Immagine del rom come culturalmente nomade

Fonte: www.21luglio.org

Questo lavoro riguarda le carriere abitative dei rom che sono usciti o hanno provato a uscire da un campo rom o da una baraccopoli, scegliendo una soluzione abitativa differente. L’uscita dall’insediamento rom, campo o baraccopoli – un tema fin qui trascurato dalla letteratura scientifica – risponde ad una particolare problematica di policy resasi ancora più evidente negli ultimi anni. Si è, infatti, assistito ad una presa di coscienza dell’incapacità del dispositivo “campo nomadi” di favorire percorsi di integrazione e la critica rivolta ai campi, che ha dominato il dibattito scientifico e politico, si è condensata in una proposta pressoché unanime: favorire l’uscita dei rom dai campi e dalle baraccopoli. Le alternative, le ipotesi di ricollocazione, spaziano tra l’idea di una risistemazione in alloggi “normali” (come nel caso di Milano) e l’idea di una ricollocazione in nuovi insediamenti da riprogettare altrove (come nel caso di Roma).
L’assenza di studi è indicatrice di una convinzione forte basata sull’idea che l’uscita e l’ingresso in una casa o in una struttura collettiva meglio progettata, meglio attrezzata sia sempre e comunque auspicabile, un effetto automatico laddove si incrementi l’offerta.
Ma cosa capita davvero ai rom che vivono in queste aree e che provano ad uscirne?
Le traiettorie di uscita da un campo [1], seppur frequenti, sono – è opportuno ribadirlo – inesplorate; in aggiunta a ciò, possiamo affermare che non tutti i rom vivono nei campi [2]: molti già sperimentano tipologie e soluzioni abitative differenti.
Questo lavoro ha origine dalla presa d’atto che sappiamo poco o nulla di cosa significhino per i rom queste uscite, di quali siano le risorse che consentono di realizzarle e gli esiti che ne determinano il successo o l’insuccesso.
La nostra analisi ha quindi approfondito le modalità attraverso le quali vengono intrapresi i percorsi di uscita: collocando questa esperienza entro un segmento biografico ampio, precedente e successivo al trasferimento nella nuova soluzione abitativa.
[…] La sinonimia rom-nomade e la convinzione che il girovagare rappresentasse un tratto identitario [67] di tutte queste popolazioni ha certamente contribuito al progressivo incremento di trattamenti differenziali che, come vedremo,
negli anni hanno contraddistinto l’approccio politico alla questione rom.
3. Il campo ieri
Volendo articolare un ragionamento organico sulle origini e le ragioni della creazione dei campi è opportuno ripercorrere, storicamente, i presupposti che hanno favorito e determinato questi particolari dispositivi amministrativi di controllo [68]. Le due funzioni intrinseche nel controllo, inteso in senso lato, sono rappresentate da una parte dal confinamento territoriale, attuato dal concentramento e dalla circoscrizione della presenza in aree definite; dall’altra dalla rieducazione. Si tratta di due aspetti che seppur diversi, rimandano e sono insiti nell’idea di controllo.
Il campo, in origine, nasce come luogo di transito temporaneo dove i nuclei rom potevano-dovevano sostare senza timore di essere allontanati. E così l’azione di delimitare i confini all’interno dei quali i rom potevano stare si è immediatamente trasformata da un diritto, ad un dovere, vietandone, di fatto, la libertà di movimento.
Scrive infatti Bonetti: “Il campo sosta diventa il luogo dove ogni persona appartenente alla minoranza dei rom e dei sinti ha diritto, ma sembra quasi abbia il dovere, di vivere, seguendo precise regole di comportamento, di accesso e di uscita e di relazione con gli altri, assai più severe di quelle che regolano gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, pena l’espulsione” (Bonetti 2011: 45-46).
E’ il nomadismo il chiaro indicatore di anomia, di asocialità e di marginalità e va arginato attraverso una rieducazione, un recupero sociale: il campo rappresenta lo spazio perfetto dove concentrare azioni “educative” e atteggiamenti repressivi. Il desiderio e la necessità di rieducare i rom, ha origini lontane e risale al Settecento e all’Ottocento quando l’Europa si trovava alle prese con la creazione degli stati-nazione. I “concetti di “educazione” e “rieducazione” dei reietti si presentavano sulla scena Europea nello stesso momento in cui l’organizzazione di stati centralizzati necessitava di definire in modo netto il riferimento ad una cittadinanza e per i rom cominciava ad essere coniata l’etichetta relativa ad una evidente “asocialità zingara” (Bravi, Sigona 2007: 859).
Il vantaggio di queste nuove aree sosta è rappresentato dalla convinzione che al loro interno fosse più facile promuovere percorsi di scolarizzazione ad hoc e quindi intervenire sull’“arretratezza” di queste popolazioni (cfr. Bravi 2010).
La storia testimonia inoltre che fin dal 1936 i rom hanno vissuto la segregazione nei campi di sterminio, tanto in Germania quanto dei campi di concentramento e rieducazione fascisti in Italia [69].
Ripercorrendo la genealogia dei campi [70] suggerita da Rahola, che mira a recuperarne l’origine coloniale, la nascita degli stessi “va ricondotta all’idea di umanità che dalle colonie per la prima volta emerge: quella di una massa (i colonizzati) per lo più indistinta ‘naturalmente’ inferiorizzata e politicamente inesistente” (Rahola 2003: 85).
Il “modello campo” rappresenta uno dei principali dispositivi di controllo utilizzati dagli Stati nazionali e riflettono un’unica logica: “quella di porre un confine tra chi vi abita e la società circostante. [I campi] Marcano una discontinuità, sono delle ferite, degli stappi, all’interno del territorio dello Stato-nazione (Piasere 2006: 12).
Il ruolo degli apparati statali assume quindi una fondamentale importanza. Nel Nord Italia sono diverse le città che optano per la creazione di queste aree di sosta: Milano, Udine, Mestre, Reggio Emilia, Pistoia, Torino, Bologna, Verona, Cuneo e Lucca.
L’immagine di questi campi nomadi, pensati dagli Uffici tecnici comunali, riflette l’idea che possa trattarsi di “camping etnici”. Certo, non si poteva offrire un camping con tutti i crismi, ma il modello era quello: un camping per persone che, rimaste più vicine alla natura, in fin dei conti non hanno bisogno di tutti i servizi che un normale camping offre ai villeggianti” (Piasere 2006: 12).
L’utilizzo dello strumento “campo” come modello di riferimento di accoglienza di queste popolazioni non è nato come una precisa scelta nazionale, ma “come una politica locale che si allarga a contagio a partire dalle città del nord e che dagli anni Ottanta è supportata finanziariamente e legislativamente da alcune Regioni” (Piasere 2004: 86).
Infatti, a partire dal 1984 vengono promulgate le prime leggi regionali che, seppur in tempi e modi differenti, individuano nei “campi nomadi” la soluzione al problema abitativo (Sigona 2002). Sono undici le Regioni che, a sostegno della progettazione e realizzazione di tale aree, si dotano di una legge, avente come oggetto le popolazioni nomadi [71]. Si tratta di provvedimenti che ambiscono a rispondere a situazioni di tensione locale favorite anche dall’aumento del flusso migratorio di rom provenienti dai paesi della ex Jugoslavia.
Questo passaggio è stato individuato da diversi studiosi come un momento cruciale della vicenda italiana dei rom [72]. Nando Sigona analizzando le politiche pubbliche rivolte ai rom e ai sinti in Italia evidenzia quelle che sono le due idee di fondo, sostenendo che: da una parte le leggi regionali [73] confermano la convinzione che i rom siano nomadi e che quindi debbano vivere all’interno dei campi nomadi; dall’altra attraverso la creazione di uffici stranieri e nomadi si riconferma tale status indipendentemente dall’effettiva nazionalità (Sigona 2005: 748-749).
La caratteristica pregnante dei dispositivi normativi locali, veicolati dalle leggi regionali, è la tutela della cultura rom declinata come identità nomade e possibilità di svolgere lavori tradizionali. La modalità di identificazione dei rom, di fatto, tradisce la realtà sociale oggetto di intervento e provoca quelli che Tommaso Vitale (2008) definisce “effetti di designazione”. Inoltre la presunta volontà di riconoscere il diritto al nomadismo è avvenuta, paradossalmente, attraverso la creazione di campi nomadi [74]. Proprio con l’istituzionalizzazione di questi contenitori di persone, regolata appunto dalla promulgazione di specifiche leggi regionali, i rom diventano a tutti gli effetti un oggetto passivo di intervento [75] e vengono alloggiati in strutture statiche.
L’obiettivo, come detto, da un punto di vista amministrativo è stato duplice: da una parte la necessità di un controllo territoriale secondo norme e attraverso strumenti che tutelino la sicurezza degli altri cittadini [76]; dall’altra la volontà di integrazione e civilizzazione di queste popolazioni, che è avvenuta però in case prefabbricate e roulotte ben separate rispetto al resto della società maggioritaria.
Lo spazio del campo, dal punto di vista urbanistico, ma non solo, si è configurato allora come un “luogo di esclusione organizzata” (Humeau 1995), tanto di sinti e rom locali quanto, progressivamente, di gruppi rom provenienti soprattutto dall’est Europa [77].
Con modalità e tipologie diverse, la creazione dei campi ha, di fatto, negato la complessità di queste eterogenee popolazioni, circoscrivendole all’interno di spazi tanto isolati quanto isolanti. In sintesi si è trattato di un trattamento amministrativo ad hoc, differenziale, principalmente per quel che attiene gli standard urbanistici e residenziali (Tosi 2008a; Vitale 2009a), che ha avuto, come vedremo, pesanti ricadute dal punto di vista sociale.
Infatti il problema abitativo all’interno degli insediamenti riguarda soprattutto l’inadeguatezza e la precarietà delle abitazioni (baracche costruite con materiali di recupero, vecchi container o roulotte, etc) che disattendono gli standard residenziali, ma la segregazione del campo e l’esclusione sociale che se ne determina non è riducibile unicamente alla mancanza della casa (Sigona 2005). Se infatti sulla carta, la legislazione regionale prevedeva che i campi avrebbero dovuto garantire una qualità di vita che passasse attraverso il controllo del numero di persone, la dotazione di adeguate strutture igienico sanitarie e la localizzazione rispetto ai centri abitati e la vicinanza ai servizi, nella realtà così non è stato.
4. Il campo oggi
Sappiamo che da circa trent’anni la soluzione “campo nomadi” è il modello di riferimento delle politiche abitative italiane rivolte alle popolazioni rom. Sebbene, come detto, in origine gli insediamenti fossero pensati come temporanei, nel tempo i rom, in mancanza di altre alternative, si stabilizzarono all’interno di queste zone.
Le politiche pubbliche infatti, non prevedevano nessun’altra soluzione o possibilità. In aggiunta a una mancanza di progettazione politica, uno dei tanti meccanismi che ha contribuito a rendere queste aree temporaneamente permanenti, è rappresentato dalle dinamiche interne che, favorendo l’egemonia di una rete famigliare, hanno progressivamente concorso alla privatizzazione degli insediamenti (Piasere 2006).
Con riferimento al presente lavoro di ricerca appare cruciale soffermarsi su questo fondamentale passaggio che ha investito i campi, immobilizzandone gli abitanti. Infatti gli insediamenti di oggi, da zone di sosta temporanee sono diventate spesso trappole permanenti. Come detto, dalla prospettiva amministrativa il campo è legittimato dall’immagine del rom come culturalmente nomade e il dilagare di tali sistemazioni abitative ha fatto dell’Italia “il paese dei campi” (European Roma Rights Center 2000; Piasere 1991, 2006; Brunello 1996) all’interno dei quali le condizioni di vita sono di prolungata precarietà.
La convinzione del binomio rom-nomadi è ancora ben presente nell’immaginario collettivo degli italiani e certamente, ad avvalorare questa idea diffusa, concorre l’utilizzo indiscriminato di tale etichetta anche nei testi emanati dal governo.
Secondo la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza a destare preoccupazione [78], non sono unicamente le condizioni di vita di chi dimora in questi campi, bensì “il fatto che tale situazione di segregazione effettiva dei Rom-Zingari in Italia sembra riflettere l’atteggiamento generale delle autorità italiane che tendono a considerare i Rom-Zingari come nomadi, desiderosi di vivere in accampamenti” (European Roma Rights Center 2002: 21).
Tale errata opinione è il risultato delle modalità attraverso le quali le autorità italiane tendano ad “approcciare tutte le tematiche riguardanti i rom e i sinti come se gli appartenenti a questi gruppi conducessero uno stile di vita nomade”. Da qui la denuncia basata sulla convinzione che sia “particolarmente urgente cambiare tale tipo di approccio, in quanto questo ha determinato, ad esempio, la segregazione forzata di molti rom e sinti in campi per nomadi” [79] (European Roma Rights Center 2006: 95).
[NOTE]
1 Questa mobilità non viene considerata dalla letteratura ma è spesso riferita dagli operatori che lavorano all’interno di queste aree, dai rappresentanti delle associazioni e dagli stessi rom.
2 Secondo alcune stime solamente un terzo del totale della popolazione rom residente in Italia dimora presso un insediamento (Sigona 2006; Raxen 2009).
67 Anche nel panorama accademico, la sociologa Annarita Calabrò (1992, 2008) ha sostenuto la tesi che la sedentarizzazione ha portato alla perdita di un’identità tradizionale di un popolo definito nomade “per definizione, per necessità, per storia, per vocazione, sempre e comunque nomadi” (Calabrò 2008: 54).
68 Per un approfondimento sulla nozione di dispositivo di controllo si rimanda alle teorizzazioni di Foucault (1975, trad. it., 1993)
69 Per un approfondimento e per ulteriori riferimenti bibliografici cfr. Bravi (2008); Bezzecchi (2008).
70 L’intento di Rahola è quello di analizzare la matrice comune dei campi, indipendentemente dalle diverse specificazioni.
71 Emilia Romagna (1988), Friuli Venezia Giulia (1988), Lazio (1985), Liguria (1992), Lombardia (1989), Marche (1994), Piemonte (1993), Sardegna (1988), Toscana (1989), Veneto (1984) e la Provincia Autonoma di Trento (1985). La variazione dei temi trattati all’interno di queste leggi è minima tanto che alcuni commentatori, a questo proposito, parlano di “leggi fotocopia” (Cfr. Bravi, Sigona 2007).
72 Cfr. Marta (2004), Piasere (2006), Bravi, Sigona (2007), Vitale (2008), Furlan (2011).
73 Per un riferimento specifico ai testi di legge cfr. Bonetti (2011): L.R. Lombardia 22 dicembre 1989, n. 77 “riconosce il diritto al nomadismo e tutela il patrimonio culturale e l’identità delle “etnie tradizionalmente nomadi e seminomadi”; L.R. Friuli-Venezia Giulia 14 marzo 1988, n. 11 “tutela, nell’ambito del proprio territorio, il patrimonio culturale e l’identità dei Rom, giusta la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo stato di apolide (28 settembre 1954) che nel termine comprende e considera anche i Sinti ed ogni altro gruppo zingaro nomade”; L.R. Lazio 25 maggio 1985, n. 82 indica tra le sue finalità quella di “salvaguardare l’identità dei rom ed evitare impedimenti al diritto al nomadismo”; L.R. Umbria 27 aprile 1990, n. 32 “intende favorire l’insediamento dei nomadi di cittadinanza italiana nel contesto sociale, garantendo la salvaguardia dell’identità e della cultura nomade, riconoscendo il diritto al nomadismo”.
74 Un’eccezione è rappresentata dall’Emilia Romagna, dal Veneto e dalla Toscana (Tosi Cambini 2006), che aggiorneranno la legge riconoscendo la sedentarizzazione dei gruppi rom. In tutti gli altri casi le politiche pubbliche rivolte ai “nomadi” non riconoscono altre possibilità insediative all’infuori del “campo nomadi”.
75 A contribuire a questo risultato concorrono anche le associazioni pro-rom che diventano gli unici soggetti accreditati a rappresentare i rom, i loro bisogni e le loro necessità. Per un approfondimento su tale questione cfr. Daniele 2011.
76 A rafforzare la convinzione della pericolosità che necessita interventi di sicurezza è la presenza visibile di persone marginali all’interno dello spazio urbano che rappresenta una minaccia per l’ordine pubblico. Tale idea è rinvenibile anche nella percezione della pericolosità degli homeless (Wardhaugh 1996) che impone il divieto di accesso e sosta negli spazi pubblici.
77 Questi migranti, lasciate le proprie case a seguito delle guerre Balcaniche o di gravi crisi economiche, si sono ritrovati a vivere nei campi, che ben presto, si sono caratterizzati per una diffusa marginalità sociale, spesso associata alla presenza di microcriminalità.
Chiara Manzoni, L’uscita dal campo e dalla baraccopoli: le carriere abitative dei rom, tra vincoli strutturali e strategie individuali, Tesi di Laurea, Università degli Studi Milano-Bicocca, Anno accademico 2012-2013