


Nella partecipazione emotiva e ideale degli italiani alla lotta indipendentista algerina emerge con evidenza il fattore interpretativo che, come accennato, rimandava all’esperienza della Resistenza. La brutale repressione francese, e l’uso indiscriminato della tortura infatti portarono alla memoria, sia dei francesi che degli italiani, la passata occupazione nazista i suoi metodi repressivi inumani. La lotta indipendentista algerina assumeva in questo modo agli occhi di molti italiani i tratti familiari della guerra di Resistenza antifascista. Il paragone tra partigiani italiani e indipendentisti algerini divenne presto molto frequente. A volte si tramutava in vera e propria immedesimazione. L’interpretazione attraverso il prisma della Resistenza si diffuse in modo consistente anche in quegli strati della popolazione che, per questioni anagrafiche, la guerra partigiana non l’aveva combattuta personalmente. Lucas ha testimoniato esplicitamente in questo senso: “Il movimento di liberazione in Algeria […] ha iniziato a coinvolgerci come una continuità [della] Resistenza. Per me è stato questo insomma. […] Una scelta di continuità praticamente con quello che era stata la lotta al nazismo, insomma… […] la guerra non era finita l’otto maggio [1945], la guerra per l’emancipazione, insomma tutte queste cose, dovevano continuare” <23.
Questo meccanismo fu certamente influenzato dalla particolare congiuntura politico-sociale interna culminata con gli «eventi del luglio 1960» che avevano portato alla «scoperta di nuovi contenuti intrinseci al concetto di antifascismo da parte delle fasce più giovani della popolazione» <24. Se il luglio 1960 significò per questi giovani acquisire «coscienza del fascismo nella sua qualità di fenomeno non definitivamente sconfitto, ma, al contrario, come possibilità sempre latente, dunque come opzione del presente» <25, allo stesso modo la guerra degli indipendentisti algerini fornì un teatro concreto in cui la Resistenza contro un certo fascismo andava combattuta armi alla mano e per questo motivo dall’Italia andava sostenuta. Tant’è vero che per molti di quelli che la Resistenza l’aveva combattuta personalmente, l’Algeria comportò un vero e proprio flash-back comportando di conseguenza un’immedesimazione immediata con gli algerini combattenti per la propria libertà.
Le pagine scritte dal giornalista ed ex-partigiano Mario Giovana una ventina d’anni dopo la fine del conflitto algerino – come contributo a un volume dedicato alla storia delle relazioni fra Italia e Algeria, curato dall’africanista Romain Rainero – testimoniano esplicitamente in questo senso. Giovana era stato comandante partigiano nelle fila di Giustizia e Libertà nel cuneese, dopo la guerra era diventato giornalista dell’«Avanti!» e di «Mondo Nuovo», militante di GL, del PSI e poi del PSIUP. Nel 1957 era stato in Algeria come inviato del PSI per una «missione informativa e tecnica presso il FLN» <26. Primo giornalista europeo a entrare in contatto con l’ALN e a seguirne le attività militari in zona d’operazioni <27 si era addirittura ritrovato «a combattere e a rischiare la vita per il Fronte di Liberazione Nazionale nella guerra ai francesi» <28. “Sono trascorsi venticinque anni dai giorni miei in Algeria e gli appunti scritti allora non mi pare aggiungano alcunché alla pellicola tersa e lineare di figure, paesaggi, scene in sbalzo che mi scorre alla mente senza dissolvenze. Non è misteriosa la ragione di questa vivezza di ricordi; mi ritrovai, dodici anni più tardi e mille chilometri più in là, in una dimensione conosciuta e fortemente interiorizzata della mia esistenza: la guerriglia dei partigiani, la «guerra dei poveri», secondo la felice definizione che ne è stata data” <29.
Le pagine pregne di emozione e la vividezza dei ricordi con cui descrisse l’esperienza algerina accostandola simultaneamente alla sua personale esperienza partigiana meritano di essere riportate quasi interamente: “La foresta di alberi di sughero al posto delle betulle; la focaccia cotta alla brace al posto della polenta o delle patate; i gourbi di rami e foglie al posto delle baite; un popolo partigiano più silenzioso e raccolto del nostro, forse più ammaccato dentro l’enormità della sua tragedia: ma, per il resto, era rivivere un brandello della propria storia, disseppellire gesti e attese e stati d’animo risaputi. I volti seccati dal sole, le marce a passi felpati, udito e vista che non devono mai cessare il loro lavoro per anticipare gli agguati che possono travolgerti in pochi istanti; la terra nuda su cui ti corichi al termine di una fatica e che non ti offre riposi distesi; il cerchio di uomini a riscaldarsi presso un falò sotto la volta bassa della capanna, nelle notti d’allarme, discorrendo sommessamente, con brevi cadute nel sonno dal quale ti riprendi di scatto, cercando negli sguardi dei compagni indulgenza per il cedimento. Tutto questo era recupero di giorni, ore, minuti il cui ritmo ti rimane nel sangue; i cui entusiasmi e le cui ossessioni non formano l’abituale patrimonio dei «ricordi di guerra» comune ai soldati delle guerre «normali», sibbene un singolare e denso spessore di sensazioni, sentimenti, angosce anche, filtrati attraverso la consapevolezza unica della propria scelta individuale in nome di magari scarne ma precise intenzioni: cacciare un nemico straniero, arrivare alla libertà del tuo paese, cambiare la società alla quale appartieni perché almeno i tuoi figli, quelli che verranno più avanti sopportino meno pene e abbiano una dignità civile dai fondamenti saldi. Così mi ritrovai nel mio passato” <30.
Quattro anni dopo quell’esperienza la guerra non era ancora finita mentre l’interesse in Italia era abbondantemente cresciuto. Per questo motivo Giovana si recò nuovamente in Algeria, questa volta con parte del gruppo torinese Cantacronache: Michele L. Straniero, Sergio Liberovici ed Emilio Jona. Nel frattempo, nel 1958 per l’esattezza, Einaudi aveva pubblicato un volume che raccoglieva tutti i reportages dall’Algeria di Raffaello Uboldi <31 usciti precedentemente sull’«Avanti!» e su «France Observateur» poi sequestrati in Francia. L’inviato speciale si era aggregato a una colonna di soldati dell’ALN e ne aveva documentato la quotidianità, le motivazioni ideali, ma anche le emozioni più crude che accompagnavano la vita in clandestinità di questi guerriglieri. L’opera di Uboldi aveva inaugurato un nuovo metodo nel documentare quella che si iniziava sempre più frequentemente a chiamare rivoluzione algerina. Un approccio diretto mirato a dare voce agli algerini, permettere loro di narrarsi e spiegare la loro esperienza di lotta <32.
Sulle orme dell’operazione di Uboldi, nel 1961 Giovana e il gruppo dei Cantacronache, al rientro dal loro viaggio in Algeria, diedero alle stampe un volume decisamente militante che aveva un duplice scopo: “fornire un panorama piuttosto vasto delle vicende che hanno portato al conflitto algerino, con un riassunto a grandi tratti delle tappe della colonizzazione francese in Algeria, dei precedenti politici da cui è scaturita la rivoluzione, della fisionomia e degli obiettivi del moto di resistenza; offrire alcune testimonianze vive, dirette, sugli uomini, gli orientamenti e le esperienze della lotta di liberazione del popolo algerino” <33.
[NOTE]
23 Uliano Lucas, intervistato a Saronno il 8.02.2016.
24 M. Tolomelli, Antifascismo e movimenti. I casi italiano e tedesco, in A. De Bernardi – P. Ferrari (a cura di), Antifascismo e identità europea, Roma, Carocci 2004, p. 381.
25 Ibidem.
26 Cfr. M. Novelli, Addio a Mario Giovana partigiano intellettuale, «la Repubblica» 28.10.2009, consultato online all’URL http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/10/28/addio-mario-giovana-partigiano-intellettuale.html in data 28.02.2018.
27 Cfr. M. Giovana (a cura di), con la collaborazione di Sergio Liberovici, Michele L. Straniero, Paolo Gobetti ed Emilio Jona, Algeria anno sette, Milano, Edizioni Avanti! 1961.
28 Cfr. Novelli, Addio Mario Giovana, cit.
29 M. Giovana, La memoria di una lotta, in Rainero (a cura di), Italia e Algeria, cit., p. 277.
30 Ivi pp. 277-278.
31 Cfr. Uboldi, Servizio proibito, cit.
32 In realtà il primo ad avere tentato di dare voce ai partigiani algerini era stato Armando Mortilla nel 1956, ma il suo volume non aveva avuto la stessa fortuna di quello di Uboldi. Giovanni Pirelli nel 1961 nell’introduzione alla traduzione del volume di Mandouze, La rivoluzione algerina nei suoi documenti, aveva infatti attribuito a Uboldi il merito di essere stato il primo ad «andare “di là”, nelle Wilaya del FLN, vedere, interrogare, riferire al pubblico “di qua”», cfr. G. Pirelli, Introduzione, in A. Mandouze (a cura di), La rivoluzione algerina nei suoi documenti, cit., p. 12.
33 M. Giovana (a cura di), con la collaborazione di Sergio Liberovici, Michele L. Straniero, Paolo Gobetti ed Emilio Jona, Algeria anno sette, Milano, Edizioni Avanti! 1961, p. 5.
Tullio Ottolini, Dal soutien alla cooperazione. Il terzomondismo in Italia fra il Centro di Documentazione “Frantz Fanon” e il Movimento Liberazione e Sviluppo, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2018