In quell’inizio di 1944 le bande “Autonome” di val Pesio e val Casotto furono tra le prime a stabilire contatti con gli Alleati

Mondovì (CN): ingresso alla Funicolare. Fonte: Mapio.net

Sono qui raccolti gli articoli apparsi sul nostro settimanale fra il marzo e il maggio 2005 in occasione del 60º anniversario della Liberazione. Sono ripercorsi in sintesi i fatti accaduti fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 in Mondovì e nel Monregalese: in una zona cioè dove la resistenza all’occupazione nazifascista e il coinvolgimento delle popolazioni furono particolarmente significativi, qualunque cosa ne dicano oggi i “negazionisti” ad oltranza. Pur correndo il rischio dell’incompletezza e senza presumere di competere con la profondità dei numerosi libri scritti sull’argomento, si confida che queste pagine possano tornare utili ad un ripasso e ad un inquadramento di avvenimenti lontani: a cominciare da quelli che, dalla nostra periferia, hanno contribuito a fondare le condizioni di libertà e democrazia in cui ci muoviamo. Una libertà, una democrazia sempre perfettibili, ma da non compromettere con smemoratezze o con avventate prese di distanza e con stravolgimenti della Costituzione.
Oltre che di immagini e di testi immediatamente evocativi, ci si è serviti di vari libri, studi e testimonianze; in particolare di “La guerra in casa” di Albino Morandini (Il Belvedere, 1985), di “Mondovì in guerra e in pace”, di Morandini – Billò (CEM, 2000), alla cui vasta bibliografia si rimanda; e del cd e dvd “Pro-memoria” a cura di Carlo Regis e Paolo Gregorio, che contiene, a corredo dei manifesti d’epoca, una dettagliata cronologia.
[…] La voce che una colonna tedesca stava giungendo da Ceva seminò il panico alla fiera del Santuario. Anche dal campo d’aviazione in Borgo Aragno ci fu un fuggi fuggi. Materiali dell’aeroporto vennero occultati in cascine tra Piozzo e Carrù. A sera la gente svuotava i magazzini militari. La cassa della IV Armata, custodita dall’Intendente gen. Operti, subiva vicende rocambolesche. Faceva gola a troppi. Ad Ormea il 10 settembre 1943 alcune centinaia di nostri soldati tentarono di sbarrare la strada ai nazisti in due ore di scontro cruento; e fu uno degli episodi più generosi e rimarchevoli.
Tornati liberi per qualche giorno, i quotidiani mandavano incitamenti ad una resistenza ardua da organizzare. “Come sul Piave – scrivevano –, oggi ha inizio la vera lotta della libertà contro i fascisti di dentro e di fuori”.
Il torrente di sbandati continuava a dilagare. A Mondovì (CN) la stazione ferroviaria all’Altipiano era un porto di mare. La Cittadella e la caserma di Carassone si svuotavano degli ultimi soldati; il Genio di S. Anna e il Campo d’aviazione continuavano a svuotarsi di materiali. Nel Distretto di Piazza, ad aspettare i tedeschi, restava un solo graduato, tirato a sorte. E i tedeschi giunsero da Fossano e Trinità l’11 settembre. Un pugno d’uomini con qualche autoblindo occupò i punti nevralgici delle città, della provincia. Tra i primi loro provvedimenti a Mondovì, la sostituzione del commissario prefettizio: non più l’avv. Stefano Garelli, ma il 73enne Annibale Monferino, fascista della prim’ora e ligio alle nuove autorità: nazisti e fascisti “repubblicani”.
Il 12 settembre paracadutisti tedeschi liberarono infatti Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso e lo portarono a Monaco da Hitler, per porre le basi della Repubblica Sociale di Salò e per un esercito di appoggio a quello nazista.
In quello stesso giorno si riuniva a Mondovì un gruppetto d’antifascisti: Giovanni e Piero Garelli, vicini al Partito d’Azione, il giudice Martelli, antifascista da sempre, l’avv. Egidio Fazio, l’ing. Giuseppe Fulcheri, liberali. Ottennero la pronta adesione di esponenti dei partiti popolare e comunista, e quella di Primo Silvestrini, industriale ceramico di spiriti socialisti. Prese così vita un gruppo interpartitico secondo le indicazioni di un Comitato di Liberazione Nazionale che da Roma aveva lanciato un appello alla lotta e alla resistenza. Si formò pure un CLN piemontese, che inviò poi l’avv. Guido Verzone ad incontrare i monregalesi, come pure Duccio Galimberti, il carrucese gen. Perotti, il col. Ghiglia.
Il mondo cattolico non restò a guardare. Specie don Beppe Bruno, curato a Mondovì Borgato, uomo di chiesa e d’azione, seppe trasmettere slanci. Con un gruppo di “Azione e Ordine” e di fedelissimi parrocchiani stabilì contatti e fornì aiuti. Anche di questi fermenti si giovarono i primi nuclei di ribelli in città e in montagna. Poca cosa, all’inizio: reduci da vari fronti, anche dalla Russia; soldati di regioni lontane legati al giuramento al re, abituati ad un residuo d’organizzazione militare condito con parecchio spontaneismo; antifascisti da sempre o da ieri, studenti e operai renitenti ai bandi con cui la repubblica di Salò cominciò a chiamare minacciosamente alle armi a fianco dei nazisti. Le nostre valli dal Tanaro al Pesio, le Langhe, le pianure furono tra le prime a veder crescere la ribellione al nord. Si raccolsero sbandati, si formarono gruppi, si trafugarono armi, si tentarono i primi colpi. E da Cuneo le SS del gen. Peiper reagirono fin da subito con implacabile ferocia. Per indurre i ribelli di Ezio Aceto e Ignazio Vian, nascosti nella zona della Bisalta, a costituirsi, i tedeschi minacciarono rappresaglie a Peveragno e Chiusa, prelevarono ostaggi, poi – il 19 settembre – reagirono a un colpo di mano col massacro e l’incendio di Boves: 23 civili uccisi, centinaia di case arse. Un terribile avvertimento alle popolazioni: i civili avrebbero pagato ovunque per le azioni dei ribelli. I bagliori dell’incendio di Boves sollevarono orrore, smarrimento e molte discussioni, nella consapevolezza che, pur mettendocela tutta, non era facile conciliare prudenza e guerriglia.
Intanto calavano i primi freddi, e i gruppi di “ribelli” avevano esigenze logistiche e di rifornimento. Sul finire di settembre i nuclei di val Casotto crebbero in consistenza e attuarono i primi gagliardi colpi di mano per rifornirsi d’armi ai depositi del Genio e nelle caserme. Folco Lulli, Colantuoni, Italo Cordero, Paolo Rossi (Ceschi) erano lassù le figure emergenti. Agivano in accordo col gen. Perotti e col sostegno d’industriali e di preti della zona. Ma affiorarono presto disaccordi tra i fedeli al re, come Ceschi, e i “civili” più politicizzati, come Lulli, tanto che un nucleo di questi ultimi si trasferì al rifugio Navonera. Diversità di vedute, di mentalità, di esperienze esistevano pure con altre bande, tuttavia si tennero vari incontri di coordinamento, pur in un quadro d’autonomia operativa. Al gen. Operti si chiese di intervenire con la cassa della IV Armata e il CLN lo si nominò Comandante Militare. Ma egli si fidava poco della eterogeneità delle bande e dei partiti. Versò al CLN piemontese solo una parte del “tesoro” chiedendo che servisse al “finanziamento del movimento armato e a null’altro”; e dopo venti giorni il CLN preferì affidarsi al gen. Perotti per la guida militare del movimento partigiano.
[…] Il 27 dicembre ‘43 un colpo di mano studiato da Cosa, Dunchi e Aceto all’Aeroporto di Borgo Aragno in cerca di benzina fece tra i tedeschi cinque prigionieri e tre vittime sul ponte del Pesio, e scatenò l’ira nazista su Alma, Pradeboni e Bisalta, dov’erano gli uomini di Vian. Le rappresaglie continuarono a vasto raggio: il 9 gennaio a Trinità, con spari tra la gente uscita da messa grande (3 morti, 11 feriti), il giorno dopo a Peveragno sulla gente al mercato (una trentina gli uccisi, molti i feriti). In val Pesio, dopo l’uccisione di un anziano, la banda Cosa per evitare guai alla gente si ritirò sulla costa della Bisalta. Ed a Pradeboni s’incontrarono i capi della lotta dura ed amara: Cosa, Galimberti, Verzone, Testori, Vian, Dunchi, Aceto…
Il 14 gennaio ‘44, nuovi orrori al Pellone di Miroglio: undici vittime tra ribelli e montanari sorpresi da un tiro implacabile; e in fiamme la borgata dei Bergamini, dove da pochi giorni si era insediato Martini Mauri, deciso a entrare più nel vivo della lotta ma costretto a salire al Prel. Don Beppe Bruno, che si adoperò a seppellire i morti del Pellone e a far ricoverare di nascosto i feriti, fu denunciato da una spia e riuscì a salvarsi appena in tempo dall’arresto. Manifesti affissi ovunque presentarono quegli eccidi come avvertimento a consegnare tutte le armi e a non collaborare coi ribelli.
In quell’inizio di 1944 le bande “Autonome” di val Pesio e val Casotto furono tra le prime a stabilire contatti con gli Alleati e ad ottenere aviolanci di armi e materiali, e poi anche l’invio di missioni di collegamento, non senza suscitare invidie nelle bande più politicizzate.
Intanto altri duri bandi firmati “Graziani” richiamavano le classi 1921-22 e il primo semestre 1926 nell’esercito repubblicano di Salò; e provocavano un esodo di giovani verso i monti, specie in val Casotto, dove si era impreparati a ospitare e utilizzare quell’afflusso. In Cittadella a Piazza giungeva un centinaio di SS italiane: erano nostri soldati già internati in Germania che avevano finito per piegare il capo pronti ad eclissarsi appena possibile. L’audace Reno Sciolla, capo della Volante di Casotto, nel tentativo di farne fuggire una settantina, ci lasciò la vita presso la Cittadella, la notte del 18 gennaio.
Il giorno dopo un terzo di ribelli della val Casotto, secondo accordi non privi di ambiguità, scese in divisa da alpino e con mostrine tricolori a occuparsi di servizi d’ordine tra Fossano e Mondovì, con lo scopo inconfessato di agevolare prelievi di materiali nelle caserme da parte degli amici partigiani e di dirottare in montagna reclute appena giunte al Distretto. Un doppio gioco rischioso, che lasciava perplesso più d’uno. Tra i perplessi, il maggiore Martini Mauri che, dopo la vita mortificata in val Maudagna, aveva raggiunto – con Lulli a altri trentatré – la val Casotto. Lì, accolto con freddezza da Ceschi, non tardò ad assumere, per le sue doti e la sua esperienza, il comando della valle.
E non appena Mauri ebbe in pugno la situazione, Mauri inviò Lulli e Gaglietto a richiamare in valle la squadra scesa “per servizio” a Mondovì (quella di Fossano aveva insospettito i tedeschi e ne aveva ricavato arresti e deportazioni). Dopo di ciò, Mauri, dal comando situato nel Castello-certosa, rivide tutta l’organizzazione della banda e stese, sul modello militare, un piano organico che teorizzava una lotta mobile, d’attacco, con solide basi in valle. Il rude attore toscano Folco Lulli fu innalzato a capo di Stato Maggiore, e Mario Bogliolo ebbe l’incarico di addestrare i nuovi venuti.
Il CLN insisteva perché tutte la valli si tenessero tatticamente collegate: Vian tra Corsaglia e Maudagna, Domenico Franco in val Ellero, Cosa in val Pesio, Mauri a Casotto. In un incontro a Valloriate, Dante Livio Bianco aveva anche proposto per le bande un più deciso impegno politico a cominciare dal ripudio della monarchia; ma aveva raccolto scarse adesioni, specie dai capi di estrazione militare. C’era stato accordo almeno sulla necessità di aviolanci anche per le Formazioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Attive e vigili, le bande di val Pesio e val Ellero scendevano ora a sabotare ponti e ferrovie. E a fine febbraio accoglievano in val Pesio anche il gruppetto di Dino Giacosa e Aldo Sacchetti staccatosi dalle Formazioni GL per disparità di vedute sull’immediato. Tra Cosa e Giacosa, già confinato dai fascisti a Ventotene, l’intesa fu immediata: prioritaria la lotta agli occupanti e prematura l’adesione a partiti.
In marzo ci fu una nuova ondata di rastrellamenti, con scontri in val Tanaro e alla colla di Casotto e con rappresaglie, incendi, uccisioni di civili, di cui ben sette a Viozene. In val Mongia i partigiani resistettero tre ore all’attacco, poi ripiegarono verso Viola e il Mindino, filtrando in seguito tra le maglie tedesche sui fianchi della valle. Dalla val Corsaglia gli uomini di Vian dovettero screstare in val Ellero e in val Pesio, mentre la mitraglia di Gino Antoniol difendeva fino alla morte un passaggio importante poco prima di Bossea.
La notte di quel 13 marzo i tedeschi e un battaglione d’italiani aggredirono in forze la val Casotto. Ad attenderli erano appostati 400 partigiani armati e circa 500 nuovi arrivati carenti d’armi e d’esperienza. Mauri impostò una difesa da manuale che in quell’ambiente non funzionò. I guastatori che dovevano far saltare ponti e collegamenti vennero catturati e fucilati prima di poter agire; e gli assalitori raggiunsero Roburent sparando, incendiando, saccheggiando, mentre i partigiani si portavano nella più isolata borgata di Tagliante. Il giorno dopo i tedeschi erano a Serra Pamparato; a sera Mauri dovette lasciar liberi di sbandarsi nel buio i suoi ragazzi disarmati, ma dispose azioni di contrasto da parte degli uomini di Cordero, Bogliolo, Ardù. A notte i primi tedeschi erano a Casotto, mentre un’altra loro colonna saliva da Garessio. Si lottò a lungo sotto i colpi delle artiglierie tedesche che battevano le dorsali dei monti e sotto la minaccia di accerchiamento dalle valli vicine. Vista l’impossibilità di resistere più a lungo, Mauri ordinò la ritirata verso l’Antoroto con la copertura del gruppo del “Baraccone”. Un ripiegamento affannoso nella neve e nel buio, tra lontani bagliori di borgate in fiamme: Tagliante, Casotto, il Castello.
Sessanta risultarono i partigiani caduti in val Casotto, oltre alle vittime civili; un centosessanta i catturati. Alcune decine i morti tedeschi e fascisti. “Impossibile in montagna per una banda assumere uno schieramento statico come per una guerra di posizione” rifletté poi Mauri. E gravido di conseguenze il battersi senza avere alle spalle una via di ritirata.
Se quei rastrellamenti nelle valli non spazzarono del tutto i ribelli, li costrinsero però a sbandarsi, mentre le voci di fucilazioni e di deportazioni acuivano lo scoramento. La Gestapo e la Polizia di Salò tallonavano ovunque i sostenitori della Resistenza servendosi di spie. A fine marzo rastrellarono anche i rioni di Mondovì, e in Piandellavalle prelevarono Vincenzo Ghiglia e Tullio Boetti, reclutatori di partigiani. Si salvarono fortunosamente dal camion precipitato in Ermena.
La Resistenza conosceva momenti duri anche nel resto del Piemonte, per l’arresto a Torino di Verzone e dei membri del CLN regionale, condannati a morte o all’ergastolo. Tra gli otto fucilati il 25 aprile ‘44 al poligono del Martinetto, il gen. Perotti, che era stato fra gli iniziatori della lotta nel Monregalese.
Il disagio, la paura, la fame si facevano assillanti anche se da noi non si giunse a scioperi come a Torino e in val Tanaro. In città la borsa nera faceva cinici affari; gli sfollati erano saliti a 2.500. Si costituì una sezione del Partito Fascista Repubblicano e un Gruppo Femminile; ma i bandi per il reclutamento nell’esercito di Salò continuavano a raccogliere poche adesioni, e un rapporto riservato della GNR dovette ammettere che “una buona percentuale di giovani ha preferito unirsi ai ribelli”.
A fine marzo, la Gestapo aveva lasciato la zona; allora Pavolini inviò in provincia militi della “Muti” in appoggio a nuovi estesi rastrellamenti. Così la Pasqua del ‘44 portò tre giorni d’inferno agli uomini di Cosa in val Pesio. Ed essi, ricevuti nuovi aviolanci, si prepararono ad affrontare l’attacco con dura disciplina e tattica avveduta. Cominciarono col sabotare ponti e strade, e si appostarono sulle rocce a guardia dell’imbuto di Pian delle Gorre. Il venerdì santo, 7 aprile, giunsero i primi assalitori, seguìti il sabato da carri armati e autoblindo. Forse duemila uomini, pronti all’attacco, preceduti da pattuglie che rastrellavano borghi e cascine sui fianchi della valle. Ad attenderli, centosettanta partigiani ben armati, collegati con radio, pronti a una battaglia difensiva. Più volte gli assalti nella nebbia furono respinti, e la valanga che ostruiva l’ingresso alle Gorre fece la sua parte. Arginati anche tentativi di aggiramento alle spalle, da Limone e dal Vaccarile. A sera, diradatasi la nebbia, da Certosa salirono i carri armati. Ma l’attacco decisivo fu la domenica di Pasqua, con l’appoggio di due aerei “cicogna”. Le postazioni partigiane si difesero a oltranza; poi alle 17 l’ordine inevitabile di Cosa: ripiegare. Tra raffiche e boati nelle abetaie (saltavano il casotto delle Gorre e il rifugio del Creus), i protagonisti dell’impari ma esemplare battaglia salivano verso la ripida Porta Sestrera sprofondando nella neve. All’alba scendevano su Carnino e Upega. Diciotto di loro erano rimasti a chiazzare di sangue la neve della val Pesio. Assai di più furono i caduti tedeschi, e terribile la rabbia dei loro camerati. Furono 120 i civili arrestati, compresi tre padri della Certosa. Poi il 18 aprile, in nuovi rastrellamenti agli sbocchi verso la pianura, altri quattro civili restarono uccisi e 36 arrestati.
Arresti e deportazioni
Dopo le valli, toccò alla città. La sera del 28 aprile ‘44 i “repubblichini” uccisero presso il Cristo due partigiani e ne esposero i cadaveri in piazza del mercato. Quella stessa notte una trentina di antifascisti più o meno noti, di varie tendenze, cadde in una grande retata. Tra di loro, Piero Garelli, Guido Calleri, Eugenio Jemina. Furono chiusi in Cittadella accanto a numerosi partigiani e renitenti ai bandi: 150 in tutto, compresa una cinquantina di giovani carassonesi. Si mossero allora il vescovo Briacca, il commissario Monferino, il direttore della Richard, Pollastri; e parecchi dei fermati furono rilasciati. Per gli altri, interrogatori, lusinghe e durezze. Il mattino dell’ 8 maggio una ventina di loro fu tradotta a Torino. Calleri, Garelli, Jemina, con Vincenzo Bellino, già partigiano in val Casotto, passarono dalle celle delle “Nuove” ai reticolati di Fossoli. E lì Bellino e Jemina furono condotti alla fucilazione con altri settanta. Ma Jemina, che già una volta aveva tentato la fuga, la ritentò con una corsa pazza che spiazzò il plotone. Per gli altri di Fossoli, ai primi d’agosto fu inevitabile la deportazione al lager di Gusen.
Per vie diverse molti altri monregalesi erano intanto finiti in Germania: soldati internati, ebrei, politici e favoreggiatori della resistenza. Anche la maestrina Lidia Beccaria, arrestata in marzo in val Varaita come collaboratrice dei partigiani, era dal 30 giugno nel terribile campo femminile di lavoro e sterminio di Ravensbruck.
Mauri si apposta nelle Langhe
Il comandante Mauri, dopo la battaglia di Casotto, aveva raggiunto già in marzo le Langhe e si era appostato coi suoi tra Igliano e Marsaglia. Contattò gli Alleati per nuovi aviolanci, e a Dogliani si abboccò con Vian che si dava da fare tra Bra e Alba. Le colline langhesi, fino ad allora tenute ai margini perché troppo vulnerabili, conobbero allora una forte pressione nazifascista. Il 1º aprile un’autocolonna salì a Surie dove arrestò il parroco, poi a Murazzano dove ci fu uno scontro con feriti, seguito da una rappresaglia con incendio di case e arresto di 14 civili. In risposta, i partigiani attuarono sabotaggi e assalti a camion e treni; ma il 13 maggio Mauri e i suoi si trovarono circondati a Igliano da reparti della “Muti”; e solo dopo una disperata reazione riuscirono a ricacciarli. Il mese dopo, Mauri coadiuvato da Bogliolo dispose azioni e sabotaggi a vasto raggio da Magliano a Lesegno, da Ceva a Nava. A Igliano vigilava Pippo Rizza, a Roccacigliè Italo Cordero; sulla Pedaggera l’estroso Gildo Milano; da Castellino dominava l’ardimentoso Renzo Cesale. E specie Castellino fu più volte assalito, bombardato, incendiato. Proprio nei giorni di fine giugno si presentò a Mauri, a Cigliè, un vivace quindicenne di Carrù. Si chiamava Gimmy, ed era figlio del col. Giuseppe Curreno di S. Maddalena che allora capeggiava la lotta in val d’Ossola. “Non è posto per bambini, questo”, gli disse Mauri intenerito. E lui insistette: non poteva tornare a Carrù dov’era ricercato. Fu assegnato al comando come dattilografo, ma non vedeva l’ora di gettarsi nel gioco della guerra. Un’avventura infine fatale. Sorpreso a Magliano con una Volante, sarà fucilato il 30 marzo ‘45 dai “repubblicani” in riva allo Stura.
Paura e ristrettezze
Fu un’estate movimentata e violenta, quella del ‘44, con un susseguirsi d’azioni clamorose e di rappresaglie, di paure e di crescenti difficoltà negli approvvigionamenti.
A Mondovì il commissario prefettizio Annibale Monferino insistette con un probo cittadino, Michelangelo Pellegrino, scultore ed esperto di problemi amministrativi, per averlo come suo vice. Pellegrino accettò infine per tentare d’alleviare qualcuno dei problemi contingenti insieme ad un comitato di volenterosi e ad un altro comitato nato su impulso del geometra Silvio Manfredi, per offrire una mensa ad anziani e operai. Pure l’Eca, la “San Vincenzo”, le Dame di Carità si adoperarono fra mille ristrettezze ad aiutare i più bisognosi a sopravvivere. Intanto, dopo lo choc degli arresti e delle deportazioni, piccoli nuclei di partiti democratici si radunavano nella clandestinità fra cautele e pericoli.
Paesi in fiamme
La notte del 4 luglio saltarono i ponti di Farigliano e Clavesana, e l’audace Lulù, con un pugno d’Autonomi e di Garibaldini, liberò dal carcere di Fossano un centinaio di detenuti. Immediata si scatenò la spedizione punitiva con una colonna che tentò di salire a Murazzano, ma a Belvedere incappò in un fuoco di sbarramento e fu costretta a ripiegare. Allora la rabbia dei tedeschi si sfogò su Piozzo e Farigliano con incendi di case, l’uccisione di due civili e la cattura di 224 ostaggi. Poi toccò a Carrù, dove gli ostaggi furono una trentina, e i partigiani morti in un agguato addirittura sette: tre dei Carleveri e quattro di Breolungi. Il 6 luglio, nuovo attacco in Langa sia da Carrù sia dalla Pedaggera, con tiro concentrato su Roccaciglié, di dove Italo Cordero e i suoi dovettero fuggire prima verso il Tanaro poi in val Casotto e, di lì, in Liguria (Cordero non aveva mai nascosto le sue perplessità sulla scelta delle colline langhesi come teatro della guerriglia). Via Cordero, il Distaccamento passò agli ordini di Lello Monaco.
L’11 – 12 luglio, dopo l’attacco a una camionetta a Sant’Albano, una colonna tedesca incendiò una cinquantina di case; prelevò ostaggi e li minacciò di morte, e solo le suppliche dell’anziano don Bertino e del vescovo Briacca evitarono in extremis una strage. Ma il 21 luglio toccò a Trinità essere rastrellata, bombardata e, due giorni dopo, saccheggiata ed arsa da un incendio che danneggiò 96 case.
A fine luglio ‘44 Verzone – scarcerato grazie ad uno scambio di prigionieri –saliva a Ciglié; e Mauri, in contatto con Cosa e gruppi di Mango e della val Belbo, perfezionava l’organico di divisioni e brigate del 1° settore Monregalese. Sotto il suo comando nasceva il 1° Gruppo Divisioni Alpine forte di 4.500 partigiani, 3.500 dei quali nel Monregalese.
Assalto all’Aeroporto
Sempre in quel mese ci fu un nuovo assalto all’Aeroporto di Mondovì, custodito da tedeschi e da una settantina d’avieri repubblicani, stanchi dei nazisti e della guerra. La trentina di partigiani del tenente Ippolito contava sull’effetto sorpresa che però funzionò solo in parte. All’interno dell’Aeroporto si scatenò infatti nel buio un inferno di spari. Comunque circa quaranta avieri furono “liberati”; gli altri restarono al Campo. Nessuno dei “parabellum” che facevano gola agli assalitori poté essere trafugato. Due le vittime di quell’avventura fra i partigiani; due o più fra i tedeschi. Venti giorni dopo quell’Aeroporto militare modello saltava in aria per mano tedesca.
“Banditi” da debellare
Nell’estate 1944 le bande partigiane, rimpolpate di nuovi venuti, sembravano controllare le valli e tenere sotto tiro la città e la pianura; sicché i nazifascisti erano decisi a tutto pur di “debellare il banditismo”, ristabilire i presidii nei paesi, l’ordine pubblico, la sicurezza sulle strade. A tale scopo, in appoggio alla Guardia Repubblicana, furono costituite le Brigate Nere; ma lo sparuto squadrismo cuneese riuscì a mettere insieme, per la Brigata Lidònnici, solo 146 uomini sui 250 previsti. Per la lotta anti-partigiana in provincia dovettero giungere di fuori le Divisioni San Marco e Monte Rosa, oltre a reparti dei Cacciatori degli Appennini. Nel timore ricorrente di uno sbarco alleato in Liguria, giunse poi anche nell’entroterra la 34ª Divisione tedesca del gen. Lieb, reduce dalla Russia. Attaccata da partigiani di vari gruppi mentre risaliva la val Tanaro, la 34ª di Lieb si vendicò specie su Pievetta (18 civili e 55 case bruciate) e su Garessio (200 ostaggi, di cui 5 fucilati e 50 avviati in Germania con altri 43 di Bagnasco, Priola e Nucetto, che in parte riuscirono a fuggire).
Bombe su treni, tram e paesi
Nel pomeriggio del 31 luglio un aereo bombardò e mitragliò Dogliani all’impazzata provocando 26 morti, molti feriti e danni a diciotto case. Fu forse la rappresaglia privata di un pilota fascista, si disse. Di marca alleata furono invece le bombe che la sera del 3 agosto fecero sette morti a Lesegno e quelle che il 10 agosto colpirono il ponte ferroviario sullo Stura fra Trinità a Fossano. Bombe caddero pure a Crava e altrove. Il ponte ferroviario di Lesegno fu fatto saltare alle due estremità dai partigiani; e nel suo bel mezzo rimasero tre vagoni, più volte bersagliati dagli aerei. Anche i tram furono spesso presi di mira: sette i morti agli Sciolli su quello del Santuario il 14 agosto; altre vittime il 5 settembre al Beila, sul tram di Villanova. Azioni dure, cruente, inspiegabili ai più in quella impietosa guerriglia che colpiva indiscriminatamente, creando difficoltà non soltanto ai nazifascisti.
Dogliani visse altri momenti tragici ai primi d’agosto, quando una colonna tedesca, raggiunta da spari di partigiani “garibaldini”, uccise sette civili e incendiò 28 case. Allora s’offrirono coraggiosamente come ostaggi il parroco don Delpodio e il generale Martinengo. Un’altra colonna che muoveva da Carrù verso Clavesana fu ostacolata al ponte del Cotonificio, ma riuscì a raggiungere Murazzano e costrinse quei partigiani a ripiegare nei paesi vicini. Cinque le vittime civili e una fra i partigiani.
Mauri: una cattura e una fuga rocambolesca
Proprio il mattino del 1° agosto il comandante Mauri veniva catturato dai tedeschi al bivio tra Ciglié e Clavesana. Portato a Bra e poi a Cuneo, dopo tre giorni riuscì a guizzare via dall’auto che lo stava spostando a Torino e a rifugiarsi prima a Bastia presso il prof. Luigi Berra, collaboratore della Resistenza, e poi a Ciglié. Una fuga rocambolesca che destò varie illazioni e scompaginò certe manovre premature per la successione. In realtà, come ha provato ora lo storico Carlo Gentile, c’era stato un accordo col cap. Wiessner. Un registro delle SS annotò infatti: “Wiessner è a Cuneo per trattative. Mauri ritorna presso le sue Formazioni partigiane. Accordo: niente attacchi contro la Wermacht; informazioni sui gruppi comunisti; rastrellamento e presidio”, ma aggiunse anche: “Prima i comunisti, e poi Mauri”. Un’intesa stipulata da entrambi i contraenti con una riserva mentale. Un piano di cui Mauri doveva essere al tempo stesso strumento e vittima. Comunque, riacquistata la libertà, Mauri riprese la lotta e alla prova dei fatti fu lui a giocare i tedeschi, e non viceversa.
Una volta in Langa, Mauri non tardò a riavere in pugno la situazione. Già il 6 agosto accolse la Missione paracadutata del maggiore inglese “Temple” (che si spostò poi al Pino di Baracco e sulla Tura, dove avvennero numerosi aviolanci di materiali raccolti e smistati dal distaccamento di Beppe Milano, un tenente fariglianese esperto e volitivo, reduce di Russia e allora capo di un gruppo di bravi ragazzi di Mondovì e dintorni, fra i quali saliva spesso don Beppe Bruno).
Una pista d’atterraggio e decollo per altre missioni alleate e per l’invio di feriti in ospedali in zone dell’Italia già liberata fu realizzata nel cuore della Langa, a Vesime. Dalla val Ellero partirono, a fine settembre, il professore villanovese Giovanni Bessone e l’avv. Augusto Astengo per riferire, dopo un viaggio molto avventuroso, al Governo legittimo la situazione del sud Piemonte.Trovarono parecchie diffidenze; ma Bessone riuscì a infilarci, di suo, un sollecito al principe Umberto perché si trasferisse al Nord.
Colpi di mano e di testa
La breve cattura di Mauri aveva, tra l’altro, evidenziato l’opportunità di disporre di prigionieri di spicco per eventuali scambi, e le Volanti si scatenarono per procurarsene. Così la III Divisione Alpi mise gli occhi su due toscani esponenti del Fascio repubblicano a Mondovì: l’ing. Andrea Nicoli, direttore della PCE, e Osvaldo Pollastri, direttore della Richard Ginori di Carassone. Ma quest’ultimo restò ucciso nel tentativo maldestro dei catturatori, e l’altro, avvisato in tempo, reagì e li mise in fuga. Di qui la vendetta del Comando tedesco con la fucilazione, la domenica mattina 6 agosto in piazza Maggiore, del capitano genovese Cesare Jemini e del manovale trinitese Giuseppe Curti, catturati due settimane prima a Fontane. Orrore e pietà sulla piazza tra la gente che usciva da Messa grande. Ma la lotta non poteva concedersi soste: nei suoi ritmi impietosi, comportò anzi un’intensificazione di imboscate, sabotaggi e ritorsioni un po’ ovunque. Il 18 agosto a Carrù Gildo Milano fece fuori tre ufficiali tedeschi, e il paese fu minacciato d’incendio, ma fu salvato in extremis dall’intervento del piozzese Arduino. Pochi giorni dopo, Castellino fu di nuovo assalito in due riprese, e la Brigata di Cesale dovette arretrare fino a Ciglié, mentre da Castellino, Igliano, Torresina salivano bagliori di incendi e spari sui civili.
Anche quelli della III Divisione Alpi furono attaccati, ma non cessarono le azioni e le puntate delle Volanti: a Beinette, Pianfei, Peveragno, ai Gandolfi di Monastero Vasco, alla galleria del Santuario. E in una val Casotto ancora spaurita e diffidente dopo la cruenta battaglia di marzo, si fece sentire la IV Divisione di Aceto, Vanni e Gaglietto; e così in val Mongia e in val Tanaro, su a Viozene.
Ai primi di settembre 1944 reparti della 34ª Divisione tedesca si stabilirono coi loro carri armati anche nel Monregalese, e centinaia di Cacciatori degli Appennini; si stanziarono in Cittadella col tenente Chiti e nel castello di Carrù col tenente Rizzo, mentre altri altri presidi vigilavano da Garessio, Magliano, S. Albano, Dogliani. Il comandante in capo dei “Cacciatori”, il ligure colonnello Aurelio Languasco, era invece a Ceva nel castello dei Pallavicini […]
Redazione, Mondovì e il Monregalese in lotta per la libertà, Unione Monregalese, 21 aprile 2015