 19 giorni, cioè fino al momento del supplizio del mio povero figlio. Andarono poi via portandosi dietro anche la chiave di casa, che non vollero restituire nemmeno dopo la mia richiesta. Da citare pure che i militi tentarono di asportare un paio di stivaloni nuovi ed il pastrano del tenente Lombardi, ma il mio intervento tempestivo valse a recuperare gli oggetti.
Mentre avveniva la perquisizione in casa io, mia sorella e mia nipote fummo trasferite nelle carceri, accompagnate dallo stesso Acciarita. Mia nipote, appena diciassettenne, entrando nelle carceri svenne e l’Acciarita intervenne dicendo: “Su, non fate smorfie”. Cambiò tono soltanto quando mia nipote rinvenne e perdette molto sangue dal naso (testimoni il capoguardia e il sottocapo delle Carceri).
La permanenza in carcere durò cinque giorni: mia sorella e mia nipote non furono mai interrogate, soltanto quando furono liberate il fascista Maggi rivolse loro qualche formale domanda. Io, invece, alla sera del secondo giorno, cioè il 25 gennaio, alle ore 18 fui condotta in questura e alla presenza di Maggi, un paracadutista funzionante da commissario, fui sottoposta ad interrogatorio, con la minaccia di morte per mio figlio se non avessi detto la verità, ossia che mio figlio la sera del 27 novembre era fuori casa.
Entrò in quel mentre il commissario Lamonaca e lo pregai di spendere qualche parola al Sig. Maggi a mio favore, giacché conosceva me e i miei figliuoli. La risposta fu: “Non c’è bisogno, il Sig. Maggi che occupa il mio posto è tanto buono e penserà lui”. Allora non poteva, ma a mandare la guardia Acciarita a casa aveva potuto! Maggi allora disse: “Non parlate? Ebbene vi dico che vostro figlio è un assassino e lo fucileremo”. Mi sono inginocchiata, gli ho baciato le mani dicendo: “No, fucilate me che sono vecchia, ma non mio figlio che è giovane e non ha fatto nulla di male perché è un santo figlio e ha un cuor d’oro”. Fui poi ricondotta nelle carceri dal Sig. Pettinella. Il giorno 27 successivo, tornò Maggi insieme a Cruciani e Dell’Ellice ad interrogarmi ancora insistendo sempre a che io dicessi che mio figlio aveva commesso assassinii e che sarebbe stato fucilato insieme ad altri dieci.
Intanto l’agente Acciarita aveva ordinato al capo delle Carceri di tenerci perfino separate. Quando il venerdì successivo alle ore 15 fummo liberate, Maggi mi disse che non c’era nulla di grave, perché non era stato trovato niente, soltanto dovevamo tenere in maggiore considerazione il fascismo, l’unico regime che avrebbe rimesso su l’Italia e l’avrebbe liberata dal nemico anglo-americano che massacrava tutte le città italiane uccidendo la popolazione.
In quanto a mio figlio, egli fu interrogato la notte del 24 e il 25 gennaio e le botte furono pochissime. La notte seguente però il supplizio fu di due ore, di continue botte; quando Fioresi gli disse “Peccato mi fanno male troppo le mani, altrimenti ti strangolerei”, Nicolino rispose “Fate di me quello che volete, ora sono nelle vostre mani”. Gli si scaraventò su il milite D’Intino colpendolo ripetutamente con calci e nervate, tanto che a mio figlio fu quasi rotto un ginocchio e non poté più camminare regolarmente. Quando rientrò in carcere si buttò a terra per rinfrescarsi dalle botte avute e restò così per due giorni senza versare una lacrima.
Finore, gli altri arrestati dopo di lui, Mario Pinti, impiegato di questura ed il maresciallo Bucci sanno di tale supplizio.
La domenica del 30 gennaio tutti i giovani arrestati dovevano essere liberati ed io aspettai fino a tardi l’uscita di mio figlio. Fu liberato soltanto un certo Zuccarini Ezio che il giorno dopo indossò la divisa da milite repubblicano aggregandosi alla banda Fioresi. Il giorno dopo questo stesso Zuccarini Ezio disse al Fiorese che i fratelli Grifone avevano una radio trasmittente ed indicò persino le dimensioni della porticina ed il luogo dove era nascosto l’apparecchio. Il giorno seguente andò ancora a ritrovare alcune bombe a mano e i fucili sotterrati in campagna. Questi fatti hanno revocato (poco chiaro nell’originale ndr.) la scarcerazione dei giovani che stavano per essere liberati.
Altri particolari importanti a me non completamente noti vi sono in merito allo Zuccarini e potranno essere fatti presente se si interrogherà la Sig.ra Irma Innocenti ved. Cappelletti ed i fratelli Grifone.
I signori fascisti, specialmente il caposquadra Toti, ordinarono a tutti di abbandonare la mia abitazione, perché era casa pericolosa e gli inquilini rischiavano di andare a finire tutti, da un momento all’altro, in galera. E l’ordine venne poco dopo precisato da Fioresi e Maggi, ma non venne eseguito perché i signori (vi è il plurale ma è riportato il solo Sig. Teramo) ospitati nella mia casa fecero presente di non poter andare a dormire sotto i portici.
Noi eravamo allontanati da tutti, né potevamo tentare di acquistare qualcosa da mangiare, perché anche se avessimo pagato chissà quando, non ci si dava nulla. Si era quasi costretti a morire di fame.
Ed ancora un certo capitano Arpino, degno collaboratore del Fioresi, che fino all’ultimo mi aveva rassicurato della liberazione di mio figlio, un giorno mandò a dirmi che a casa non doveva venire più nessuno, perché io dovevo essere fucilata insieme a mio figlio. Ciò nonostante continuavo a fare pensione. Mi intimò perfino che, se non avessi smesso, mi avrebbe fatto allontanare da Chieti, unitamente alle mie due sorelle e a mia nipote, la ragazza già imprigionata. Riferii l’accaduto al questore e questi promise che avrebbe pensato a non farmi più molestare.
Venne infine la beffa del processo giudiziario condotto da un tribunale militare tedesco: nessuno intervenne o poté intervenire. I presenti al momento dell’ingiusta condanna, ossia i Sigg. Nassangioli, Allavena, Maurea, il questore, Ing. Agresta, Ing. Florio ex vice podestà, Travaglini non aprirono bocca per difendere i poveri giovani innocentemente condannati. Solamente il podestà andò due volte dal comandante tedesco della piazza di Chieti, maggiore Fux, consigliere del tribunale di guerra, per invocare clemenza giacchè molti, anzi quasi tutti, erano privi di accuse. L’intervento del maggiore Fux non valse a nulla, l’intransigenza del presidente del tribunale voleva ed esigeva la condanna in massa. Furono sollecitati dalle autorità ma senza esito. Infatti il Sig. Pasquale Teramo si recò dal federale per vedere cosa si potesse fare per aiutare i giovani, e questi disse: “Voi vi ricordate di noi solo quando avete bisogno di qualche cosa; se sono colpevoli che stiano in galera, perché noi non stiamo qui per ricacciare genti dalle carceri o altro” e la frase fu accompagnata da volgari parolacce.
Mi recai più volte dal prefetto ma l’usciere Bosi non volle mai farmi entrare, perché occorreva dire a lui cosa si desiderasse. Due giorni di seguito aspettai dalle nove alle due nell’atrio della prefettura e senza alcun risultato. Il primo giorno rincorsi anche lungo le scale il prefetto e soltanto il segretario Francoletti osò domandarmi cosa dovevo dire. Dissi trattarsi di quei giovani sottoposti al giudizio del tribunale militare tedesco e mi rispose che mi avrebbe aiutata e mi invitò a ritornare il giorno dopo alle ore 9. Tornai ed alle scale fui esaudita con le seguenti parole: “Non si può fare nulla, quelli sono rei confessi”. Insistei perché io non ero stata interrogata e mi fu replicato: “Non c’è nulla da fare, andate, il prefetto non può fare nulla, ci sono i tedeschi”.
La sera della condanna tornai nuovamente dal prefetto, ma questi non riceveva poiché era a letto. Parlai ancora con Fioresi, Maggi, Allavena, Nassangioli, Francoletti, che mi dissero le seguenti testuali parole: “Signora abbiamo fatto tanto per Cavorso, ma i tedeschi hanno voluto condannare in massa”. E Fioresi inoltre mi disse: “Io però ho una coscienza e la voglio pure tranquilla, giacchè vostro figlio non ha partecipato ad alcuna azione, non ha ucciso tedeschi ed è stato solo in montagna. Ho fatto domanda di grazia per lui e Grifone Guido, perciò tranquillizzatevi”.
Il giorno dopo però tutto era stato cambiato. Nessuno prese a cuore la cosa e chi cercava di informarsi riceveva risposte irrisorie come le seguenti date dal Colalè alla Sig.ra Assunta Fusco, che l’aveva interrogato: “Sì, sì ora deve rientrare un inglese” ed ancora dopo “Adesso riescono, devono aspettare quando vengono gli inglesi!”. Anche mia sorella, che si era recata dall’arcivescovo, si incontrò con il Sig. Florio, ex vice podestà, che alla presenza di una signora accompagnata dal figlio tenente repubblicano, le domandò se fosse la madre del Cavorso. Saputo invece che era la zia le disse: “Signora, sono stati ragazzi sbandati, giovinastri, e la punizione è stata meritata perché antifascisti”. E ciò detto in tono da incutere timore a chi era presente. Ora il Florio va in giro infischiandosi di chi ha avuto un ideale per togliersi dalla schiavitù di chi ci aveva dominato per 22 anni, e per tale ideale ha dato la vita: a tutto questo ora si aggiunge la beffa.
In Palombaro, comune della provincia di Chieti, la moglie del traditore Cruciani si permette di molestare la famiglia Di Natale e di rivolgere parole alle altre famiglie sventurate dicendo: “Io percepisco sussidio dagli inglesi perché mio marito è una spia inglese ed io mangio e bevo”; mostrando dal balcone pasta bianca inoltre esclama “e voi poverette intanto morite di fame”. Ne è testimone la signora Di Natale. È mai possibile sopportare tale insulto rivolto alle famiglie e particolarmente alle vittime, sacrificate e vendute da una spia rinnegata per 200 lire ciascuno.
Nelle Vostre mani rimetto il mio doloroso diario, sicura che la giustizia farà rispettare il sacrificio dei martiri.
Con profondo ossequio Amalia Cavorso
Maria Carla Di Giovacchino, La Banda Palombaro nella Resistenza abruzzese, Tesi di laurea, Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti – Pescara, Anno Accademico 2015-2016