Il problema fondamentale che l’Italia deve affrontare, all’indomani della guerra, è quello della ricostruzione

Sparsi per il mondo, ci sono ancora i prigionieri di guerra. Molti, invece, sono morti nei campi di concentramento. Il loro numero varia da campo a campo; da paese a paese. In alcuni casi, il bilancio è terrificante. Su 5.500.000 soldati russi catturati dai tedeschi, 3.300.000 sono morti per fame e maltrattamenti. Dei 750.000 sovietici catturati a Kiev nel 1941, ne sopravvivono solo 22.000. Chi è si è salvato può finalmente rientrare in patria. Il rientro, però, è lento, faticoso, difficile. Ai tempi lunghi del viaggio, compiuto attraverso un sistema di trasporti in gran parte distrutto o spesso con mezzi occasionali e a piedi, bisogna aggiungere i tempi ancora più lunghi degli accordi politici, dei trattati, della burocrazia. A volte del disinteresse. Torna chi è stato catturato dagli Alleati, dai tedeschi, dai russi. Non è stato difficile sopravvivere nei campi di prigionia. Adesso, riacquistata la libertà, si scopre che non è facile neppure ritornare a vivere. Durante la guerra, circa 50 milioni di individui, il 10% dell’intera popolazione europea, sono stati deportati, evacuati, costretti ad abbandonare il proprio paese. Alla fine del conflitto, proseguono le migrazioni forzate. Da uno Stato alL’altro; da un territorio all’altro; a volte anche all’interno della stessa città. Si spostano in tanti, sotto il peso degli oggetti infagottati. O sotto il peso della sconfitta. Sono circa 12 milioni i tedeschi espulsi dalle regioni orientali <940.
Da 250 a 300.000 persone, in gran parte italiani, sono costrette a spostarsi dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia. In pratica, fra l’80 e il 90% della popolazione italiana storicamente insediata in quelle zone <941.
La geografia politica, evidentemente, non corrisponde alla geografia umana. Milioni di persone subiscono uno sradicamento che comporta la perdita degli affetti, dei legami con il territorio, dei ricordi non più alimentati dalla frequentazione di persone e di paesaggi. I nuovi spazi, d’altra parte, sono spesso ostili, come i nuovi rapporti nelle nuove realtà amministrative. La lotta per mantenere in vita l’identità è sempre più dura. Chissà in quale lingua sognano queste persone <942.
La guerra, dunque, è finita. Adesso si possono tirare le somme. C’è chi ha combattuto e chi si è arreso; chi l’ha voluta e per chi l’ha subita; chi ha vinto e chi ha perso. L’Italia ha vinto e ha perso. Ha occupato altri paesi ed è stata occupata. Ha violentato ed è stata violentata. Ha combattuto oltre l’Europa ed è stata attraversata da eserciti e uomini di diverse nazioni e di diversi continenti: americani, inglesi, francesi, polacchi, tedeschi, cosacchi, neozelandesi, nepalesi, marocchini, algerini. Ha combattuto più guerre: una guerra di occupazione e una di liberazione. Una guerra patriottica, una guerra civile, una guerra di classe. Ha perso molti uomini e molte donne <943.
Anche l’Italia, come altri paesi, ha subito ingenti danni materiali. La distruzione e la miseria sono rappresentate in modo efficace dal cinema. Del resto, i film sono realizzati in presa diretta, secondo i canoni del realismo. In questo momento, la realtà è la rappresentazione più vera e più fedele di se stessa.
“La realtà quotidiana si chiama cibo scarso, tessere annonarie, pochi denari, sfollamento, case distrutte, alloggi introvabili, coabitazioni, disoccupazione alimentata dai reduci, abiti di rayon, cappotti tagliati nelle coperte dell’UNRRA, viaggi sopra i carichi degli autocarri, treni rari e disastrati, energia elettrica razionata, mezzi di trasporto senza pneumatici. […] L’Italia è un paese di macerie, bombardato, martoriato. Un paese di calcinacci, di accattoni, di prostitute, di orfani, di stracci neri. Di donne cariche di fiaschi, damigiane, pentole e bottiglie, ferme in fila per ore davanti alle fontanelle per raccogliere l’acqua che nelle case non c’è” <944.
La guerra ha distrutto strade, ferrovie, porti, fabbriche, chiese, ospedali, uffici, abitazioni. Il sistema produttivo è seriamente compromesso. Nel 1938 la produzione di grano, la base delL’alimentazione degli italiani, ammontava a 80 milioni di quintali. Nel 1945 è scesa a 43 milioni. Su 31 milioni di vani di abitazioni, 6.700.000 risultano distrutti o danneggiati. L’elettricità è ridotta al 90% al nord, al 45% nell’Italia meridionale e, in alcuni momenti, al 3% nell’Italia centrale. Il sistema dei trasporti è gravemente danneggiato. Il numero delle locomotive è ridotto al 55%, quello dei carri merci al 46%, quello dei vagoni per viaggiatori al 17%. Complessivamente, c’è una capacità ridotta al 40% per le ferrovie, al 35% per gli autotreni, al 35% per i mezzi di navigazione <945. Sono impraticabili 7.000 chilometri di ferrovie e 42.000 chilometri di strade; 19.000 ponti sono crollati e 910 acquedotti non funzionano più. La linea ferroviaria Milano – Roma viene riattivata solo alla fine dell’estate del 1945. Il primo treno impiegherà 37 ore per raggiungere la capitale. Il problema fondamentale che l’Italia deve affrontare, all’indomani della guerra, è quello della ricostruzione. Bisogna ricostruire il paese per ritornare a una vita normale e bisogna riconnettere un tessuto sociale fatto di relazioni e di identità. Sarà facile ricostruire. E anche in un tempo relativamente breve. Sarà difficile, invece, riannodare i fili di un legame bruscamente interrotto dalla guerra <946. E sarà ancora più difficile creare un nuovo senso di appartenenza e una nuova identità. Troppi sono gli ostacoli e troppo marcate sono ancora le divisioni che alimentano pratiche diffuse di violenza e memorie divise e contrapposte. A queste difficoltà, bisogna aggiungere la condizione di sradicamento di intere comunità di italiani da un “territorio di confine” storicamente caratterizzato dalla presenza di diverse componenti etniche, linguistiche, culturali, religiose. I rapporti tra le popolazioni sono stati spesso conflittuali, anche in relazione alle politiche attuate dai regimi che hanno esercitato il potere. La guerra, poi, ha prodotto ulteriori fratture che hanno assunto i caratteri della violenza ideologica e dell’odio politico. In queste terre, l’occupazione fascista e tedesca hanno avuto un effetto dirompente sui rapporti tra le diverse comunità e hanno inciso profondamente sui processi di identità nazionale e sui meccanismi di identificazione e di appartenenza <947. La sconfitta delle potenze dell’Asse e la vittoria delle forze jugoslave determinano le condizioni per la definizione di un nuovo assetto territoriale con una diversa composizione e articolazione della società. Si tratta di un processo che si inserisce nel quadro generale dei rapporti di forza tra vincitori e vinti e nella storia di lungo periodo segnata da una violenza che, soprattutto nei giorni che precedono la fine della guerra, assume il carattere della “resa dei conti”, della vendetta politica e personale, degli arresti, delle deportazioni, degli “infoibamenti” e di quello che sarà il lungo esodo. Subito dopo l’8 settembre, in seguito al crollo dell’amministrazione italiana nei territori occupati, si manifestano episodi violenti, soprattutto in Istria, ai danni dei rappresentanti dello Stato italiano (civili e militari) e del fascismo locale, in particolare di coloro che hanno collaborato con il regime fascista. Si tratta di azioni che si estendono anche ad altre categorie della società e che causano la morte di circa 500 persone, vittime di una rabbia alimentata da avversione, rancore, ostilità di tipo politico, etnico, sociale. Le foibe, i precipizi naturali che caratterizzano queste terre, cominciano a inghiottire i corpi dei “nemici” che devono essere fatti sparire, quasi per voler cancellare non solo le prove del crimine commesso ma anche le tracce della loro esistenza individuale e collettiva. La seconda fase della violenza, quella più intensa, si manifesta nella primavera del 1945 quando ormai le sorti della guerra sono segnate per i fascisti e i nazisti. L’esercito di Tito e le forze della resistenza jugoslava, slovena e croata in particolare, mettono in atto una strategia che tende a conquistare un territorio i cui confini devono diventare una barriera invalicabile del nuovo Stato e devono rafforzare una nuova identità politica e ideologica che tenga conto anche delle componenti etniche. La violenza si abbatte sui fascisti e sui repubblichini, sui nazisti, sui collaborazionisti, sugli esponenti della società, della cultura, dell’economia ritenuti nemici da combattere e da eliminare. Alla rabbia antica si aggiunge il desiderio di vendetta. Nei momenti concitati che precedono e seguono la fine della guerra avvengono arresti, deportazioni, esecuzioni, regolamenti di conti <948. “La natura della repressione posta in atto implica l’internamento di tutti i militari e delle forze di polizia catturati (compresi gli appartenenti alle locali Questure e alla Guardia di Finanza) e l’eliminazione fisica di parti di essi con fucilazioni e marce della morte senza nessun accertamento delle responsabilità individuali ma in virtù dell’attribuzione di una colpa collettiva. La presunzione è quella di una colpevolezza politica, non penale” <949. E’ in questo periodo che si verifica il maggior numero di infoibamenti, nel quadro più generale di uccisioni di massa compiute in altri luoghi e con altre modalità. “[…] Pare plausibile attribuire alla fase I degli infoibamenti (settembre-ottobre 1943) il seguente bilancio: Istria circa 500 morti (0,06% della popolazione); Gorizia e Trieste: imprecisato; Zara: 200 scomparsi; Fiume: 500 vittime (0,9% della popolazione). Nella fase II gli scomparsi si aggirano sui 5.000 elementi” <950. In questo nuovo contesto, caratterizzato dalla nascita di una nuova entità politica e statuale, all’interno di un quadro complesso e difficile di relazioni, sia in campo “alleato” (Jugoslavia-Urss- Partiti comunisti) sia in campo “nemico” (Stati Uniti, Inghilterra), l’elemento ritenuto estraneo, sia esso nazionale o di classe, deve essere espulso. Oppure, deve accettare le nuove regole. Chi, invece, non intende sottostare alle condizioni imposte dai vincitori, può andarsene. Dal 1944 al 1956, e ancora in misura ridotta negli anni successivi, da 250.000 a 300.000 persone, in gran parte italiani, lasciano i territori che hanno abitato per tanto tempo <951. E’ un esodo lungo e a tappe, condizionato, di volta in volta, da fattori contingenti ma caratterizzato, fondamentalmente, dal profondo mutamento delle condizioni di vita e dalla impossibilità di accettare un nuovo modello culturale <952. La decisione di partire viene presa da diverse categorie sociali della comunità italiana e riguarda l’85-90% dei suoi componenti. E’ facile immaginare la condizione dei profughi, la loro vita nei campi, la precarietà, la promiscuità, la perdita di uno spazio fatto di storia e geografia e la perdita degli affetti costituiti da ricordi, frequentazioni, consuetudini, promesse e speranze di vita. E’ difficile, invece, raccontare le loro storie, schiacciate tra la disputa sulle responsabilità, nel nuovo clima di guerra fredda, e la volontà di dimenticare e superare i contrasti del passato, nella vecchia e sempre attuale logica della ragion di Stato <953. “Tacere sugli infoibati e sui profughi, relegarli a memoria locale giuliana senza farli entrare nella coscienza collettiva, ghettizzare gli esuli istriani e dalmati nei campi profughi senza mai lasciare emergere la loro vicenda politica ed umana è la risposta più facile e immediata per non parlare del Trattato di pace, della diminuzione della sovranità nazionale, del trattamento che è riservato all’Italia come paese sconfitto. […] In questo modo, il cerchio si salda: un paese che vuole immaginarsi vincitore non deve parlare delle sconfitte. Nella memoria delL’Italia non c’è posto per chi è stato ucciso nel Nord-Est, né per chi ha lasciato le proprie terre e si è trovato a vivere l’esperienza tormentata di esule” <954. E’ anche un modo, potremmo aggiungere, per non fare i conti con il passato, salvo poi utilizzare questi temi come strumenti di lotta politica nel presente <955.
La fine della guerra è accompagnata da un eccesso di violenza. C’è una violenza endemica che è stata amplificata dalla guerra e ora assume proporzioni notevoli per gli effetti che produce sulL’economia e sui rapporti sociali: borsa nera, furti, rapine, estorsioni, sequestri di persona <956. C’è una violenza residuale che si aggiunge a quella sistematica che per venti mesi ha insanguinato il territorio italiano e ha colpito soprattutto i civili. Sono oltre trenta, ancora tra aprile e maggio 1945, le stragi compiute dai nazisti in fuga <957. C’è, infine, una violenza insurrezionale che prosegue nei giorni e nei mesi della “lunga liberazione” fino a trasformarsi, apparentemente, in una violenza aggiuntiva, difficilmente comprensibile, però, se la si riduce ad un’unica categoria interpretativa, la “resa dei conti”, tanto generica quanto riduttiva. Si tratta, infatti, di una violenza che assume forme diverse in contesti diversi. E’ una violenza politica e privata; pubblica e occulta; individuale e collettiva; immediata e meditata; occasionale e organizzata e riguarda un intero paese che è alla ricerca di un assetto stabile e di nuovi equilibri. Questa violenza, sottaciuta o enfatizzata, deve essere indagata, in tutta la sua complessità senza dimenticare che oltre il “sangue dei vinti” <958 c’è anche il “sangue dei vincitori” <959.

[NOTE]
940 Vedi: Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2008.
941 Vedi: Guido Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005.
942 Una guerra caratterizzata da un’ampia e rapida mobilità di mezzi, armi, eserciti e da una mobilitazione di massa indotta e sostenuta dalle ideologie mantiene, tra le sue conseguenze, il tratto distintivo del movimento. Gli spostamenti di popolazione hanno però cause remote che devono essere indagate nel lungo periodo. La loro complessità richiede uno studio approfondito che consenta di superare visioni limitate e ricostruzioni parziali o strumentali. Rispetto a un evento dirompente e devastante come la seconda guerra mondiale, c’è un prima, che non va ignorato e sottaciuto, e c’è un dopo, sul quale occorre riflettere per individuare e analizzare le rotture e le continuità.
943 In base ai dati elaborati dalL’Istat e provenienti da una ricerca promossa dal Ministero dell’Interno, pubblicata nel 1957, i morti per cause di guerra sono 226.532 (di cui 10.500 donne) per il periodo 1940-1943 e 210.149 (di cui 36.381 donne) per il periodo 1943-1945. Poi ci sono 7.842 morti (di cui 167 donne) collocati sotto la voce “data ignota”. In totale, si hanno 444.523 morti (di cui 47.048 donne). A questi, si aggiungono circa 40.000 individui morti dopo il 1945 per ferite e malattie. Vedi: Istituto Centrale di Statistica, Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-1945, Roma 1957. Secondo Giorgio Rochat, invece, abbiamo i seguenti dati, ritenuti incompleti dallo stesso autore: caduti nei combattimenti dopo l’8 settembre: circa 20.000; militari prigionieri dei tedeschi morti in mare: 13.400; militari caduti come partigiani nei Balcani: 10.000 (cifra puramente orientativa); militari morti come prigionieri dei russi (compresi nel totale di 80.000 caduti in Russia e morti entro l’estate 1943); militari morti come prigionieri dei tedeschi: circa 40.000; militari morti come prigionieri degli alleati: 10.000 (3.000 in due anni su 41.000 italiani richiusi nei campi francesi in Nordafrica. Non esistono dati sugli altri 400.000 prigionieri degli inglesi e 125.000 prigionieri degli americani); militari delle Forze armate regolari caduti nella campagna d’Italia: circa 3.000; partigiani caduti: 40.000 (è una stima, tradizionalmente accettata); uccisi nelle rappresaglie nazifasciste: circa 10.000; ebrei: circa 7.300; deportati politici morti in Germania: circa 32.000; vittime dei bombardamenti anglo-americani: 40.000 (cifra generalmente accettata); fascisti caduti: oltre 3.000 nelle operazioni di repressione e 12.000 fucilati nei giorni della Liberazione. Vedi: Giorgio Rochat, Una ricerca impossibile. Le perdite italiane nella seconda guerra mondiale, in “Italia contemporanea”, 1995, n.201, pp. 687-700. Ripubblicato in Id., Ufficiali e soldati. L’Esercito italiano dalla prima alla seconda guerra mondiale, Gaspari, Udine 2000.
944 Marco Innocenti, L’Italia del 1945. Come eravamo nell’anno in cui scoppiò la pace, Mursia, Milano 1994, pp.123-124. Per i dati sul costo della vita vedi: Istituto Centrale di Statistica, Sommario di statistiche storiche dell’Italia 1861 – 1965, Roma 1968
945 Meuccio Ruini, Le cifre della ricostruzione, Comitato interministeriale per la ricostruzione, Roma 1945.
946 Si tratta di un legame che riguarda l’Italia (nel suo duplice rapporto con il passato e con il futuro), gli italiani (al ritorno dai campi di prigionia o dal fronte); l’italianità (nel contesto delL’espulsione e della partenza da un territorio segnato dagli esiti della guerra e dalla definizione di nuovi confini).
947 “Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata (senza parlare dei sudtirolesi o dei francofoni della Valle d’Aosta) addirittura da prima dell’avvento al potere; della brutale snazionalizzazione (proibizione della propria lingua, chiusura di scuole e amministrazioni locali, boicottaggio del culto, imposizione di cognomi italianizzati, toponimi cambiati) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? […] Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale adriatico, sullo sfondo della Risiera di S. Sabba e degli impiccati di via Ghega? Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nelL’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria”, Enzo Collotti, Giù le mani dalle foibe, “il Manifesto”, 11 febbraio 2007.
948 Vedi: Nevenka Troha, La questione delle “foibe” negli archivi sloveni e italiani, in Joze Pirjevec, con la collaborazione di Gorazd Bajc et al., Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009.
949 Claudio Vercelli, Il problema storico delle foibe, in “Asti contemporanea”, n. 10, dicembre 2004.
950 Ivi. I dati relativi al numero degli infoibati sono discordanti e costituiscono uno degli elementi di contrasto tra storici e studiosi in relazione al fenomeno più generale delle foibe.
951 Non è possibile calcolare il numero preciso dei profughi. Molti si dirigono nelle Americhe o in Australia e Nuova Zelanda senza ricorrere alle strutture ufficiali. La maggioranza, invece, si stabilisce in Italia ed è pertanto possibile operare delle rilevazioni statistiche. Dai risultati di un’indagine promossa nel 1953 dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati risultano circa 250.000 esuli (L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, a cura di Amedeo Colella, Tip. Julia, Roma 1958). In una nota del Capo di Gabinetto della Presidenza del Consiglio datata 26 luglio 1955 si fa riferimento a 250.000 profughi ai quali devono essere aggiunti quanti si stanno spostando dalla zona B del Territorio Libero di Trieste (la nota è citata da Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), Del Bianco, Udine 1999). Infine, il Comitato di coordinamento fra le associazioni degli esuli indica 350.000 profughi sulla base della pubblicazione di Padre Flaminio Rocchi, L’esodo dei 350.000 giuliani fiumani e dalmati, Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Roma 2007 [1ª edizione 1969].
952 “Si era persino detto più di una volta che forse avrebbe potuto continuare a vivere lì, in mezzo agli slavi, comandato dai titini; d’altronde lui non aveva mai fatto politica. Forse sarebbe riuscito a imparare il croato e avrebbe accettato che Marisa [la figlia minore] iniziasse a imparare a leggere e a scrivere esclusivamente in quella lingua straniera per loro. […] Forse avrebbe potuto accettare con umiltà che una parte del raccolto gli fosse preteso; che le sue terre venissero requisite perché tutto doveva essere di tutti. […] Forse sarebbe stato zitto, soffocando la rabbia nel vedere le chiese profanate dalL’orda degli invasori che ballavano, ballavano, ballavano la loro danza anche in quei luoghi sacri […] Forse avrebbe fatto l’abitudine a non sentire più le belle cantade in dialetto uscire dalle osterie e invadere ogni contrada […] Forse si sarebbe piegato a non festeggiare più il vero significato del Natale e della Pasqua, a non partecipare più a processioni e feste padronali. […]. Nora [la figlia maggiore] però aveva compiuto quindici anni e lui era venuto a sapere che sarebbe stata prelevata dalla famiglia e inviata lontano da casa, destinata al lavoro volontario in qualche fabbrica o addirittura sarebbe stata sfruttata per ricostruire le linee ferroviarie o altro. […] Quando ipotizzò che anche Marisa crescendo non avrebbe più avuto il loro credo religioso, non avrebbe parlato più il loro bel dialetto, non avrebbe più rispettato le loro idee e avrebbe cercato magari di plagiarli con quelle dei vincitori ormai fatte proprie, non avrebbe più ostentato la finezza e la sensibilità della loro stirpe e non avrebbe più custodito nel suo intimo né tradizioni né identità italiani, allora aveva alzato il capo e aveva preso la decisione più gravosa: bisognava andar via!”, Marisa Brugna, Memoria negata. Crescere in un Centro Raccolta Profughi per Esuli giuliani, Condaghes, Cagliari 2002, pp.47-48, citato da Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005, al quale si rimanda per un approccio di carattere generale e per le interessanti osservazioni formulate.
953 Il fenomeno migratorio che interessa il “confine orientale” è complesso e riguarda diversi gruppi etnici, diverse categorie sociali e ha diverse motivazioni. Accanto ai temi ampiamente affrontati dalla storiografia è interessante analizzare anche altri aspetti. In particolare, vedi: Giorgio Cingolani, Gli slavi in Italia: collaborazionisti, criminali di guerra e anticomunisti in fuga (1945-1950), in “Storia e problemi contemporanei”, n.32, 2003, pp.153-177.
954 Gianni Oliva, Profughi. Dalle foibe alL’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia,
Mondadori, Milano 2005, pp. 16-17.
955 In tutto questo c’è anche un aspetto paradossale: “[…] la bandiera dei profughi, per lungo tempo, viene fatta propria dalle forze delL’estrema destra, eredi del regime che, scatenando la guerra, è alL’origine stessa del loro dramma”, ivi, p.19.
956 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma 2008, Edizione su licenza Editori Riuniti. Sulla delinquenza comune vedi le pp.71-90 e le relative tabelle.
957 Vedi: Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, a cura di Tristano Matta, Electa, Milano 1996.
958 Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti. Quel che accadde in Italia dopo il 25 aprile, Sperling & Kupfer, Milano 2003; Id, Sconosciuto 1945, Sperling & Kupfer, Milano 2005. A proposito di Giampaolo Pansa, Angelo Del Boca scrive: “[…] Egli sa benissimo, nel calcare la mano su certi lati oscuri della guerra di liberazione, di non rivelare nulla di nuovo, nulla di essenziale, nulla di indispensabile, perché lo hanno preceduto, sul piano narrativo, Fenoglio, Calvino e il sottoscritto, e, nell’ambito della ricerca scientifica, storici di professione come Claudio Pavone, Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi, Ermanno Gorrieri. Dunque Pansa sa benissimo, lui che ha compilato con amore e pazienza la Guida bibliografica della Resistenza in Piemonte, di non fare nulla di inedito e tantomeno di eroico nel dare la parola “a chi è stato costretto a tacere per anni dall’arroganza dei vincitori della guerra civile”. E visto lo straordinario successo di vendita de Il sangue dei vinti, ogni anno sforna un nuovo volume, più o meno con gli stessi ingredienti, la stucchevole forma narrativa, le stesse storie che grondano sangue, con un crescendo di insulti per chi lo critica e lo rimprovera. […] Ma questo Pansa, che oggi si vanta di revisionare la storia a suo piacimento, per darla in pasto ai nostalgici del fascio e di Salò, è lo stesso Pansa che mi sedeva dinanzi, nel mio studio in via Fava, al Giorno, e visibilmente si emozionava nell’ascoltare storie sulla guerra di liberazione? E’ proprio lui? Conservo qualche dubbio”, Introduzione a La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura di Angelo Del Boca, Neri Pozza Editore, Vicenza 2009, pp.21-22.
959 Massimo Storchi, Il sangue dei vincitori. Saggio sui crimini fascisti e i processi del dopoguerra 1945-1946, Aliberti, Reggio Emilia 2008.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011