In chiave propagandistica vennero organizzate dal regime fascista nel nord-est sfilate di lavoratori ingaggiati per lavorare nel Reich

Allineamento in attesa della partenza, a Treviso. F.A.S.T., Fondo Fini. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

I partenti consumano il cestino da viaggio. F.A.S.T., Fondo Fini. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Partenza da Treviso e sventolio di fazzoletti tricolori. F.A.S.T., Fondo Fini. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Saluto romano dei rurali sollecitato dal fotografo. F.A.S.T., Fondo Fini. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Schieramento davanti alla stazione ferroviaria in attesa del corteo. F.A.S.T., Fondo Fini. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Corteo dei rurali in una via del centro di Treviso. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

I rurali inquadrati nel piazzale della Vittoria a Treviso. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Gli accordi di scambio economico stipulati tra il regime fascista e quello hitleriano offrirono tra il 1938 e il 1943 uno sbocco migratorio per circa mezzo milione di italiani. La crisi economica e la diffusa disoccupazione determinarono una forte partecipazione dei lavoratori friulani all’emigrazione verso il Reich. Fino alla crisi del settembre del 1943, operai ed operaie trovarono impiego nelle campagne, nel settore edile, estrattivo ed industriale tedesco che necessitavano di manodopera per sostenere prima la fase di riarmo e poi lo sforzo bellico. A fianco dell’emigrazione ufficiale, voluta e controllata dal regime fascista, la contiguità con il vicino Reich tedesco sollecitò la ripresa di flussi transfrontalieri verso la Carinzia e l’Austria meridionale, dove la manodopera friulana veniva impiegata nei più tradizionali settori dell’edilizia e della produzione di laterizi. Dopo il trauma del primo conflitto mondiale riprendeva così in maniera sensibile l’emigrazione verso “le germanie”.
Come già segnalato da altri studiosi, l’analisi a livello locale di questo fenomeno – e più in generale della società friulana negli anni ’30 – presenta non poche difficoltà a causa della lacunosità e della limitatezza delle fonti a disposizione; in questo senso il percorso qui sviluppato si giova ed integra i contributi di Alberto di Caporiacco, Giancarlo Bertuzzi e Silvia Biasoni dedicati alla situazione friulana; il quadro generale dell’emigrazione in terra tedesca è già stato delineato dai lavori di Brunello Mantelli e di Cesare Bermani che però non hanno dedicato molta attenzione al nord-est, zona migratoria per eccellenza <1.
L’emigrazione verso il Reich ha lasciato poche tracce dietro di sé, sovrastata dagli eventi bellici, dall’occupazione nazista del “Litorale Adriatico”; risulta quindi importante, alla luce delle indicazioni dei recenti studi, ricostruire il contesto entro cui questa emigrazione prese avvio, le dimensioni e le caratteristiche dei flussi, cercando di comprenderne la novità, evidenziarne il carattere propagandistico-politico che li accompagnò, confrontare il dato generale con quello del vissuto e della memoria.
La situazione economica e il problema del lavoro La crisi all’inizio degli anni trenta lasciò pesantissime conseguenze sull’economia friulana. Questa infatti impose una brusca frenata al già stentato sviluppo industriale e forti sconquassi nel settore agricolo, principale settore dell’economia della provincia <2. La rivalutazione della lira e i progetti autarchici come le bonifiche e l’estensione delle colture cerealicole, che avevano l’intento di creare stabilità economica e sociale, ebbero l’effetto di accrescere notevolmente le fila dei braccianti e dei salariati; coloni, mezzadri e piccoli proprietari, debitori insolventi, furono espulsi dai fondi o costretti a vendere le proprietà perché impossibilitati a far fronte ai costi della trasformazione agraria e alla forte pressione fiscale <3. La stessa politica pronatalista e antimigratoria del regime contribuì ad aggravare considerevolmente il problema della disoccupazione agricola, determinando un forte processo di spopolamento delle zone montane più depresse ed un generale slittamento della popolazione verso la pianura, saturando in questo modo l’economia agricola <4. In Friuli gli anni ’30 furono quindi fortemente segnati dal problema della disoccupazione che, dopo i picchi toccati nel 1935, continuò a mantenersi su livelli rilevanti se si pensa che tra il 1937 e il 1939 oscillava tra le 40 e le 50 mila unità, colpendo circa 1/6 della popolazione attiva nella provincia <5.
Il tentativo del regime di accentuare la “ruralizzazione” della società falliva nei suoi obiettivi principali; le contraddizioni innescate erano evidenti anche alla classe dirigente fascista, nel 1938 costretta ad ammettere che la strozzatura rappresentata dal divario tra le risorse e l’aumento demografico non poteva essere superata se non mediante una ripresa dei flussi migratori in uscita, come si era già peraltro verificato spontaneamente nel corso degli anni trenta <6. La conquista dell’Impero africano nel 1935 – una delle “fughe in avanti” del regime – spinse le autorità fasciste a varare ambiziosi progetti di insediamento per realizzare la cosiddetta “bonifica integrale dell’emigrazione” mediante l’assegnazione di proprietà ai coloni, bloccando definitivamente gli espatri e richiamando gli emigranti che non avevano avuto fortuna all’estero. Per i friulani si aprirono quindi nuove forme di emigrazione diretta dallo stato <7 in Libia, in Africa Orientale italiana, dove nel 1936 ben 13.127 lavoratori friulani collaborarono con l’esercito alla costruzione di infrastrutture e di strade militari; tale impiego tra il 1937 e il 1939 mostrò forti limiti e risultò decisamente insufficiente per risolvere la disoccupazione operaia <8.
È in questo difficile contesto che si profilò la possibilità di uno sbocco migratorio verso la Germania nel quadro della politica dell’Asse Roma-Berlino, un’ulteriore valvola di sfogo che permetteva di attenuare temporaneamente il grave disagio dei ceti popolari e di rinviare ulteriormente la risoluzione dei
problemi interni.
In Friuli, l’instabilità dei principali settori ad alta intensità di lavoro determinava alla fine degli anni trenta un silenzioso quanto diffuso malcontento nella classe operaia e contadina. Nell’edilizia la crisi fu particolarmente acuta a causa della progressiva riduzione dei lavori pubblici (infrastrutture, lavori militari) che dissestò finanziariamente i piccoli imprenditori edili <9 e della stessa stagionalità dell’occupazione che espose masse crescenti di manovali e di muratori alla disoccupazione <10. I disagi furono accresciuti nel periodo 1937-1939 dalla conclusione dei lavori presso il polo chimico di Torviscosa e dai rimpatri di lavoratori dalla Francia e dall’Africa Orientale Italiana che accentuarono i livelli di disoccupazione nelle zone più depresse e di più antica specializzazione come la Carnia, il medio Friuli e l’alto pordenonese <11.
Le stesse condizioni di occupazione, contraddistinte da una forte mobilità interna, bassi salari, lavori a turno, discontinuità e precarietà dell’impiego, costituirono una non secondaria ragione di malcontento. L’impiego nell’edilizia tendeva poi ad essere conseguenza della precarietà delle condizioni nelle campagne, dove molti piccoli proprietari in difficili condizioni, affittuari “disdettati” e salariati tentavano di alternare il lavoro agricolo con il piccolo commercio e l’attività edile; tra le famiglie coloniche si presentava inoltre la necessità di collocare i membri eccedenti in ambiti alternativi, numerosi erano poi coloro che avevano venduto le proprie terre o, separandosi dal nucleo familiare originario, erano stati esclusi dalla proprietà agricola <12. Molti lavoratori non facevano mistero di mirare ad una qualsiasi occupazione “purché fissa”, che permettesse loro di sostenere famiglie numerose, riflesso della politica demografica che creava contraddizioni fortissime e situazioni spesso insostenibili <13. Anche il mondo femminile era stato profondamente coinvolto dalla crisi: la forte contrazione del settore tessile sancì il ritorno della manodopera femminile nelle aziende familiari o all’impiego come personale di servizio nelle grandi città, un flusso che, dopo la grande espansione a metà degli anni trenta, era ormai in via di esaurimento ma costituiva ancora una non infrequente opzione occupazionale per donne e giovani ragazze <14. Appare così evidente il processo di proletarizzazione e di sradicamento cui erano sottoposti larghi strati di popolazione nel periodo che precedette lo scoppio del conflitto, accompagnato da una forte contrazione dei redditi e dei consumi e da un progressivo deterioramento delle condizioni economiche <15.
È necessario inoltre evidenziare che l’arretratezza dell’economia friulana, l’emorragia delle forze migliori e più dinamiche, la debolezza del sistema industriale e la precarizzazione delle occupazioni costringevano la manodopera ad un continuo adattamento e, in definitiva – nonostante i tentativi di riqualificazione – ad un impoverimento delle competenze professionali, un carattere che emergerà in maniera evidente nel periodo della ricostruzione postbellica <16.
Non deve dunque sorprendere come, non appena venne pubblicizzata la possibilità di poter espatriare in Germania, gli uffici pubblici di collocamento venissero assediati dagli operai, come testimoniano i numerosi telegrammi dei podestà del Pordenonese e della Carnia al Prefetto di Udine nel corso dell’estate del 1938 <17. Le sovrabbondanti richieste di espatrio rispetto alla limitata disponibilità dei contingenti previsti, i criteri di selezione, la disomogeneità dei reclutamenti in rapporto alle varie condizioni del mercato del lavoro nella provincia, crearono forti malumori contro i podestà che per parte loro videro nei reclutamenti la panacea per risolvere una situazione gravissima ed alleggerire il peso delle famiglie degli indigenti sull’assistenza pubblica <18. La diffusa povertà fu l’elemento che accomunò i primi scaglioni di “rurali” friulani inviati in Germania; a Gemona, per esempio, tutti i rurali che partirono nel maggio del 1938 godettero di ribassi per le spese di passaporto “per provata povertà”, mentre le congregazioni di assistenza dovettero sostenere gran parte delle spese per il loro equipaggiamento <19.
[…] Il regime sottolineò con forza la diversità del “nuovo modo di emigrare”, la profonda rivoluzione operata attraverso le nuove modalità di espatrio e gli accordi contrattuali che dimostravano la concreta volontà del fascismo di mutare le condizioni dei propri lavoratori a differenza dei precedenti governi liberali, accusati di impotenza e insensibilità. In questa prospettiva le immagini di efficienza, di organizzazione dei nuovi flussi “fascisti” erano intenzionalmente contrapposti alla “vergognosa” emigrazione dell’epoca liberale che vedeva gli emigranti di fatto avulsi dalla vita nazionale; non a caso la nuova tutela statale concessa ai lavoratori che partivano diveniva (in modo paradossale) un segno di inclusione sociale, nonché un segnale della vicinanza del regime ai friulani, un fattore di grande importanza per una regione periferica che aveva più volte lamentato, se non l’indifferenza, la lontananza del potere centrale. Il regime insistette sulla necessità di difendere dignità, onore e decoro nazionale, tentando di riscattare e cancellare “i tristi ricordi e le umiliazioni patite in terra straniera” <22; in questa direzione tentò di riqualificare professionalmente gli emigranti e di prepararli all’espatrio mediante la distribuzione di vocabolari e apposite guide, strumenti di assistenza peraltro non nuovi <23.
Uno degli interventi più semplici e allo stesso tempo più efficaci dal punto di vista propagandistico ideati dal regime fu quello di rivestire a nuovo gli emigranti: le divise, i pastrani, le valige forniti dalle confederazioni sindacali divennero quindi attestazioni che l’Italia fascista inviava all’estero uomini nuovi, degni di rispetto e di ammirazione, non più emigranti straccioni, privi di dignità e di amor proprio, oggetto di scherno e di commiserazione <24.
È in questa chiave propagandistica che vennero organizzate le sfilate a Udine dei lavoratori ingaggiati per lavorare in Germania; vestiti in divisa, preceduti dalla banda. Tra i vessilli sindacali, le effigi del Duce e di Hitler, le bandiere italiane e uncinate, i lavoratori adempivano ai “riti patriottici” presso il tempietto dei Caduti e, dopo la rassegna militare da parte delle autorità fasciste presso la Casa del Littorio, ascoltavano il discorso di commiato. Il momento era accompagnato, indice della emblematica commistione identitaria tra vecchio e nuovo, locale e nazionale, dai canti della “Canzone del Piave”, di “Giovinezza”, delle villotte friulane d’emigrazione, degli alalà al Duce e al Führer.

Omaggio ai caduti. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Omaggio alle arche dei martiri fascisti. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

[…] Si poneva inoltre il problema di far accettare all’opinione pubblica l’alleanza italo-tedesca dal momento che i sentimenti di diffidenza nei confronti dei tedeschi, alimentati dal ricordo dell’occupazione austro-germanica della Grande Guerra e dalle tensioni confinarie del 1934-36 erano ancora forti.
Gli emigranti furono quindi utilizzati come un vero e proprio “espediente politico” per “istillare nei friulani il filogermanesimo” <30. Anche in questo caso sembrano essere le difficili condizioni economiche a fornire un sostegno alla politica del regime; la sensibilità delle classi popolari per le possibilità di occupazione era talmente forte e prioritaria che l’emigrazione verso il Reich svolse non solo un importantissimo ruolo – superiore a quello della stessa propaganda – nella positiva valutazione da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’Asse Roma-Berlino, ma contribuì anche a depotenziare le critiche all’alleanza da parte della chiesa locale e di alcuni elementi della borghesia friulana <31.
In questa prospettiva, le partenze verso la Germania vennero presentate come una dimostrazione di fraternità e di amicizia tra il popolo italiano e quello tedesco, una collaborazione che presupponeva che l’operaio friulano desse buona prova di sé nella “nazione amica”, vera e propria parola chiave, ripetutamente utilizzata dalla propaganda in riferimento al Reich tedesco.
La presenza a Udine di funzionari nazisti che presiedevano alle operazioni di selezione degli operai, giravano la provincia per fare delle conferenze rappresentava un altro aspetto importante della propaganda filotedesca che faceva leva sull’attenzione della popolazione per gli aspetti più concreti e pragmatici del flusso migratorio e sulla tutela che l’alleato tedesco riservava ai lavoratori. Nondimeno la “germanizzazione” dell’opinione pubblica venne perseguita anche mediante le visite di operai ed ex combattenti tedeschi in Friuli e, sulla stampa, con una costante attenzione – peraltro con qualche contraddizione rispetto all’ideologia ruralista propugnata dal fascismo – per gli aspetti più moderni ed avanzati del sistema economico e sociale tedesco.
Rientra in questo quadro l’iniziativa organizzata dai sindacati italiani delle “vacanze fasciste”, visite che avevano lo scopo di consolidare la fraternità e la reciproca collaborazione tra la classe operaia italiana e quella tedesca; l’operazione coinvolse nell’estate del 1939 diverse centinaia di lavoratori friulani e triestini in una sorta di gita popolare e educativa nelle grandi città tedesche per osservare le realizzazioni del regime nazionalsocialista <32.

Il corteo dei rurali percorre il Ponte de pria. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Schieramento dei rurali all’interno del Duomo di Treviso. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

[…] Con l’acuirsi delle difficoltà belliche i motivi “ruralisti” vennero gradualmente accantonati e si attinse in maniera sempre più frequente all’immaginario collettivo locale, facendo leva sull’appartenenza comunitaria, sulla necessità di “mantenere altro l’onore del Friuli” all’estero <40. L’orgoglio e l’autocompiacimento vennero inoltre sollecitati attraverso le corrispondenze che esaltavano gli operai friulani, “ricercatissimi” perché “sobri, parchi, non loquaci, ma usi a lavorare sodo e facilmente adattabili a tutte le situazioni”, esaltando in questo modo friulanità e tradizione migratoria <41. Parallelamente, si accentuò l’enfasi retorica sul carattere militare della collaborazione italotedesca, tanto che l’immagine dei lavoratori proposta slittò progressivamente verso quella dei “militi”, “soldati” che combattevano nel Reich “la battaglia sul fronte interno del lavoro” <42.

Benedizione nel Duomo di Treviso. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Dirigendosi verso un paese nazista e prevalentemente protestante, l’emigrante si fece portatore di una duplice “fede”, fascista e cattolica (simbolo delle classi rurali, ma anche di riaffermazione di “italianità” rispetto all’alleato tedesco), aspetti che risultavano doppiamente validi per gli operai friulani, provenienti da una regione considerata come avamposto di confine della latinità, ambasciatori di una società contadina, non ancora toccata dalla modernità industriale e, in forma più velata, da quel fenomeno di scristianizzazione che stava avvenendo in Germania ad opera dei nazisti. In questo quadro, regime e chiesa locale, pur con motivazioni diverse, realizzavano una significativa convergenza di fondo sin dal 1938 perché si trovavano uniti sui modelli ideali di emigrante e di lavoratore da proporre alla società friulana <43; da questo conseguiva la concordanza sui pericoli che gli emigranti avrebbero incontrato dirigendosi verso un paese moderno come quello tedesco, da una parte visti in chiave politica e di confronto con il regime tedesco, dall’altro per i danni morali e religiosi derivanti dall’emigrazione nel paese nazista.
Notevole importanza veniva inoltre assegnata alla tutela della forte componente femminile nell’emigrazione (altro motivo di continuità con il periodo liberale), che doveva essere necessariamente vincolata al controllo familiare e parentale <44. I motivi di preoccupazione della chiesa erano determinati dalla possibilità di discriminazione religiosa in Germania: fu lo stesso pontefice Pio XI nel gennaio del 1938 ad esprimere al vescovo di Udine la necessità di un’adeguata assistenza religiosa “per i figli che vanno oltr’Alpe” <45; tali timori furono rapidamente superati con la stipula di accordi che tutelavano la libera professione religiosa dei lavoratori <46, tanto che il clero locale collaborò intensamente alla preparazione di questa emigrazione, offrendo sostegno morale e spirituale e distribuendo vademecum patriottico-religiosi <47. La documentazione archivistica mette inoltre in luce altri livelli di cooperazione del clero che continuava ad essere un punto importante di riferimento e di direzione delle classi popolari; i podestà di Gemona e di Buja, ad esempio, si affidavano alle prediche dal pulpito dei rispettivi parroci per sollecitare il
reclutamento verso la Germania <48.
Verso il Reich tedesco 1938-1943. Reclutamenti e andamento del flusso migratorio
La risposta della popolazione operaia alla prospettiva di nuovi sbocchi occupazionali all’estero fu pronta ed immediata; l’emigrazione verso il Reich godette di un ampio consenso perlomeno dal 1938 sino a tutto il 1941, come testimoniano le sovrabbondanti richieste di espatrio presentate alle confederazioni sindacali fasciste e agli uffici comunali. La possibilità di un impiego stagionale, decisamente ben retribuito rispetto ai livelli salariali italiani e favorito dalle operazioni di cambio attrasse un considerevole numero di agricoltori e operai, donne e giovani.
Date le difficili condizioni occupazionali, la provincia fu in prima linea nell’emigrazione verso la Germania sin dal maggio del 1938, quando partirono da Udine quattro scaglioni di “rurali” (1803 lavoratori) ed un successivo contingente di edili (2060 lavoratori) nel settembre dello stesso anno. Fu l’inizio di un flusso di non secondaria importanza che aumentò progressivamente, soprattutto dopo l’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale. I primi contingenti di rurali vennero impiegati per lavori stagionali nelle campagne tedesche della Slesia, Germania centrale, Sassonia e Baviera per la coltivazione delle barbabietole, frumento, segala e orzo, la raccolta di patate e ortaggi, per i lavori di stalla e di mungitura. Tale impiego coinvolse molte operaie – esplicitamente richieste dalle autorità tedesche – che ripresero in questo modo ad emigrare.
Le prime partenze dei lavoratori, come già accennato, furono accompagnate da un intenso lavoro di propaganda: nel febbraio del 1938 la stampa friulana dava l’annuncio dei reclutamenti, descriveva accuratamente le zone agricole di destinazione, metteva in luce le favorevoli possibilità di ambientamento degli operai friulani ponendo l’accento sulle allettanti condizioni contrattuali, di trattamento, e sulla possibilità di osservare le festività religiose cattoliche <49. Per lanciare il nuovo flusso migratorio e rassicurare l’opinione pubblica, vennero seguite le vicende degli operai all’estero e fu data grande risonanza alla “calorosa” accoglienza tedesca <50. I servizi degli inviati dalla Germania diventarono una sorta orchestrata di “lettera di emigrazione” che presentava le estese pianure coltivate, la “generosa e cordiale” gente tedesca, i comodi alloggi; attraverso interviste ai contadini friulani impiegati nelle aziende agricole vennero abilmente propagandati il buon trattamento e la costante tutela da parte dei sindacati italiani <51.
La pressione degli edili disoccupati rese necessario far riservare ai muratori e manovali friulani nel settembre del 1938 ben 1/3 del contingente italiano di operai edili <52 destinati alla costruzione dei grandi stabilimenti industriali della Volkswagen presso Fallersleben (oggi Wolfsburg) e l’acciaieria del Konzern Hermann Göering-Werke a Salzgitter, in Bassa Sassonia, non lontano da Braunschweig. Le allettanti prospettive di occupazione, i livelli salariali quasi doppi rispetto a quelli percepiti in Italia, la parificazione di trattamento con le maestranze tedesche costituirono elementi di forte attrazione, ben accettati anche perché si inserivano in un contesto di emigrazione stagionale, tradizionale prassi migratoria nella provincia <53.
Il processo di espansione economica tedesca alimentò tra il 1938 e il 1939 notevoli flussi migratori paralleli legati all’industria dei laterizi e nelle cave di pietra <54; fu probabilmente questa più tradizionale via che coinvolse inizialmente un numero di operai difficilmente quantificabile e forse superiore a quello dei “rurali” e degli “edili” sotto i riflettori della propaganda fascista. Riprese in questo modo un forte flusso di fornaciai friulani verso le fornaci tedesche ed austriache che riallacciava i tradizionali rapporti tra “le germanie” e i paesi legati a questo tipo di professione; a Buja la ripresa dell’emigrazione interessò diverse centinaia di operai, reclutati con contratti individuali da imprenditori tedeschi che si giovarono per l’occasione delle relazioni di lavoro instaurate nei decenni precedenti al primo conflitto mondiale <55.
L’emigrazione clandestina nella vicina Austria fu frequentissima; le insistenze degli imprenditori austriaci, la paura di perdere una favorevole occasione di lavoro spingevano gli operai friulani all’espatrio clandestino, prassi che li costringeva a richiedere i documenti dopo essere giunti sui luoghi di lavoro. La temporaneità stessa del lavoro nelle fornaci presupponeva altri spostamenti e contatti in ambito tedesco, tali da rendere necessario l’invio dei documenti mancanti in modo da regolarizzare l’assunzione e inviare alle famiglie in Italia le rimesse <56. Questi flussi si contraddistinsero per una marcata continuità con l’emigrazione di età liberale, non solo perché si basarono su catene migratorie di richiamo che si reggevano sui compaesani già all’estero ma anche perché continuarono a differenziarsi rispetto alle altre migrazioni in terra tedesca per l’isolamento e l’esclusività delle relazioni rispetto al mondo esterno <57.
[…] L’entusiasmo per l’impiego all’estero scemò con decisione nel corso del 1943 a causa del progressivo peggioramento della situazione in Germania e nei territori polacchi; d’altro canto i segnali di crisi tra la classe operaia migrante erano già evidenti: le lettere censurate, le opinioni degli operai rientranti alla stazione di Chiusaforte tra la fine del 1941 e il 1942 riferivano di un crescente malcontento dei lavoratori, che lamentavano di essere trattati “peggio dei nemici”, sottoposti a “patimenti per la scarsa nutrizione e persino villipesi” <72. “La vita in Germania peggiora sempre più e non se ne può più. Non si riesce neanche stare in piedi a forza di tirare la cinghia, puoi immaginarti come si può fare a lavorare. Insomma a dirti la verità ne ho abbastanza anche di Germania” scriveva da Alexisbad l’operaio Giuseppe Barzaso di Trieste nel giugno del 1941 <73. Il malumore per la scarsa alimentazione era accresciuto dal fatto che la crisi era spesso causata dalle “mangerie e le camorre” dei capicampo italiani <74. Non sorprende dunque la comparsa, difficilmente quantificabile, di casi di rottura dei contratti, di abbandono del posto di lavoro, di episodi di indisciplina, abuso di alcol, risse e disordini <75.
Non solo, dalla fine del 1941 l’impiego nel Reich divenne sempre più pericoloso, basti pensare che il numero degli operai friulani deceduti per infortuni e bombardamenti passò da 28 a 88 tra l’agosto del 1941 e la fine del 1942 <76; l’attività degli operai fu seguita quindi con una crescente apprensione da parte dei familiari che sempre più frequentemente chiesero il rimpatrio dei propri congiunti; parallelamente cominciò a divenire sensibile il numero di coloro che, una volta in Italia in licenza, non rientravano al lavoro in Germania. Come segnalavano le informazioni fiduciarie e confermano alcune testimonianze, erano soprattutto i giovani lavoratori a rimanere al lavoro in località disagiate pur di evitare di essere chiamati alle armi.
L’estendersi del conflitto sancì un impiego sempre più articolato della manodopera straniera, che risultò massicciamente inserita nell’economia tedesca, soprattutto nelle industrie metallurgiche legate alla produzione bellica e al settore estrattivo; gli operai friulani vennero diffusamente impiegati nella costruzione di impianti e di infrastrutture industriali e chimiche in Slesia, nei Sudeti, nella Ruhr, mentre i bombardamenti sulle città tedesche intensificarono il loro impiego nelle operazioni di sgombero delle macerie e per la rapida costruzione di rifugi antiaerei, installazioni difensive, strade militari in Austria meridionale (Linz, Villacco), ma anche in grandi città come Monaco, Brema e Berlino.
Brunello Mantelli ha infine messo in luce alcune labili tracce di operai friulani che, attratti dagli alti salari, nel corso del 1942 lavorarono con imprese o con l’Organizzazione Todt nelle zone di operazioni militari, spingendosi al seguito delle truppe tedesche sino in Russia, per la costruzione di infrastrutture e strade militari <77.
[…] L’armistizio italiano del settembre del 1943 chiudeva la parabola dell’emigrazione organizzata, mentre si apriva una fase drammatica che legava i lavoratori rimasti in Germania o reclutati nel “Litorale adriatico” alla drammatica agonia del Reich nazista <79. In un quadro di deciso peggioramento, le condizioni degli operai rimasti in Germania non sembrarono mutare anche se, come sottolineano alcune testimonianze, l’atteggiamento dei tedeschi nei confronti dei lavoratori italiani fu ben diverso. I “volontari” vennero costretti a rimanere in Germania a ben altre condizioni: pagati poco, malnutriti, vestiti in modo inadeguato al clima, rinchiusi in campi. Nel 1944-1945 le condizioni si erano talmente deteriorate che si moltiplicarono le fughe degli operai, contro i quali le autorità tedesche adottarono mezzi coercitivi <80. Quelli che riuscirono a rientrare nella provincia trovarono inizialmente impiego con la Todt (in Istria o in lavori difensivi locali) per poi dileguarsi e cercare altre occupazioni alternative oppure aggregarsi alle bande partigiane.
[…] L’emigrazione in terra tedesca si trasformò a lungo andare in un fattore di logoramento del consenso verso il regime fascista perché sollecitò riflessioni, paragoni e accrebbe il malumore operaio. A partire dal 1942 le difficili condizioni in patria e all’estero e lo stesso andamento del conflitto contribuirono in qualche modo a rendere più rapido il disincanto per il regime e ad accelerare nei protagonisti la scelta del rimpatrio. Non è possibile però ignorare che questa emigrazione ebbe notevoli ripercussioni di carattere economico e sociale, soprattutto nella difficile congiuntura prebellica, quando “con la Germania si riuscì a pagare i debiti”. Agendo su una popolazione operaia esausta, l’operazione propagandistico-politica nella provincia ebbe sostanzialmente successo poiché riuscì ad esaltare le peculiarità locali e a suscitare un sentimento di entusiasmo e di speranza attorno alla nuova emigrazione. Il paese tedesco nel periodo precedente al conflitto riuscì ad esercitare un forte potere di attrazione anche perché era considerato come un modello di avanguardia e di modernità. Risultano stridenti in questo senso le differenze tra la realtà operaio-contadina di partenza e quella urbano-industriale tedesca che incontrò il favore e l’ammirazione degli operai friulani ed ebbe un’importante funzione nel metterli di fronte a nuovi modelli di relazioni sociali. Nondimeno, l’esperienza di questa emigrazione, saldandosi con momenti altrettanto traumatici quali la lotta partigiana, l’occupazione nazi-cosacca o l’internamento, sollecitò nell’immediato dopoguerra una nuova consapevolezza e un maggiore protagonismo politico nella classe operaia che affrontava la ricostruzione in patria o doveva prendere nuovamente le vie dell’emigrazione.

Distribuzione di dolciumi da parte di un gerarca. Archivio Orio Frassetto. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Macchina agricola a vapore in Slesia. Archivio Bepi Grava. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

[NOTE]
1. Faremo quindi un costante riferimento ai saggi di Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”. I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992 e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. A livello locale cfr. Giancarlo Bertuzzi, La società friulana alla vigilia e durante la seconda guerra mondiale. Note su alcuni problemi economici e sociali, in Sulla crisi del regime fascista 1938-1943, a cura di Angelo Ventura, Venezia, Marsilio, 1996; Silvia Biasoni, Il regime fascista in Friuli durante gli anni Trenta: disoccupazione, nuovi flussi migratori e assistenza, “Storia contemporanea in Friuli”, XXX (2000), n.31; Alberto di Caporiacco, Manodopera friulana in Germania (1938-1941). Il lavoro come espediente politico, in Gino di Caporiacco, Storia e statistica dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia, Udine, Ente Friuli nel Mondo, 1983.
2. Gino Di Caporiacco, Storia e statistica dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia, Udine, Friuli Nuovo, 1967-1969, vol. II, pp. 33-34. L’impiego dei lavoratori friulani nella provincia di fatto era stagionale; il settore industriale era legato alle attività tessili e metallurgiche e si caratterizzava per una forte frammentazione e dimensioni spesso artigianali, tanto che il settore industriale che offriva maggiore occupazione era quello dell’edilizia. I salari in questo periodo subirono un tracollo continuo, in alcuni settori si ridussero a livelli inferiori al minimo vitale. Flavio Fabbroni, Friuli 1927-1940: organizzazione del consenso, “Storia contemporanea in Friuli”, VIII (1978), n. 9, pp.15-17.
3. Giancarlo Bertuzzi, Flavio Fabbroni, Lorena Vanello, La società contadina, in Storia regionale contemporanea. Guida alla ricerca, Udine, Grillo, 1979, pp.166-167. Cfr. anche Alma Bianchetti, Aspetti del paesaggio agrario friulano durante il periodo fascista, “Storia contemporanea in Friuli”, XV (1985), n. 17. Per le conseguenze sociali delle bonifiche e della politica agraria fascista cfr. Alessandro Leonarduzzi, Il Fascismo locale in Friuli: problemi e prospettive, in La storiografia sul Fascismo locale nell’Italia nordorientale, a cura di Luigi Ganapini, Udine, Ifsml, 1990, pp. 47-49 e Eugenia Scarzanella, L’emigrazione veneta nel periodo fascista, “Studi Storici”, 1977, n. 2, p.177.
4. Lorena Vanello, L’agricoltura friulana tra le due guerre mondiali, “Storia contemporanea in Friuli”, VIII (1978), n. 9, pp. 123-124; 137.
5. Per la disoccupazione nei vari settori e il suo andamento cfr. Giancarlo Bertuzzi, La società friulana, cit., pp. 200-201.
6. Su questo tema cfr. Eugenia Scarzanella, L’emigrazione veneta nel periodo fascista, cit., e più in generale Anna Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976. L’emigrazione negli anni ’30 si riduceva alla manodopera specializzata mentre le rimesse si contrassero considerevolmente a causa dell’alto costo della vita e della situazione di crisi internazionale; cfr. Luigi Bon, I miei cinquant’anni di banca nella vita economica del Friuli, Udine, Banca del Friuli, 1957, pp. 53-55.
7. Carl Ipsen sottolinea il sostanziale fallimento della gestione territoriale della popolazione operata dal fascismo; le migrazioni organizzate dallo stato non sembrano essere state sufficienti a correggere gli squilibri del mercato del lavoro tanto che il numero totale dei lavoratori migrati attraverso i canali statali in 10 anni fu pari a circa il 60 % della migrazione spontanea di un solo anno in quello stesso periodo; la spontaneità dei movimenti, che si verificarono nonostante le restrizioni, costituiva quindi una risposta individuale collettiva a questi stessi squilibri; Carl Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 189.
8. Olinto Lorenzon, Pietro Mattioni, L’emigrazione dal Friuli, Udine, Pellegrini, 1962, p. 60.
9. Piccoli industriali ed artigiani contrassero mutui per investimenti si videro costretti dai debiti ad abbandonare l’attività ed emigrare. Silvia Biasoni, Il regime fascista in Friuli durante gli anni Trenta, cit., p. 75, n. 79.
10. Silvia Biasoni, Il regime fascista in Friuli durante gli anni Trenta, cit., p. 75, n. 79.
11. Si registra peraltro una sorta di continuità di impiego all’estero, favorita dalle apposite clausole di ingaggio per la Germania che privilegiavano l’assegnazione dei posti ai reduci dalle colonie africane; è così che alcuni carpentieri di Osoppo, rientrati nel marzo-aprile dalle colonie africane, nel settembre del 1938 erano fra i partenti per la Germania; cfr. Archivio di Stato di Udine (d’ora in poi ASU), Fondo Prefettura (d’ora in poi F. P.), b. 25, fasc. 77, Podestà di Osoppo al Prefetto, 13 settembre 1938. A Pinzano su un elenco di 18 nuovi operai da inserire per l’invio in Germania due rientravano dall’Africa Orientale Italiana, ben quattro dalla Francia, altri due dai lavori pubblici nelle città di Milano e di Roma. Ivi, Municipio di Pinzano a Prefetto, Elenco operai non schedati, n. 2383, 15 agosto 1938.
12. Si vedano gli elenchi del comune di S.Giorgio di Nogaro, 13 agosto 1938, in ASU, F. P, b. 25, fasc. 77. Non a caso le autorità fasciste lamenteranno il progressivo ingresso tra i lavoratori diretti in Germania di individui professionalmente non idonei, falegnami, barbieri, piccoli artigiani.
13. Cfr. Archivio Comunale di Tolmezzo (d’ora in poi ACTL), b. 1683, Schedario anagrafico lavoratori e ufficio di collocamento.
14. Il podestà di Cordenons, nel presentare le “rurali” affermava che erano “ottime mungitrici” e “idonee a tutti i lavori della stalla”. ASU, F. P., b. 25, fasc. 78, Municipio di Cordenons a Prefetto di Udine. Ingaggio lavoratori agricoli in Germania, 8 febbraio 1938.
15. Tra il 1938 e il 1939 si contrassero sensibilmente le attività commerciali e produttive e si registrò una forte difficoltà di approvvigionamento di generi alimentari e delle stesse materie prime necessarie alle attività industriali ed artigianali. Cfr. ASU, F. P, b. 26, fasc.100, Consiglio provinciale delle Corporazioni di Udine, L’andamento economico del Friuli durante il mese di [dicembre 1938-novembre 1939].
16. Olinto Lorenzon-Pietro Mattioni, L’emigrazione dal Friuli, cit., p.61.
17. Per alcuni esempi cfr. ASU, F. P, b. 25, fasc.li 77-78. Per i numerosi rimpatri nella primavera del 1939 dalla Francia e sulla disoccupazione a Tolmezzo cfr. ACTL, b. 697, Cat. XI, Municipio di Tolmezzo a Prefetto, Disoccupazione muratori qualificati, n. 4409, 21 maggio 1939. Al momento di sollecitare al prefetto il reclutamento dei propri concittadini i podestà facevano a far valere la “storia migratoria” dei singoli comuni, evidenziando come gli operai conoscessero la lingua tedesca “per aver emigrato nell’anteguerra”. ASU. F.P., b. 25, fasc. 77, Municipio di Resia a Prefetto, Migrazione di lavoratori italiani dell’industria, n. 3290, 24 agosto 1938.
18. Si veda l’accorato appello del sindaco di Tolmezzo di fronte alle rimostranze dei disoccupati che chiedevano lavoro. ACTL, b.1683, Municipio di Tolmezzo a Ufficio di collocamento di Udine, Disoccupazione, Riservata, n. 4245, 4 giugno 1938. Cfr. anche ASU, F. P, b. 25, fasc.77, Confederazione friulana Lavoratori Industria al Prefetto di Udine, Lavoratori edili in Germania, 25 agosto 1938.
19. Archivio Comunale di Gemona (d’ora in poi ACG), b. 2116, Ingaggio lavoratori per la Germania, sf. 1938-1939.
20. Il Medio Friuli (8%) e la Slavia (7%) furono scarsamente interessati dai reclutamenti, così come la bassa Friulana (5 %). I dati sono desunti da 12 elenchi nominativi di operai tratti da “Il Popolo del Friuli”, in articoli comparsi tra il 22 febbraio e il 10 marzo 1942.
22. Gino Sansoni, Friuli Fascista, Udine, Federazione dei fasci di combattimento, s.d [ma 1938], pagine non numerate.
23. La festosa partenza dei rurali friulani diretti in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 15 aprile 1939.
24. L’attenzione per l’aspetto esteriore proseguì anche durante il conflitto; i lavoratori venivano infatti minacciati di mancato espatrio qualora fossero senza l’equipaggiamento prescritto e non dimostrassero un sufficiente cura per l’abbigliamento e la toletta personale. Norme ed equipaggiamento per i lavoratori dell’industria ingaggiati in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 16 marzo 1941.
30. Di Caporiacco evidenzia l’esistenza di un sentimento di simpatia nei confronti degli austriaci risalente al periodo austroungarico, mentre i tedeschi “non erano ben visti” perché “non esisteva una tradizione migratoria verso quelle terre”, affermazione poco condivisibile visti i flussi migratori stagionali prebellici; a mio avviso più forti permanevano – soprattutto nelle fasce di lavoratori più anziani – i drammatici ricordi legati al primo conflitto mondiale. Alberto di Caporiacco, Manodopera friulana in Germania, cit., p. 85.
31. ACS, MI, DGPS, DAGR, DPP 1927-1944, b. 223, Cat. Q.14, fasc. 1, Notizia fiduciaria, Udine. Partenza di operai per la Germania, 9 agosto 1940.
32. Ferie in Germania. Seicento lavoratori dell’industria partono stasera per Norimberga, “Il Popolo del Friuli”, 24 giugno 1939.
50. Per un esempio cfr. Coi rurali friulani a Ulm e Stoccarda, “Il Popolo del Friuli”, 9 aprile 1938.
51. “C’è persino la chiesa per i contadini cattolici friulani, dove possono andare a ringraziare il Signore per tutte le ottime cose che hanno trovato in Germania”. Lieto inizio di lavoro dei rurali friulani in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 10 aprile 1938. Cfr. anche Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”, cit., p.188. Sulla stampa friulana compariva anche una serie di articoli sui rurali italiani tratti da quotidiani tedeschi in modo da creare una sorta di ridondanza. Cfr. I rurali del secondo scaglione giunti in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 3 maggio 1938; Tra i nostri rurali che lavorano in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 23 luglio 1938. Perché i lavoratori italiani sono benvoluti in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 10 settembre 1938.
52. ASU, F. P., b. 25, fasc. 77, PCM, Commissariato per le migrazioni e le colonizzazione a Prefetto, Migrazione di lavoratori italiani in Germania, n. 029427, 3 agosto 1938. Alla fine delle operazioni di reclutamento, il 25 agosto del 1938, il numero degli operai dell’edilizia in partenza ammontava complessivamente a 2152 operai, ASU, F. P., b.25, fasc.77, Lavoratori edili in Germania, 25 agosto 1938. Per le modalità di ingaggio, cfr. Ivi, Circolare del Prefetto Niutta n. 4518 ai Podestà e commissari prefettizi, 25 agosto 1938.
53. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”, cit., p. 235.
54. Francesco Micelli, Emigrazione e fornaciai friulani, in Fornaci e fornaciai in Friuli a cura di Marco Buora, Tiziana Ribezzi, Udine, Civici Musei e Gallerie di Storia e Arte, 1987, p. 182.
55. Un gran numero di contratti e di richieste è rintracciabile in ACB, b. 158, Cat. XIII. I fornaciai bujesi si diressero principalmente in località come Aubing, Monaco, Leipzig, Stoccarda, Esiendorf, Eisenach, Weiblingen, Saarbrucken.
56. Per un esempio cfr. ACB, b. 158, Cat. XIII, Lettera di Agostino Vacchiano al sindaco di Buja, 25 agosto 1938.
57. È quanto emerge dalla testimonianza di Pietro Calligaro di Buja, n.1915, raccolta a S. Stefano di Buja il 25 agosto 2001.
72. ACS, MI, DGPS, DAGR, DPP 1927-1944, b. 223, Cat. Q.14, fasc. 2, Chiusaforte, 17 dicembre 1941.
73. ACS, MI, DGPS, DAGR, DPP 1927-1944, b. 223, Cat. Q.14, fasc. 1, Prefetto di Trieste a Divisione Polizia Politica, n.2398, Stralcio di lettera censurata di Barzaso Giuseppe, n.2398, 29 giugno 1941.
74. ACS, MI, DGPS, DAGR, DPP 1927-1944, b. 223, Cat. Q.14, fasc. 2, Chiusaforte, 5 novembre 1942.
75. Cfr. Assistenza agli operai in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 28 marzo 1941 e Operai segnalati per indisciplina in Germania, “Il Popolo del Friuli”, 11 giugno 1941. Diretto riflesso di questo mutamento fu la progressiva rarefazione delle notizie riguardanti gli operai sugli organi di stampa.
76. L’alto contributo di lavoro dato dal Friuli alla guerra, “Il Popolo del Friuli”, 5 agosto 1941 e La piena efficienza organizzativa dei lavoratori dell’industria, “Il Popolo del Friuli”, 13 ottobre 1942.
77. Brunello Mantelli, “Camerati del lavoro”, cit., pp. 255-256; 263; 266; 268.
79. Cfr. Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler, cit., pp. 240-253. August Waltz, Italiani e friulani al lavoro coatto nella corinzia nazionalsocialista durante il secondo conflitto mondiale, “Storia Contemporanea in Friuli”, XIX (1989), n. 20, pp. 9-44; più in generale cfr. Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), a cura di Nicola Labanca, Firenze, Le Lettere, 1992.
80. ACG, b. 2117, fasc. Rientro in Germania lavoratori in licenza. Rottura contratti 1944. Su questi aspetti cfr. Roberto Spazzali, Sotto la Todt. Affari, servizio obbligatorio del lavoro, deportazioni nella Zona d’Operazioni “Litorale Adriatico” (1943-1945), Gorizia, Editrice Goriziana, 1995.

Rurali a Schmiegrade in attesa di rimpatrio. Archivio Bepi Grava. Fotografia qui ripresa da Emigranti a passo romano, Op. cit. infra

Matteo Ermacora, Campi e cantieri di Germania. Migranti friulani nel Reich hitleriano (1938-1943) in Emigranti a passo romano. Operai dell’Alto Veneto e Friuli nella Germania hitleriana (a cura di) Marco Fincardi, Istresco -Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Cierre edizioni, 2002

Relativamente alla specificità veneta delle migrazioni italiane nel Reich, fino ad oggi non presa in considerazione in alcuno studio, rimandiamo agli altri contributi di questo volume; qui ci limiteremo a sottolineare alcuni aspetti relativi alla totalità dei migranti italiani.
I flussi migratori tra Italia e Germania si interruppero quasi del tutto dopo lo scoppio della prima guerra mondiale e ripresero solamente in conseguenza dell’accordo di emigrazione italo-tedesco del 1938. Per il più di mezzo milione di civili italiani che si trasferirono successivamente nella Germania nazionalsocialista non sussistette, di norma, continuità diretta con le esperienze migratorie precedenti.
La migrazione del lavoro italiana nel Terzo Reich ha presentato, del resto, delle caratteristiche di profonda diversità rispetto alle migrazioni in età Guglielmina. Si è trattato di un’emigrazione organizzata di operai e contadini: i lavoratori non sceglievano liberamente meta e modalità del loro migrare, ma venivano spediti in Germania in contingenti accuratamente organizzati da organismi statali predisposti. Una volta arrivati a destinazione, i lavoratori italiani erano sottoposti ad uno stretto controllo, non raramente anche di matrice poliziesca.
Le differenze rispetto alle migrazioni nella Germania Guglielmina, costituite da liberi flussi migratori per lo più nell’industria e nell’edilizia, sono evidenti. Ciò nonostante è possibile delineare alcune continuità di carattere funzionale tra le migrazioni italiane in Germania in età Guglielmina e in età nazionalsocialista. Entrambe nacquero sulla base di una forte capacità di attrazione del mercato del lavoro tedesco, a fronte di una permanente debolezza di quello italiano. Entrambe ebbero carattere temporaneo, riguardarono sostanzialmente lavoratori senza famiglia a seguito ed erano finalizzate al guadagno immediato. Anche per questi motivi si può sostenere che, nonostante le condizioni politiche ed economiche eccezionali (l’Asse Roma-Berlino, l’economia di riarmo e di guerra), la migrazione del lavoro italiana nel Terzo Reich “rientra a pieno titolo nella lunga storia dell’emigrazione dall’Italia”.
Un ulteriore tratto che accomunò l’esperienza italiana in Germania a inizio secolo e sotto Hitler, riguardò la posizione di privilegio relativo degli italiani nel contesto dei diversi gruppi nazionali stranieri.
Gli italiani ebbero la fortuna di appartenere alle nazionalità straniere meno colpite dalla discriminazione politica e razziale del regime nazionalsocialista.
Tutti i gruppi stranieri impiegati nell’economia di guerra del Terzo Reich vennero sottoposti ad un apparato di controllo repressivo e la percentuale di lavoratori trasferiti in Germania contro la propria volontà crebbe col procedere della guerra. L’esperienza dei Fremdarbeiter fu però profondamente diversa a seconda della nazionalità di appartenenza. In questo contesto fu determinante l’ideologia razzista e di dominio dell’apparato nazionalsocialista.
Roberto Sala, Migranti veneti in terra tedesca. Note storiche e storiografiche in Emigranti a passo romano… op. cit.

Il settimanale della Federazione trevigiana dei Fasci di Combattimento, “Il Piave”, dà notizia il nove aprile 1938 della partenza del primo contingente di “lavoratori della terra” per il Reich tedesco: “Giovedì sera sono partiti per la Germania 858 rurali della Marca Trevigiana tra i quali 182 donne, che si recano a lavorare in Slesia, Sassonia e Mitteldeutschland. È stata una vibrante e commovente manifestazione di entusiasmo, di fede e di disciplina, che i forti lavoratori della Terra del Piave hanno dato. Tra un tripudio di canti e sventolio di bandiere, la lunga colonna, prima della partenza si è recata nella cattedrale di Treviso dove S. E. il Vescovo mons. Mantiero ha impartito la solenne benedizione al gagliardetto recato dai 200 rurali di Conegliano. Perfettamente inquadrati, i rurali si sono recati nella casa della Gioventù Italiana del Littorio dove S. E. il Prefetto, il Federale, il Generale comandante del locale Presidio militare e le altre autorità cittadine, assieme al rappresentante del Fronte del Lavoro tedesco, hanno passato in rassegna il superbo schieramento di lavoratori. […] Il Segretario Federale, con commosse parole vibranti di fede, ha recato il saluto delle Camicie Nere della Marca, ed ha esaltato lo spirito di lavoro e disciplina che anima i lavoratori fascisti, ricordando ai rurali trevigiani l’importanza che assume l’opera che essi svolgeranno in Germania, nella stretta collaborazione di lavoro tra le due nazioni amiche che sono insorte come baluardo insormontabile in difesa della civiltà fascista contro la barbarie bolscevica. […] La colonna dei rurali trevigiani, assieme a tutte le autorità ed alle rappresentanze armate della G.I.L. si è recata a deporre una corona di alloro dinanzi alla lapide dei Caduti per la Rivoluzione ed ha sfilato militarmente rinnovando il rito di fede e l’omaggio al Monumento ai Caduti in guerra. Il rappresentante del Fronte del Lavoro tedesco ha deposto a sua volta, in Piazza dei signori e nel Piazzale della Vittoria, mazzi di fiori con i colori hitleriani”.
Questi riti si ripeteranno, invariati, per sei anni, non solo a Treviso ma in tutte le città capoluogo di provincia dalle quali partiranno, sino al 1943, gli operai della terra e quelli dell’industria per la Germania, inquadrati dai rispettivi sindacati corporativi, Confederazione Fascista Lavoratori dell’Agricoltura e Confederazione Fascista Lavoratori dell’Industria, in accordo con le autorità governative italiane e tedesche; in particolare con le associazioni corrispondenti, la Corporazione del Reich per l’alimentazione e il Fronte tedesco del Lavoro.
La provincia di Treviso sarà una di quelle che darà il maggior numero di emigranti, sia contadini che operai; per lo più muratori, carpentieri e manovali da impiegare nell’edilizia.
Caratteristica fondamentale di questo nuovo tipo di emigrazione è la sua militarizzazione, con il conseguente annullamento della personalità dei singoli lavoratori e della loro soggettività. Costoro devono infatti indossare una divisa (sahariana e berretto azzurro scuro, pantaloni o gonna verde per i rurali, completo blu per i “lavoratori dell’industria”; all’occhiello della sahariana il distintivo del sindacato). Sono inoltre guidati da capisquadra, o capicenturia, appositamente addestrati e da un interprete ufficiale.
Anche le cerimonie che precedono la partenza (omaggio al monumento ai Caduti della Grande Guerra e ai “martiri” fascisti), rigorosamente regolamentate da Roma, contribuiscono a creare un carattere marziale attorno a quelli che vengono chiamati “militi del lavoro”. I lavoratori sono in tal modo ridotti a semplici oggetti, utili alle “autorità”, sia civili che religiose, per esibire il loro potere e i “valori” che vogliono propagandare.
Non troveremo infatti riportate in nessun articolo della stampa locale le motivazioni, le impressioni e i giudizi degli emigranti su questa loro esperienza, e questo sia nei giornali “laici”, come “Il Piave” e “Il Gazzettino”, sia in quelli religiosi, come i settimanali delle diocesi di Treviso e Vittorio Veneto, “La Vita del Popolo” e “L’Azione”.
Vi sarà solo la rappresentazione che essi vogliono dare di questi emigranti, secondo le finalità e gli scopi che il fascismo e la chiesa si prefiggono nelle varie fasi di quei sei lunghi anni.
Nel 1938 partono dalla provincia di Treviso complessivamente 1.500 “lavoratori della terra”, di cui 198 donne, per lo più stagionali, che nel 1939 diventano 2.500. Rimangono in Germania per il periodo dei lavori agricoli, dalla primavera sino all’autunno inoltrato. Vengono utilizzati principalmente nelle aziende della Slesia, ai confini con la Polonia, attorno a Breslavia, destinata nel 1945 a diventare polacca.
Nel 1940 la Germania, ormai in guerra, ha un grande bisogno di manodopera, in marzo fa quindi pressione sull’“alleato italiano”, ancora neutrale, perché venga aumentato il contingente di rurali da inviare nel Reich.
Luigi Urettini, Gli emigranti trevigiani in Germania (1938-1943) nella stampa locale. Lo stereotipo del lavoratore veneto docile e laborioso in Emigranti a passo romano… op. cit.