Il SOE e l’Italia

Milano – Monumento a Giuseppe Garibaldi in Largo Cairoli

Lo SOE cercò di reclutare agenti italiani innanzitutto in Gran Bretagna. Il 19 dicembre 1940 veniva stabilito uno schema per il reclutamento degli uomini, attuando una ripartizione in tre fasce dei possibili agenti: i primi, agenti nel senso proprio del termine, capaci di creare delle strutture sovversive appena giunti in Italia; la seconda di agenti di grado inferiore, sottoposti ai primi; la terza categoria, di “desperados” che avrebbero lavorato indipendentemente.
Per arruolare agenti vennero creati dei Pioneer Corps, unità dell’esercito che ospitavano gli italiani filo-britannici, puntando a selezionare i possibili candidati. Più tardi questi corpi pionieri si sarebbero aperti anche ai prigionieri. Si cercò inoltre di prendere contatto con gli antifascisti espatriati.
Salvatore Lombardo, Politiche di propaganda britanniche e storie di prigionia italiana tra Egitto e India, Tesi di dottorato, Università di Pisa, Anno accademico 2011-2012

Nei rapporti con la resistenza partigiana, i britannici mantennero comunque fino a tutto il 1944 una posizione di leadership rispetto agli americani, attraverso lo Special Operations Executive (SOE), organizzazione creata nel 1940 specificamente per sostenere i movimenti antinazisti, concorrente e rivale dello statunitense Office of Strategic Services (OSS), che era invece un servizio segreto tuttofare, essendo gli americani neofiti rispetto ai britannici nelle cover operations.
Quanto alle preoccupazioni per la situazione in Italia settentrionale al momento del crollo tedesco, l’incubo peggiore era il manifestarsi anche in Italia di quella che sarebbe stata definita, dal dicembre 1944, una “situazione greca”, con riferimento all’insurrezione scatenata dai partigiani comunisti ellenici al momento della liberazione e repressa dalle truppe britanniche, dopo che Churchill era stato costretto ad accorrere ad Atene il giorno di Natale. Senza arrivare a questo, preoccupavano i rischi di un dualismo tra governo legittimo di Roma e CLNAI, l’anarchia, le violenze e la “terra bruciata” che i tedeschi avrebbero potuto fare al loro ritiro, distruggendo infrastrutture ed impianti industriali.
A rassicurare contro una situazione rivoluzionaria non era certo sufficiente la presenza al vertice del Corpo Volontari della Libertà di un Generale del Regio Esercito, Raffaele Cadorna, che il 12 agosto 1944 era stato paracadutato in Val Cavallina, accompagnato dal maggiore britannico Oliver Churchill, non parente del Premier, dal Tenente della Regia Guardia di Finanza Augusto De Laurentis e dal radiotelegrafista Delle Monache. In realtà l’assunzione del Comando da parte di Cadorna era stata molto travagliata, poiché i partiti di sinistra erano disposti ad accettare un “consulente” militare, non un vero Comandante.
Prof. Massimo De Leonardis, GLI ALLEATI E LA LIBERAZIONE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE, La Guardia di Finanza nella Resistenza e nella Liberazione di Milano, Atti del convegno organizzato dal Museo Storico della Guardia di Finanza, Sala Alessi – Palazzo Marino, Milano, 26 aprile 2005

Un’altra differenza tra la Special Force e la Resistenza italiana era quella inerente i negoziati o le tregue con tedeschi e fascisti. I reports delle missioni ci dimostrano che i CLN o le formazioni partigiane tendevano a stipulare accordi <119, magari solamente per sopperire alla scarsità di mezzi che rendeva impossibile la lotta <120. Piccole tregue che gli inglesi giudicavano con scetticismo, e di cui le missioni erano un inibitore parzialmente efficace <121. Esse percepivano il pericolo del sicuro “effetto domino” che avrebbero avuto sulle altre formazioni: se veniva «[…] permesso a singole unità di fare questi patti con il nemico, non [c’era] dubbio che l’effetto morale sarebbe [stato] veramente deprimente per l’intero movimento partigiano» <122. La delusione psicologica che ne sarebbe seguita avrebbe potuto provocare un senso di frustrazione leggibile come il tradimento della causa comune, esasperando le già numerose rivalità politiche. Inoltre i tedeschi erano visti come una controparte poco affidabile che faceva un uso delle tregue strumentale alla loro politica bellica <123. La prassi delle intese era giudicata pericolosa perché questi rispettavano «gli accordi fino a quando conveniva loro». Dopo aver guadagnato tempo per riorganizzare le forze, avrebbero inizianto nuovi rastrellamenti. Allo stesso tempo però era considerata anche inutile, visto che avrebbe comunque lasciato ai tedeschi tutto il tempo per « […] di eseguire il più completo programma di demolizioni» <124. In merito alle trattative gli ordini dei Liaison Officers ricalcavano le direttive dell’AFHQ: non doveva «[…] aver luogo nessun negoziato con il nemico», eccetto quelli trattati «sulla base della resa incondizionata». Una questione particolarmente spinosa era il trattamento dei soldati che si sarebbero arresi. Il negoziato doveva « […] essere condotto con l’accordo […] delle formazioni partigiane stesse. Le nostre missioni non sono nella posizione di garantire […] il trattamento dei POW che si arrendono ai partigiani», e quindi «[…] non [devono] tentare di influenzare in alcun modo la decisione» <125.
I precedenti dubbi rimanevano anche quando venivano proposti accordi con un respiro molto più ampio e concernenti l’antiscorch, mediati da personalità attendibili e politicamente garanti. Tentativi di intese che fino dall’inverno del 1944 si presentavano sistematicamente e che altrettanto puntualmente vedevano il CLNAI diviso. Fino dall’ottobre, Don Giuseppe Bicchierai, aiutante del Cardinale Albedo Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano, avanzò un progetto di accordo tra tedeschi e partigiani <126. Nella fattispecie erano coinvolti lo Sandartenfuhrer delle SS Dollmann, il CLNAI ed ovviamente anche l’AAI. Dalla trattativa rimanevano esclusi i fascisti che, come ebbe a confessare agli americani lo stesso sacerdote, probabilmente non sarebbero stati d’accordo. Il progetto in questione comunque «[…] sarebbe stato applicato a tutte le regioni da essere evacuate o alle singole province [e] città». Da un lato « […] le truppe tedesche e la polizia non avrebbero distrutto le strutture pubbliche o deportato uomini e animali. Non avrebbero distrutto strade, ferrovie, ponti». Dall’altro « […] il CLNAI e le sue bande non avrebbero intrapreso azioni militari o terroristiche». La Chiesa avrebbe svolto un ruolo di mediazione chiedendo alle formazioni indipendenti di astenersi dalla lotta. La proposta era decisamente misurata perché eventuali azioni individuali non avrebbero costituito una rottura dell’accordo. I tedeschi avevano accettato la proposta, in special modo Rahn sottolineava che proprio «[…] l’intervento della Chiesa, oltre quello del CLNAI, [fosse] necessario per far rispettare l’accordo ai comunisti». Ciò più che come il riconoscimento del ruolo cardine dell’Arcivescovato, appariva come un sconfessione dell’autorità dello stesso Comitato. Un organismo che era diviso non tanto sulla decisione da prendere, «[…] il CLNAI si oppone interamente al progetto», quanto sulla sincera aderenza a questa linea, come evidenziato dalle sensibilità dei singoli partiti. Tra i possibilisti c’erano la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale e quello Socialista, mentre gli intransigenti con riserva erano gli azionisti <127. Nel novembre successivo Don Bicchierai aveva nuovamente avanzato il progetto al maggiore Churchill, in concomitanza del suo viaggio in Svizzera. L’inglese gli aveva notificato il suo commento negativo: era necessario evitare un trauma ai partigiani proprio quando stavano « […] obbedendo all’ordine di Alexander» che considera gli accordi «un tradimento» <128.
[NOTE]
119 HS 6/865 del 24-5-45, Matthews; HS 6/854 del 30-5-45, Brietsche; HS 6/832 del 20-1-45; HS 6/862 del 9-1-45;
HS 6/844 del 28-2-45; HS 6/831 del 22-11-44.
120 HS 6/841 del 22-6-45, Bell. Durante l’inverno, essendo a corto di armi e nell’impossibilità di attaccare e difendersi, Badery aveva stipulato un accordo con i tedeschi. L’ufficiale britannico lo aveva invitato a romperlo immediatamente e gli aveva garantito l’appoggio della missione.
121 La missione Cherokee venne lanciata a Biella appena in tempo per impedire un accordo con il nemico, in HS 6/840 del 16-6-45, Amoore; HS 6/831 del 12-1-45, anonimo. «L’OSS ha riferito che nell’area di Parma e Piacenza [i partigiani] stanno facendo accordi con i tedeschi». Questo «è contro la politica dell’AFHQ. Se hai contatti con loro portali sulle direttive del XV Gruppo d’Armate».
122 HS 6/831 del 19-11-44, Lett-Macintosch.
123 A titolo di esempio si veda HS 6/832 del 20-1-45, Oldham, che riferisce di un accordo promosso dal CLN competente Alpi Apuane. Esso ebbe il disastroso risultato di un rastrellamento. [G. PAJETTA, Il ragazzo rosso va alla guerra, Milano, 1986, p. 84 e ss., testimonia invece un negoziato condotto da Longo che ebbe buon fine.]
124 HS 6/844 del 28-2-45, Tac HQ N.1 Special Force, Fascist Secret Politcy Meeting. Il documento riporta un telegramma inviato il 26 febbraio dal maggiore Holland. In esso informava che i partigiani cui era assegnato avevano avuto un incontro con i tedeschi in cui era stato deciso che questi avrebbero lasciato l’Emilia senza essere disturbati e senza distruzioni. La risposta della centrale della Special Force era ferma: «è stato deciso che questo accordo dovrebbe essere proibito e il Comando Unito di Parma [dovrebbe essere] informato che gli Alleati non possono concorrere in nessun accordo». Dopotutto, lo stesso «Comando Supremo Alleato si oppone ad ogni negoziato».
125 HS 6/786 6, undated, SACMED-HQ XV Army Group and N.1 Special Force.
126 [I. SCHUSTER, Gli ultimi tempi di un regime, Milano, 1946, p. 109 e ss.]
127 HS 6/785 5 del 30-11-44, Berne.
128 HS 6/862 del 9-1-45, Churchill, Operation Fairway. [Un parere che faceva corollario a quello espresso dallo stesso War Office britannico, secondo cui il piano era «assolutamente inopportuno», per ragioni politiche. Esso suggeriva agli Alleati di premere su Mosca perché essa controllasse i comunisti, ma anche perché non sarebbe stato accettato da una certa parte del movimento resistenziale italiano. Inoltre indebolendo il CLNAI avrebbe creato difficoltà durante la fase di transizione, in FO 371/43879/20351 War Office Report, MO 1, 1 dicembre 1944, citato in E. AGA-ROSSI – B. F. SMITH, La resa tedesca in Italia, Milano, 1980, p. 80.]
Mireno Berrettini, Le Missioni dello Special Operations Executive e la Resistenza Italiana, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Pistoia, QF, 2007, n° 3.

La scheda SOE di Leo Valiani

La scheda SOE di Edgardo Sogno

La trattazione di questo complesso tema sarebbe sommaria, se non si distinguesse la posizione degli inglesi da quella degli americani. Le divergenze anglo-americane nella politica verso l’Italia nel 1943, che sono state avanti tratteggiate, riguardarono non solo la strategia militare e l’importanza del Teatro del Mediterraneo nello scacchiere della guerra, ma anche la questione istituzionale italiana e il riconoscimento della legittimità del Governo Badoglio e della Monarchia postfascista. Infatti, mentre gli americani e, in particolare, Roosevelt furono, almeno all’inizio, propensi a rinviare la questione politica alla fine del conflitto, soprattutto per mantenere salda l’unità dell’opinione pubblica composta, per una larga fetta, di italo-americani, invece, il Foreign Office (FO) e Churchill erano favorevoli alla conservazione della Monarchia sabauda, essendo quest’ultima reputata l’unica alternativa all’avvento del comunismo in Italia. Sennonché, tale linea politica britannica, nettamente conservatrice e filomonarchica, si scontrava con la chiara avversione per Casa Savoia e il Governo Badoglio e i suoi massimi esponenti che, per vent’anni, si erano macchiati della connivenza con il Fascismo e Mussolini ed erano quindi, secondo questo giudizio, responsabili della catastrofe della guerra in cui l’Italia era precipitata, che connotò il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e i partiti antifascisti, dei quali molti esponenti erano iscritti nei libri paga del SOE britannico, quali Massimo “Max” Salvadori <18 e Leo Valiani <19. Nel suo complesso, dunque, gli Alleati, e soprattutto gli inglesi, considerarono sempre come controparte legittima e affidabile la Monarchia e il Governo Badoglio, mentre si rifiutarono di vedere, almeno sino agli accordi del dicembre 1944, quali interlocutori politici il CLN e il suo rappresentante nell’Italia settentrionale, il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, a maggior ragione, ove si consideri che alcuni suoi membri quali, ad esempio, il socialista Sandro Pertini <20 ritenevano che il CLNAI non dovesse assumersi la responsabilità dell’armistizio perché non aveva quella della guerra.
Tale contrapposizione ideologica fu ben chiarita da Edgardo Sogno <21, figura eccentrica della Resistenza italiana, il quale collaborò con il SOE, consapevole del fatto che: “Gli Inglesi non ci rimproverano il fascismo, ci rimproverano di aver fatto la guerra. E in questo fatto della guerra sentono che la colpa è tutta nostra. Gli antifascisti considerano invece la guerra come una conseguenza del fascismo, rimproverano agli Inglesi di avere appoggiato il fascismo, quando loro l’hanno combattuto, e si sentono quindi in credito anche verso gli Inglesi”. <22.
A tal proposito, sintomatica di tale contraddizione appare una lettera del 13 settembre 1943 che il luogotenente colonnello Cecil Roseberry, capo della Sezione italiana (J Section) del SOE, inviava all’agente, maggiore Max Salvadori, appena sbarcato a Salerno, nella quale gli si comunicavano gli ordini dello Stato Maggiore Militare britannico con riguardo ai rapporti da osservare con gli antifascisti e, in particolare, con i suoi ‹‹vecchi amici›› di Giustizia e Libertà (GL). In sintesi, l’ordine era di non incoraggiare ‹‹gli agitatori politici›› ovvero alcuna ‹‹strategia rivoluzionaria›› o ‹‹movimento politico››: l’organizzazione doveva, da un lato, assistere il Movimento della Resistenza nel compimento di operazioni speciali oltre le linee nemiche e, dall’altro, mantenere la collaborazione ufficiale con il Governo e l’esercito italiano per il compimento di azioni militari contro la Germania, da svolgersi avvalendosi di ‹‹fidato personale militare (e non di certo operante come militare)››, ed era d’obbligo usare una buona dose di tatto e discrezione, affinché l’agenzia segreta inglese non rischiasse di ‹‹compromettersi agli occhi dello Stato Maggiore italiano››, così concludendo: “C’è un solo nemico ora; Il Fascismo è morto e noi e gli Italiani dobbiamo essere uniti per liberarci dei Tedeschi. Non può esserci pace in Italia sino a quando non vi sarà pace in Europa” <23.
D’altro canto, se agli agenti inglesi fu ordinato di non incoraggiare le velleità politiche e rivoluzionarie della Resistenza italiana ma solo di avvalersene nel compimento di operazioni speciali a supporto della guerra contro la Germania in Italia, in nome della legge fondamentale della “necessità militare”, i colleghi dei servizi segreti americani, i quali, come sopra anticipato, furono reclutati, tra i ranghi civili e militari, per lo più tra italo-americani, senza alcun riguardo all’orientamento politico ovvero alla posizione sociale, di frequente ignari della geografia del territorio, privi di professionalità specifiche e, talora, anche delle minime nozioni linguistiche, politicamente orientati o addirittura inquadrati, furono più tenuti all’oscuro degli obiettivi strategici dei massimi dirigenti militari americani e, quindi, lasciati improvvisare, ingenuamente persuasi di poter trascurare le implicazioni politiche delle operazioni in Italia e dei rapporti con la Resistenza, sicché, alla fine, la politica dei servizi segreti americani in Italia, lungi dall’essere deliberatamente duale, come quella degli inglesi, finì per essere tanto fluida da identificarsi con quella che i singoli agenti dell’OSS portarono avanti in loco e per fondarsi su una realtà filtrata, quando non deformata, attraverso le singole prospettive degli agenti referenti.
Questa sostanziale incoerenza e instabilità della politica dell’americano OSS in Italia è confermata, ora, dalla testimonianza del capitano Cagiati dell’OSS, secondo il quale tutti gli ufficiali che si avvicendarono ai vertici dell’OSS furono animati dalla comune idea che la questione politica non fosse importante e potesse essere ignorata. “Si tratta di una questione a proposito della quale noi, come organizzazione dell’OSS, avemmo ben poche istruzioni. Vi fu una successione di ufficiali al Comando e alle Operazioni tra l’OSS, la V Armata, l’OSS/AAI e la Compagnia D, tutti animati dall’idea che la questione politica non fosse importante e potesse essere ignorata. Con poche eccezioni, costoro non tardarono ad accorgerci che invece quest’aspetto doveva essere valutato. Come sopra detto, tutti gli ufficiali del britannico SOE invece furono indottrinati sulle implicazioni politiche del loro lavoro, mentre pochi dei nostri furono in questa posizione e inoltre il pregiudizio politico individuale, di destra o di sinistra, sembro prevalere all’interno del nostro personale”. <24
[NOTE]
18 Massimo (Max) Salvadori, al secolo Massimo Paleotti Salvadori, fu agente di primo piano del SOE. Arruolato come “agente esterno” dalla filiale newyorkese del SOE, nel febbraio 1941, nome in codice Sylvester, lavorò al servizio della sezione operativa del SOE nel Mediterraneo. Una nota biografica di Massimo (Max) Salvadori è tratteggiata da D. Stafford, Mission Accomplished cit., pp. 3-5. La vicenda politica e umana di Max Salvadori è delineata, anche alla luce dei rapporti del SOE di recente rinvenuti nel Public Records Office (PRO) di Londra dallo storico Mauro Canali nel saggio Leo Valiani e Max Salvadori, I servizi segreti inglesi e la Resistenza cit.
19 Leo Valiani (originariamente Weiczen) nacque a Fiume il 9 febbraio 1909. Aderì giovanissimo all’antifascismo della Gioventù Comunista e fu così arrestato una prima volta nel 1928 e, dopo quasi un anno di carcere, una seconda nel 1931. Dopo cinque anni di carcere, emigrò in Francia, dove collaborò con la stampa dell’emigrazione antifascista. Durante la guerra civile in Spagna, Valiani vi lavorò quale corrispondente di guerra. Internato in un campo di concentramento francese, nel settembre 1943 rientrò in Italia e assunse la segreteria del Partito d’Azione (Pd’A) per l’Italia del nord e, come rappresentante del Pd’A entrò nel Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI). Con Sandro Pertini, Emilio Sereni e Luigi Longo, compose il Comitato Insurrezionale del 25 aprile 1945. Risulta altresì acquisito che Leo Valiani fu arruolato dal SOE, nel giugno 1943, da Max Salvadori, ancorché i rapporti con i servizi segreti inglesi durante il periodo di guerra restassero riservati anche in considerazione del ruolo ricoperto da Valiani nelPd’A. Si cfr. a tal proposito, M. Canali, Leo Valiani e Max Salvadori, I servizi segreti inglesi e la Resistenza cit. Nominato, dopo la liberazione, membro della Consulta Nazionale, fu eletto, nel giugno 1946, deputato all’Assemblea Costituente e, dal 1980, nominato senatore a vita. Morì a Milano il 18 settembre 1999.
20 Alessandro Pertini nacque a Stella (Savona) il 25 settembre 1986. Combattente durante la prima guerra mondiale quale sottotenente di complemento, nel 1918, da giovane avvocato, s’iscrisse al Partito Socialista e, con l’avvento del fascismo, del quale fu aspro oppositore, iniziò per lui una dura stagione di violenze squadriste, pestaggi, condanne e esilio. Nella clandestinità organizzò nel 1926 la fuga di Filippo Turati, anziano leader del socialismo riformista, in Corsica, con Ferruccio Parri e Carlo Rosselli, che culminò con la condanna dei tre giovanissimi antifascisti. Catturato nel 1929 e condannato a dieci anni e 9 mesi di reclusione, fu liberato solo nell’agosto 1943, dopo quattordici anni di reclusione e tre confini a Ponza, Tremiti e Ventotene. Responsabile dell’organizzazione militare del partito, nel quale operò durante il periodo della guerra, nell’ottobre 1943 fu arrestato dai nazifascisti e condannato a morte. Liberato grazie ad un’azione dei partigiani nel gennaio 1944, fu negli anni seguenti esponente di spicco del Partito Socialista Italiano (PSI), del quale fu rappresentante nel CLNAI nonché, con Valiani e Longo, componente del Comitato Insurrezionale del 25 aprile 1945. Nominato segretario del PSI nel 1945, fu eletto nell’Assemblea Costituente e poi Deputato della Repubblica. Nel 1968, fu eletto Presidente della Camera dei Deputati e nel 1978 Presidente della Repubblica, carica che durò sino alla scadenza naturale del 23 giugno 1985. Morì il 24 febbraio 1990.
21 Edgardo Sogno, nome di battaglia “Franco Franchi”, nacque a Torino nel 1915, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza (ne ottenne complessivamente tre), si arruolò volontario nella guerra in Spagna. Tenente nel reggimento Nizza Cavalleria, dopo l’8 settembre 1943, partì per Brindisi, dove fu assegnato all’ufficio del capo di Stato Maggiore di Badoglio, all’epoca primo ministro. Decise di collaborare con la sezione svizzera del britannico SOE e con il suo direttore John MacCaffery, grazie al cui aiuto finanziario, poté costituire l’organizzazione militare autonoma “Franchi”, che operò in collegamento diretto con gli Alleati e con il comando italiano del Sud, allo scopo di organizzare i campi di lancio e le azioni di sabotaggio nell’Italia occupata. Monarchico e conservatore, anticomunista e con una personalità eccentrica, così descrisse la propria attività antifascista: ‹‹Lavoro per il CLN, per gli Inglesi e per il comando italiano, ma (…) dipendo solo da me.›› E. Sogno, Guerra senza bandiera cit., p. 159. Nel gennaio 1945, quando Ferruccio Parri fu arrestato dai tedeschi a Milano, “Franchi” ne organizzò la liberazione ma fu arrestato dalle SS e poi trasferito al lager di Bolzano. Alla liberazione, Sogno ottenne la medaglia d’oro al valor militare e si dedicò al servizio diplomatico.
22 E. Sogno, Guerra senza bandiera cit. p. 177.
23 La lettera di Roseberry a Salvadori del 13 settembre 1943 è riportata in stralcio da D. Stafford, Mission Accomplished cit., pp. 24 e 25.
24 A. Cagiati, Italian Activities January 1943-June 1945 cit., p. 10.
Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012

Il SOE – Special Operations Executive, Esecutivo operazioni speciali – fu un’organizzazione inglese attiva per tutta la durata della seconda guerra mondiale, allo scopo di fomentare la resistenza contro gli occupanti tedeschi in tutta Europa. Ne ha recentemente ricostruito la storia completa lo storico francese Olivier Wieviorka nel suo libro “Une histoire de la Résistance en Europe occidentale”, dove si dedicano alcune decine di pagine all’Italia […]
Il SOE in origine era diviso in tre settori: il SOE 1, affidato a Reginald (Rex) Leeper, del Foreign Office, si dedicava alla propaganda; il SOE 2, sotto la direzione di Colin Gubbins, organizzava le operazioni speciali; il SOE 3 si occupava di ricerca e pianificazione. Molto presto però il 2 e il 3 vennero fusi dando luogo a un nuovo organismo, il Political Warfare Executive (PWE).
La propaganda puntava in primo luogo sulla radio. Nell’Europa occupata era un mezzo di comunicazione già abbastanza diffuso: milioni di persone potevano ricevere le notizie e le parole d’ordine, e diffonderle. La propaganda del SOE 1 si svolgeva su due registri: quella “aperta” o “bianca” consisteva in messaggi provenienti da fonti chiaramente identificabili, autorità britanniche o governi in esilio. Si svolgeva non solo alla radio, ma anche con volantini e giornali che la RAF lanciava sull’Europa. La propaganda “nera” o “mascherata”, svolta da Unità radio speciali, doveva essere anzitutto non identificabile come britannica, e tendeva a seminare confusione, per esempio portando la voce di fascisti critici verso Mussolini, o di francesi disgustati da Pétain.
L’Unità radio per l’Italia, più conosciuta come Radio Londra, iniziò le trasmissioni nel novembre 1940; era affidata all’allora corrispondente a Londra dell’EIAR, Ruggero Orlando, che venne ben presto affiancato da altri tre, un cattolico, un liberale e un repubblicano, che con il socialista Orlando coprivano lo spettro politico italiano, esclusi i comunisti. Il discorso era concorde: tutti parlavano di un nuovo Risorgimento che avrebbe dovuto eliminare il fascismo, concludere la pace e terminare il dominio tedesco.
La seconda direttrice di azione del SOE prevedeva l’invio di agenti, inglesi o stranieri, con il compito di formare cellule clandestine nei paesi occupati. Le missioni organizzate negli anni 1940 e 1941 non ebbero esito brillante, e quanto all’Italia, non vi fu alcun movimento.
Per l’Italia Hugh Dalton fece il tentativo di instaurare a Londra un governo italiano in esilio, sull’esempio della France Libre del generale De Gaulle. Per l’operazione venne scelto Carlo Petrone, un cattolico antifascista rifugiato in Inghilterra fin dal 1939. Nel gennaio del 1941 Petrone fondò un Comitato Italia Libera, che peraltro non ebbe l’approvazione del Foreign Office: Petrone era del tutto sconosciuto in Italia, le sue capacità politiche sembravano limitate, il suo ascendente nullo. La crisi scoppiò nel luglio 1941: alcuni componenti del Comitato revocarono Petrone e nominarono alla presidenza Alessandro Magri, uno degli speaker di Radio Londra. Secondo il Foreign Office, “il dottor Petrone, come da noi previsto fin dall’inizio, è una persona assolutamente inadatta ad essere il leader di un movimento”. Il Comitato venne sostituito da un Movimento Italia Libera, anch’esso ridotto presto all’impotenza, non essendo rappresentativo della situazione politica, sociale, religiosa e psicologica dell’Italia del tempo. Nel dopoguerra Petrone diventerà deputato della Democrazia cristiana e si occuperà di agricoltura.
Nel gennaio 1941, con l’offensiva lanciata in Libia, gli inglesi fecero prigionieri circa 100.000 soldati italiani; fra questi si pensò di trovare dei volontari disponibili ad affiancare le truppe alleate al fronte. Però, come scrisse Gubbins nell’ottobre 1941, “i soldati italiani catturati sono in grande maggioranza perfettamente felici di restare prigionieri e non mostrano alcun desiderio – sia per denaro che per altre ragioni – di tornare al loro paese con atteggiamento avventuriero”. Di fatto, per gli italiani era più difficile pensare di combattere a fianco degli ex nemici contro i loro amici, alleati e connazionali […]
Nella riunione del 24-25 giugno del 1941, il Comintern votò una direttiva, comunicata il 7 luglio ai partiti comunisti dell’Europa occupata, con la quale si indicava di “realizzare la più ampia unità organizzando immediatamente un Fronte unico nazionale. Per realizzare questo obiettivo si tratta di contattare tutte le forze, indipendentemente dalla loro tendenza politica, se sono forze che si oppongono alla Germania fascista”.
Quanto agli Stati Uniti, all’entrata in guerra alla fine del 1941 non disponevano di alcuna organizzazione, tranne i servizi di informazione militari. William J. Donovan, un giurista di origine irlandese, molto vicino a Roosevelt, dopo un viaggio di inchiesta in Europa presentò al Presidente un memorandum circa il pericolo di infiltrazioni di agenti segreti stranieri e la necessità di creare un servizio destinato alla “guerra sovversiva”, come il SOE. L’11 giugno 1941 Donovan venne nominato Coordinatore dell’Informazione e creò due strutture, il Foreign Information Service (FIS) per trasmissioni radiofoniche antitedesche, e il Research and Analysis Branch, costituito da docenti universitari. Dopo Pearl Harbour, il 25 febbraio 1942, la struttura, rinominata Office of Strategic Services, ebbe l’incarico di “organizzare e condurre operazioni segrete sovversive nelle zone nemiche” e venne posto sotto comando militare. Malgrado le differenze con i servizi inglesi, si stabilì una cooperazione fra le due sponde dell’Atlantico.
Sempre nel febbraio 1942, a Hugh Dalton subentrò Roundell Cecil Palmer, barone di Selborne, un buon conservatore lontano da idee socialiste; come direttore del SOE arrivò Charles Hambro, un banchiere di origine danese, che come braccio destro mantenne Gubbins. Continuava la duplice azione del SOE: appoggio ai gruppi di resistenti e alle azioni di sabotaggio che contribuivano sempre più a ostacolare la vita del Terzo Reich nei paesi occupati […]
Per quanto riguarda l’Italia, dopo i tentativi malriusciti del Comitato e dell’arruolamento di soldati italiani prigionieri, il SOE tentò di agire attraverso un’antenna impiantata nel Canton Ticino dal febbraio 1941. John McCaffery, sotto la discreta etichetta di addetto stampa, aveva l’incarico di intrattenere i rapporti con gli italiani, in primo luogo con piccoli gruppi di antifascisti presenti in Svizzera. Ma le speranze furono presto deluse: i pochi antifascisti erano “cospiratori da salotto, che riponevano tutta la loro fiducia nei manifesti e nei graffiti”. Peggio ancora, un paio di gruppi dalla denominazione roboante erano creazioni dirette dell’OVRA. L’unica speranza seria comparve nella persona di Emilio Lussu. Scrittore già noto, aveva fondato il Partito sardo d’azione, nettamente antifascista, e poi, insieme con i fratelli Rosselli e Gaetano Salvemini, il gruppo di Giustizia e Libertà. Lussu contattò i servizi inglesi proponendo un piano che prevedeva un’insurrezione in Sardegna, la creazione di un corpo militare e lo scoppio di ulteriori insurrezioni in Sicilia, Piemonte e Venezia Giulia. Ma si trattava di un piano non realistico, che esigeva l’impiego di grandi mezzi, e per di più Lussu esigeva garanzie sull’avvenire dell’Italia, che il SOE non poteva dare. Non se ne fece nulla.
Rispetto all’Italia pesava poi un grosso equivoco: per il futuro, quale trattamento riservarle? Quello di paese vinto e costretto alla resa senza condizioni, come la Germania, oppure uno status più favorevole, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando era stata riconosciuta la “cobelligeranza”? Un dilemma che non fu mai risolto con nettezza, tanto più che l’Italia si era spaccata in due: al meridione il Regno del Sud con la monarchia Savoia sotto tutela degli Alleati che risalivano la penisola, e al nord la Repubblica sociale di Mussolini, dove fioriva il movimento partigiano, in gran parte comunista. Era un movimento che non si limitava ai compiti che il SOE assegnava ai gruppi di resistenti, incaricati di raccogliere informazioni e organizzare sabotaggi. I partigiani portavano avanti un’autentica guerra di guerriglia, prendevano le redini della vita civile, costituivano vere e proprie enclaves di libertà. In questo senso, le repubbliche partigiane furono un serio campanello di allarme, in quanto i dirigenti del SOE – ma anche i funzionari del Foreign Office – paventavano una divisione del Paese, fra un sud monarchico e alleato, e un nord – ricco e industriale – nelle mani dei comunisti. Non a caso, la repubblica dell’Ossola, che essendo al confine aveva le migliori possibilità di mettersi in contatto con McCaffery, non ricevette alcun aiuto. Eppure Cino Moscatelli, con l’assenso di Pietro Secchia, aveva scritto a McCaffery, chiedendo esplicitamente armi e munizioni per difendere la zona libera. Non solo: come scrive Carlo Musso, Moscatelli nella sua lettera fa “un’accorata difesa dell’immagine e della dignità delle formazioni garibaldine, spesso screditate dagli Alleati e dagli ambienti moderati dell’emigrazione politica”. Moscatelli scriveva: “Delle nostre formazioni fanno parte giovani di tutte le tendenze politiche, o meglio giovani che di politica non ne sanno niente e pensano solamente a combattere per liberare la loro patria. Tale è la nostra direttiva, cioè lottare contro i tedeschi e contro i fascisti nella guerra di liberazione a fianco degli Alleati, senza preconcetti di partito, al di sopra di ogni idea o credo religioso… Non è vero che i commissari politici svolgono un’intensa propaganda a favore del partito comunista… Per ciò che concerne la libertà di culto nelle nostre formazioni basta chiedere ai parroci di tutta la Valsesia, i quali si sono spontaneamente offerti come cappellani per le nostre formazioni”. Nonostante questo, gli aiuti alleati alla Val d’Ossola furono praticamente nulli.
D’altra parte gli Alleati, al di là dei loro palpiti anticomunisti, non potevano non riconoscere l’importanza e l’efficacia dell’azione partigiana. Nel maggio 1944 il generale Harold Alexander sottolineava con soddisfazione che la resistenza nel nord immobilizzava sei delle venticinque divisioni tedesche stanziate nella penisola, confermando l’importanza strategica di quello che veniva definito “l’esercito delle ombre”. Pochi mesi più tardi, in ottobre, il colonnello Cecil Roseberry insisteva: “La resistenza in Italia settentrionale è un fattore molto serio. Nella sua forma attiva (sabotaggi e ostilità armata) essa costituisce una fonte costante di esasperazione per il nemico… Nella sua forma passiva, essa priva di migliaia di lavoratori l’industria bellica italiana e permette agli operai di evitare la deportazione in Germania. Inoltre offre agli Alleati informazione di tipo sia militare che politico”. A conti fatti, conveniva venire a patti con il CLNAI; il 7 dicembre 1944 i Protocolli di Roma, firmati dall’inglese Sir Henry Maitland Wilson e da Ferruccio Parri per il CLNAI, definiscono la situazione: il CLNAI si impegna a seguire le istruzioni degli Alleati, a riconoscere l’autorità del governo italiano e a garantire il mantenimento dell’ordine; in cambio riceve un aiuto mensile di 160 milioni di lire e viene considerato come rappresentante legale delle autorità di Roma nell’Italia occupata. Il potere regolare e la resistenza del nord infine si riconoscono reciprocamente, il che elimina il pericolo di una secessione nordista – e comunista.
A questo punto il SOE, che aveva insediato una propria base a Monopoli, in Puglia, si convince che la resistenza italiana svolge un compito importante: forte di 80.000 – 100.000 volontari, poteva appoggiare le truppe alleate che erano state costrette a ritirare dal fronte italiano sette divisioni nell’estate del 1944 e poi ancora cinque divisioni nell’inverno successivo. Ai partigiani vengono assegnate tre grandi missioni: attaccare le comunicazioni per ostacolare i movimenti del nemico, immobilizzare le divisioni tedesche soprattutto in Piemonte, e infine appoggiare e sostenere le operazioni dell’esercito alleato. Il problema era quindi quello di armare i partigiani, ma i lanci non si rivelano precisamente un vantaggio: il tempo era spesso troppo inclemente, gli aerei – dei Dakota – si rivelarono inadatti alla missione, il materiale cadeva spesso nelle mani di tedeschi e fascisti; inoltre gli alleati temevano sempre che le armi cadessero in mani troppo rosse per esser loro gradite. Commenta uno storico inglese: “Limitando l’afflusso di armi per la resistenza italiana, i militari britannici e americani sacrificavano un vantaggio tattico alla loro ossessione per l’ordine e la legge”. Il SOE non apprezzò questo comportamento, e ancor meno apprezzò l’editto di Alexander che esortava i partigiani a tornare a casa. “Quando avete chiamato i partigiani a combattere una guerra aperta, non è giusto lasciarli cadere come una patata bollente. Quegli uomini si sono bruciati i ponti e non hanno alcuna possibilità di ritirarsi. Se non li riforniamo di munizioni, quel che li attende è la morte sotto tortura”, scriveva Lord Selborne. I comandi militari finirono per cedere alle pressioni di natura politica, militare e morale del SOE e aumentarono i lanci: 437 tonnellate di materiale nel gennaio 1945, 900 tonnellate in febbraio, 200 missioni alleate paracadutate ad appoggiare le formazioni partigiane. Questa collaborazione accrebbe il prestigio degli Alleati, rianimò il morale dei partigiani e aiutò a coordinare le azioni; gli Alleati dimostrarono maggiore fiducia nei partigiani, i quali d’altra parte liberarono più di cento città prima dell’arrivo delle truppe alleate, stabilendo un’organizzazione amministrativa che lasciò stupiti inglesi e americani; un documento del SOE riconosce esplicitamente che “il contributo dei partigiani al salvataggio delle strutture della loro economia si può considerare l’aspetto più eccezionale del ruolo che essi hanno svolto nella campagna d’Italia”.
Conclude Wieviorka: “Con o senza l’aiuto delle forze clandestine, gli Alleati sarebbero comunque riusciti a liberare l’Europa occidentale… ma senza l’aiuto della resistenza, la liberazione avrebbe avuto un corso diverso, più lungo, più costoso e doloroso… La Resistenza aveva partecipato alla vittoria militare con esito brillante e contribuì alla stabilità della situazione politica, evitando che i paesi d’Europa occidentale piombassero nel caos”.
Il SOE venne chiuso rapidamente appena finita la guerra, nel 1945. I documenti relativi vennero secretati e tali restarono fino al 1997 […] Tutti i passi citati fra virgolette sono tratti dal libro di Wieviorka sopra menzionato.
Nunzia Augeri, Il SOE e l’Italia, Centro Studi Luciano Raimondi