La Banda Collotti a Trieste negli ultimi anni della seconda guerra mondiale

L’edificio successivamente abbattuto della Villa Triste in Via Bellosguardo a Trieste – Fonte: informaTrieste

Nell’aprile del 1942 il Ministero degli Interni costituì a Trieste un Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, il cui scopo era la repressione dell’attività antifascista con particolare riguardo a quella slava. Bisogna precisare che nessun’altra provincia italiana conobbe un’istituzione del genere.
Non fu certo l’arrivo dei nazisti a rendere particolarmente efferati i metodi repressivi dell’Ispettorato Speciale, difatti la maggior parte delle testimonianze raccolte nel corso dei processi, celebrati nel dopoguerra, contro i suoi appartenenti risale a periodi antecedenti il 25 luglio 1943 (destituzione di Mussolini).
All’8 settembre 1943 l’Ispettorato aveva sede a Trieste in via Bellosguardo 8 in quella che era già nota come la famigerata “Villa Triste”; era comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli e comprendeva 180 uomini. La villa, che era stata requisita ad una famiglia ebraica, fu demolita nel dopoguerra ed al suo posto fu edificata una palazzina residenziale. È stata quindi in tal modo eliminata la possibilità di utilizzarla quale “memento” di un passato che non dovrebbe più ritornare. Troverete nella “galleria” foto e piantine della villa.

Fonte: informaTrieste

Dopo l’8 settembre l’Ispettorato fu temporaneamente sciolto dal governo repubblichino, ma fu presto ricostituito come Ispettorato Speciale al cui comando rimase sempre Gueli, che però si teneva in disparte lasciando che si facesse notare pubblicamente il giovane ed ambizioso vicecommissario Gaetano Collotti. Va qui ricordato che Gueli s’era trovato a fare parte del corpo di sorveglianza di Mussolini quand’era prigioniero al Gran Sasso: lo sorvegliò così bene che, com’è noto, il “duce” fu liberato da un commando tedesco e portato al Nord. In seguito diversi agenti che avevano fatto parte del corpo di sorveglianza seguirono Gueli a Trieste quando questi fu rimesso a capo del ricostituito Ispettorato. Il corpo era alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno della Repubblica di Salò, ma era posto sotto il controllo del comando SS di Trieste.
Nel febbraio del 1944 il prefetto di Trieste Tamburini nominò maresciallo lo squadrista Sigfrido Mazzuccato, incaricandolo di costituire un reparto di polizia ausiliaria (la squadra politica che avrà sede nella via San Michele, nota anche come “squadra Olivares”, dal nome della sede del gruppo fascista rionale, intitolata ad Alfredo Olivares, fascista morto nel corso di scontri nel 1921) all’interno dell’Ispettorato stesso. Di questo corpo fecero parte circa 200 ausiliari, per lo più squadristi locali; di essi 170 erano pregiudicati per reati comuni. Il reparto fu sciolto nel settembre del ‘44 per ordine delle autorità germaniche e lo stesso Mazzuccato fu spedito in Germania. Così scrive lo storico Galliano Fogar: “Mazzuccato finisce deportato dagli stessi tedeschi venuti a conoscenza di alcune malversazioni da lui compiute” (“Sotto l’occupazione nazista nelle province orientali”, Del Bianco 1968).
Leggiamo ora alcune testimonianze tratte dagli atti del processo Gueli, conservate presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste (all’epoca del processo Gueli, Ercole Miani, il dirigente del CLN triestino e fondatore della Deputazione di Storia del Movimento di Liberazione, poi diventata Istituto Regionale, trascrisse una parte delle testimonianze e le raccolse in un dattiloscritto denominato “carteggio processuale Gueli”, n. d’archivio XIII 915).
Cominciamo dalla testimonianza del dottor Paul Messiner, austriaco, che nel 1944 ricopriva la carica di capo-sezione Giustizia del Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico:
“Mi è stato riferito che nell’anno 1944 l’Ispettorato di PS di via Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette all’arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich (armatori che avevano finanziato il CLN, n.d.a.). Il barone Economo si rivolse al Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l’immediato trasferimento dei detenuti dall’Ispettorato alla sede delle SS di piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi crudeli e le sevizie escogitati dall’Ispettorato. Ho saputo da diverse persone e tra queste dall’avv. Toncic, che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato e fatto rapporto scritto al dott. Rainer… Mi sono state date assicurazioni in merito. (…) Il giudice Anasipoli sa che ho fatto arrestare due agenti dell’Ispettorato pur non rientrando nelle mie attribuzioni. (…) Ho dato ordine che i tribunali provinciali italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero violato tale ordine sarebbero stati arrestati”.
Ecco la testimonianza del giudice Anasipoli, allora giudice di collegamento tra la Corte di Appello, Procura Generale, e la sezione giudiziaria retta dal dott. Messiner:
“Ricordo che un giorno il dott. Messiner ebbe casualmente a comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari di PS dei quali ricordo il nome del Mazzuccato Sigfrido (l’altro era Miano Domenico, n.d.a.). E ciò in seguito a numerose lagnanze presentategli relativamente a maltrattamenti violenze, percosse usate da detti agenti contro persone arrestate”.
Qui potrebbe addirittura sembrare che i nazisti tutelassero i diritti civili a Trieste, ma in realtà, se proseguiamo nella lettura delle testimonianze contenute nel “Carteggio processuale Gueli”, come quella dell’avvocato Toncic, vediamo che la situazione era ben diversa:
“Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione giustizia dell’ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò. In tale esposto oltre a narrare quanto contro di lui era stato commesso dagli agenti (dell’Ispettorato, n.d.a.), espose anche i maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza diciassettenne e di una signora di Trieste. Il dott. Slavik fu arrestato poco tempo dopo dalle SS germaniche e deportato a Mauthausen dove purtroppo trovò la morte”.
Racconta invece Pietro Prodan, che fu arrestato sedicenne, nel 1944, assieme alle sorelle Nives e Nerina: “Tra i poliziotti che procedettero al nostro arresto c’era anche Sigfrido Mazzuccato”. Dopo un mese e mezzo di sequestro in via Bellosguardo, dove furono picchiati tutti e tre, anche da Collotti in persona, “mi hanno portato in Germania al campo di Buchenwald dove sono stato liberato dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto nel novembre del 1944 anche il maresciallo Mazzuccato che la vigilia di Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella scritta dai tedeschi in cui si diceva: “Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944”.
Così dunque morì Mazzuccato, in un finale quasi biblico. Quanto a Miano, fu arrestato dalla Gestapo di Verona il 10/5/44 e dopo cinque mesi nelle celle sotterranee (pare sia anche stato torturato), fu deportato a Flossenburg, da dove fu liberato il 23/4/45.
Sui crimini e misfatti commessi dall’Ispettorato fin dall’inizio della sua “attività” (violenze e torture, ma anche rastrellamenti ed esecuzioni di partigiani, come pure rapine e furti ai danni degli arrestati), esistono moltissime testimonianze, trascritte in più libri e facenti parte, come quelle da noi riportate nelle righe precedenti, degli atti dei processi Gueli e Ribaudo ed anche di quello della Risiera di S. Sabba. Le violenze e le torture erano pratica comune e notoria, al punto che lo stesso vescovo Santin, già nel 1942, aveva cercato di intervenire per far cessare le vessazioni, pur sostenendo che all’inizio non aveva preso sul serio le testimonianze che parlavano delle sevizie inflitte agli arrestati.
Inoltre l’ispettore Umberto De Giorgi, della Polizia Scientifica, firmò in data 18/1/46 una “perizia sui metodi di tortura dell’Ispettorato Speciale”. Tale perizia, richiesta dal Procuratore Generale Colonna per conto della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste (istituita dal Governo Militare Alleato che amministrò la città nell’immediato dopoguerra per punire i crimini nazifascisti) descrive, tra le altre cose, i metodi di tortura della “cassetta” e della “sedia elettrica”. Leggiamone le descrizioni: “stando alle deposizioni testimoniali, allorquando la vittima non confessava (nonostante il dolore provocato dalla distensione forzata di tutto il corpo mediante trazione delle corde fissate agli arti e fatte scorrere negli anelli infissi al pavimento, che spesso provocavano la lussazione delle spalle), era costretta a subire l’introduzione nell’esofago del tubo dell’acqua, che le veniva fatta ingoiare fino a riempimento totale dello stomaco; indi per azione di compressione esercitata da un segugio sul torace, le veniva fatta rigurgitare a mo’ di fontana, che, stante la posizione supina, spesso doveva minacciare di soffocamento la vittima stessa; ed allorquando entrambe le azioni combinate non bastavano a farli confessare, gli interrogati vi venivano costretti, mediante l’azione termica di un fornello elettrico collocato sotto la pianta dei piedi denudati (…) la sedia elettrica consisteva in una sedia-poltrona, a spalliera alta, con leggera imbottitura in cuoio, a bracciuoli, su cui venivano legati gli avambracci della vittima ad uno dei quali veniva fissato un bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio conduttore elettrico regolabile, a reostato. Al polo positivo era collegato una specie di pennello con manico isolato, e frangia metallica che serviva per chiudere il circuito su qualsiasi parte non isolata del corpo della vittima il quale veniva così attraversato dagli impulsi della frequenza della corrente elettrica. Questo metodo, apparentemente molto impressionante, non poteva produrre lesioni organiche o conseguenze dannose sul corpo umano. Tuttavia è noto che anche volgarissimi pregiudicati rotti a tutte le astuzie e raffinatezze per sfuggire agli interrogatori, si abbandonarono ad esaurientissime confessioni, che trovarono conferma nei fatti, alla sola visione dell’apparato, senza essere stati sottoposti alla sua azione” (relazione conservata nell’Archivio IRSMLT n. 913).
Probabilmente lo stesso estensore del rapporto si sarebbe “abbandonato ad esaurientissime confessioni” se messo nella prospettiva di dover subire la tortura della “sedia elettrica”. D’altra parte è per noi una novità che un corpo umano sottoposto a continue e potenti scariche elettriche non subisca alcuna conseguenza da questo trattamento: basterebbe chiedere a qualcuno che è stato torturato in questo modo.
Ma sempre a proposito di questo metodo di tortura, l’agente di PS Giuseppe Giacomini dichiarò, nel corso del processo contro Gueli: “L’apparecchio di tortura elettrico è stato portato nella sede dell’Ispettorato da Collotti al quale venne regalato dalle SS secondo quanto sentivo dire dagli agenti” (Archivio IRSMLT XIII 915).
Dopo lo scioglimento della “banda Olivares” di Mazzuccato rimasero in forza all’Ispettorato 415 uomini: 100 effettivi, 209 ausiliari, 35 alle dirette dipendenze di Gaetano Collotti (la “banda Collotti” vera e propria). Nell’autunno del 1944 l’Ispettorato si trasferì da via Bellosguardo in via Cologna, già sede di una tenenza dei Carabinieri. L’edificio di via Cologna è tuttora esistente; nella “galleria” troverete una piantina di esso.

La banda Collotti – Fonte: Bora.la

Presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste è conservata una “foto-ricordo” della “banda Collotti” (n. d’archivio 912, esposta anche al Museo della Risiera di S. Sabba e pubblicata in alcuni libri, e che troverete nella “galleria”). Questa foto è stata scattata a Borst-S. Antonio in Bosco, (comune di Dolina-S. Dorligo della Valle, in provincia di Trieste), dopo un’azione di rastrellamento che costò la vita a tre partigiani nel gennaio del ‘45. Allegata alla foto v’è la testimonianza di un agente di PS che identifica i tredici componenti del gruppo.
I componenti del gruppo sono stati identificati come: Gaetano Collotti e Rado Seliskar (fucilati dai partigiani a Carbonera presso Treviso il 28/4/45 mentre cercavano di fuggire); Mauro Padovan (che risulta ufficialmente morto come Guardia civica presso Monfalcone il 30/4/45, ma altre fonti lo danno o ucciso a Carbonera con Collotti oppure nel palazzo di giustizia di Trieste, che era il quartier generale di Globocnik, durante l’assedio operato dall’Esercito jugoslavo); Bruno Pacossi, Salvatore Giuffrida, Nicola Alessandro (che viene dato per ucciso a Carbonera, ma del fatto non abbiamo riscontri anagrafici); Matteo Greco (fucilato e gettato nella foiba “Plutone”); Dario Andrian (arrestato e disperso in Jugoslavia); Antonio Iadecola, che pare si limitasse a fare da autista; Mirko Simonic, che nel dopoguerra dichiarò di avere fatto parte del CLN; Gustavo Giovannini e Gaetano Romano. Inoltre nella foto appare un SS non identificato.
Oltre alla “lotta antipartigiana” i membri dell’Ispettorato si occupavano anche di andare a prelevare gli Ebrei da deportare in Germania: gli agenti si presentavano in casa delle persone da prelevare, in genere in seguito a denunce di solerti vicini di casa o bottegai della zona (va ricordato che i nazisti ricompensavano con 10.000 lire -dell’epoca!- i delatori per ogni denuncia che portava ad un arresto), i prigionieri venivano poi portati in via Bellosguardo e di lì “smistati” in Risiera. Forse gli Ebrei arrestati venivano prima portati nella sede della “banda” per poterli derubare prima di consegnarli alle SS? Sarebbe interessante sapere di quali “malversazioni” si macchiò Mazzuccato a parere dei nazisti.
Uno dei membri dell’Ispettorato che, secondo le correnti teorie storiche sulle “foibe”, viene considerato “infoibato” in quanto incarcerato a Lubiana e probabilmente fucilato, è l’agente Alessio Mignacca, specializzato nella ley de fuga, come leggiamo in alcuni documenti raccolti nel “carteggio processuale Gueli”. Ad esempio uccise Francesco Potocnik, che “rotto un vetro della finestra saltava dal I piano nel cortile interno e cercava di fuggire. Fatto segno a vari colpi di pistola da parte dell’agente Mignacca e raggiunto da un proiettile cadeva ucciso” (Carteggio processuale Gueli, cit.); e ferì gravemente Roberto Caprini che “tentava di darsi alla fuga saltando da una finestra al primo piano nel sottostante giardino ove veniva raccolto dalla guardia di PS Mignacca Alessio”. Mignacca partecipava anche agli “interrogatori”, come nel caso di Umberta Giacomini, che quando fu arrestata era incinta di quattro mesi: fu “interrogata” da Collotti in persona, che la picchiò selvaggiamente assieme ad altri agenti, tra i quali Mignacca, che la colpì con un calcio ed in seguito a questo la donna abortì.
Quando nel dopoguerra fu celebrato il processo contro Gueli ed altri membri dell’Ispettorato si discusse anche delle violenze subite da Umberta Giacomini: la sentenza rileva che nella cartella clinica non v’è “nessun cenno al preteso aborto” e che “per questa ragione e per l’altra che non vi è nessuna prova della pretesa gravidanza della Giacomini, non si può dire che esiste la circostanza aggravante”. Inoltre, dato che la donna sostenne di essere stata picchiata da Collotti, Brugnerotto, Sica e Mignacca, ma nel dibattimento “precisò che mentre Mignacca la colpì con un calcio e gli altri con verghe, il Brugnerotto la colpì solo (il corsivo è nostro, n.d.r) con schiaffi (…) manca la prova certa che il Brugnerotto avesse agito con attività associata e con le stesse intenzioni degli altri, i quali, usando le verghe, cagionarono evidentemente le lesioni più gravi”, motivo per cui Brugnerotto fu assolto per insufficienza di prove dal reato di lesioni.
Nei ranghi dell’Ispettorato entrarono molti volontari, persone che lasciarono il proprio lavoro per potersi permettere impunemente violenze e saccheggi, come nel caso di Mario Fabian, che lasciò il suo posto di tranviere, perché come membro dell’Ispettorato aveva maggiori possibilità di guadagno. Fabian fu ucciso nei primi giorni di maggio ‘45 ed è l’unica persona che risulta essere stata gettata nel pozzo della miniera di Basovizza.
Molti furono poi anche i “collaboratori esterni” dell’Ispettorato, delatori e collaborazionisti che conservavano il proprio posto di lavoro e poi riferivano alla “banda Collotti” o direttamente alle SS. Dei delatori triestini uno dei più noti è un certo Giorgio Bacolis, impiegato al Lloyd Triestino di navigazione. Bacolis si spacciava anche per pastore evangelico o valdese per poter raccogliere più facilmente le informazioni da vendere poi ai nazifascisti. Fu pagato 100.000 lire per aver denunciato il capitano Podestà del CLN.
Abbiamo accennato prima che nel dopoguerra furono celebrati alcuni processi contro membri dell’Ispettorato. Quello più importante vide come imputati Giuseppe Gueli, Umberto Perrone, Nicola Cotecchia, Domenico Miano, Antonio Signorelli, Gherardo Brugnerato e Udino Pavan. Gueli fu condannato in seconda istanza ad otto anni ed undici mesi, gli altri a pene minori, salvo Cotecchia e Perrone assolti.

Fonte: informaTrieste

Il processo contro Lucio Ribaudo, imputato di sevizie particolarmente feroci, si concluse con la condanna a ventiquattro anni, poi ridotti in sede di appello.
Quanto a Gaetano Collotti, che scappò da Trieste il 27 aprile 1945 assieme ad altri elementi della sua “banda” e la sua convivente, fu intercettato da una brigata partigiana della quale faceva parte l’avvocato triestino di Giustizia e Libertà Piero Slocovich. Arrestato, fu fucilato assieme ai suoi a Carbonera presso Treviso, ma nel dopoguerra ebbe addirittura l’onore di venire decorato con medaglia di bronzo al valor militare dalla Repubblica Italiana “nata dalla Resistenza” per le azioni antipartigiane da lui compiute prima dell’8 settembre 1943, e nella fattispecie un’azione che ebbe luogo il 10 aprile 1943 nella zona di Tolmino (Gazzetta Ufficiale n° 12 dd. 16/1/54).
Alle proteste elevate da più parti contro questa onorificenza, il Ministero rispose a suo tempo che, una volta data, la medaglia non si poteva revocare.
Con buona pace dei torturati e dei morti.

Claudia Cernigoi, L’Ispettorato Speciale di PS di Trieste nella sede di via Cologna, in La Nuova Alabarda, ottobre 2010

Le immagini dei 51 ostaggi impiccati dai nazisti il 23 aprile 1944 all’interno del palazzo Rittmeyer, allora trasformato dalle autorità germaniche in Soldatenheim (Casa del soldato), come rappresaglia all’attentato lì compiuto il giorno prima da due partigiani d’origine azerbaigiana e costato la vita a cinque tedeschi, sono e rimangono il simbolo non solo della spietata occupazione e repressione nazista a Trieste, ma anche della complessità della lotta di Resistenza in questa città e in tutto l’Adriatisches Küsteland, la Zona d’operazioni del Litorale Adriatico. Perché qui la lotta di Liberazione fu una Resistenza «composita e diversamente orientata», dove «i problemi di carattere internazionale nonché il confronto tra due realtà statuali diverse (quella italiana, dopo vent’anni di regime fascista, e quella jugoslava che si andava definendo sotto il controllo di Tito) incidono profondamente sugli eventi in corso». Una Resistenza che ha posto e ancora pone non poche questioni di carattere storiografico agli studiosi, per i quali l’indagine su quegli anni rimane un cammino difficile. E appunto “Il difficile cammino della Resistenza di confine – Nuove prospettive di ricerca e fonti inedite per una storia della Resistenza nel Friuli Venezia Giulia” si intitola il volume appena pubblicato a cura di Anna Maria Vinci dall’Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione (pagg. 382, euro 20,00), che viene presentato oggi a Trieste, alla Libreria Ubik in Galleria Tergesteo, piazza della Borsa 15, dallo storico Giovanni Contini. È un volume collettaneo che, come dice il titolo stesso, getta nuova luce sulla lotta di Liberazione in queste terre, con una linea interpretativa particolarmente orientata sul ruolo delle donne. La pattuglia degli storici presenti nel volume è composita come l’argomento di cui tratta: Gloria Nemec, Franco Cecotti, Vittorio Coco, Marina Rossi, Gorazd Bajc, Anna Di Gianantonio, Francesca Bearzatto, Chiara Fragiacomo, Fabio Verardo, Irene Bolzon e la stessa Anna Maria Vinci. Un cammino difficile studiare la Resistenza in queste terre, spiega Vinci, «anche perché dal punto di vista metodologico, un confronto ben attento e calibrato tra la storiografia italiana e quelle dell’ex Jugoslavia si sta costruendo solo negli ultimi tempi, non senza fattori di problematicità». «Abbiamo scelto – continua Vinci – di ascoltare le voci delle donne, di quelle che combattono, di quelle senz’armi, di quelle che restano dopo le stragi e l’uccisione dei familiari; e poi dei molti, e molte che cercano di sopravvivere e/o di approfittare della realtà di un mondo capovolto». Non caso il libro si apre con il saggio di Gloria Nemec sulla strage di via Ghega. Poco meno di due anni fa gli storici dell’Irsml lanciarono un appello pubblico per cercare nuove testimonianze sui fatti e sulle vittime dell’eccidio. Qualcuno ha risposto, e il saggio della Nemec ricostruisce così nel dettaglio la vicenda, al punto che la terribile fotografia del gruppo di trucidati concentra e rappresenta «le varie anime dell’antifascismo diffuso nei territori d’occupazione: da quello studentesco della borghesia cittadina, a quello degli operai e artigiani dei quartieri popolari e degli immigrati a Trieste per motivi economici o militari, a quello dilatato nel circondario sloveno sino alla bassa valle del fiume Vipacco, alla massiccia presenza dei provenienti dalla zona di Postumia (Postojna)». Una delle testimonianze portanti è quella lasciata da Editza Loke, amica di una delle vittime dell’eccido, Laura Petracco (il cui fratello Silvano fu anch’egli impiccato dai nazisti il 29 maggio), madre dello storico Giorgio Negrelli cui il libro dell’Irsml è dedicato. Editza, sedicenne al tempo della strage, molti anni dopo offrì a Giorgio Negrelli le sue memorie, che adesso illuminano «le tappe e le dinamiche interne della formazione culturale e politica di un gruppo di liceali che frequentava casa Petracco negli anni Quaranta». Era un piccolo mondo studentesco che gravitava attorno al liceo Petrarca, «scuola di antifascismo per molti». Questi ragazzi si consideravano «comunisti da caffè o da osteria», come ricordò in seguito un’altra protagonista, Licia Chersovani, e molti di loro finirono nelle fauci dei nazisti. Ma fra le vittime di via Ghega scopriamo come «altri giovanissimi carcerati, torturati, impiccati provenivano dal circondario triestino e da famiglie slovene ove diversi livelli di opposizione al fascismo erano sedimentati nel lungo periodo». Dando nome e volto a condannati e carnefici, il saggio di Gloria Nemec ricostruisce le torture inflitte ai prigionieri, il modo in cui vennero scelti – e da chi -, gli ostaggi da uccidere, buona parte dei quali «giunse sul luogo dell’impiccagione in gravi condizioni o già morta». Una ricostruzione capillare dell’eccidio, dunque, che ancora una volta apre a uno squarcio sulla Trieste collaborazionista e connivente con i nazisti, i quali avevano pianificato il risorgere dell’anima “germanica” della città. Anche se alla fine la strage ebbe l’effetto contrario di portare «alla crisi finale quel municipalismo nostalgico e velleitario, definito da Galliano Fogar come “carico di vischiose ambiguità”, che aveva offerto a parte della borghesia locale un ancoraggio politico e psicologico». Altra luce su quella stagione buia la fa il saggio di Vittorio Coco che analizza personaggi e funzioni dell’Ispettorato generale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, all’ombra del quale operò la famigerata “banda Collotti”. L’ispettorato, spiega Coco, «rappresentava l’esito più perfezionato di una metodologia di intervento (…) sperimentata in altri contesti quali la Sicilia e la Sardegna, rispettivamente nel contrasto alla mafia e al banditismo». L’Ispettorato, scrive ancora Coco, «poteva disporre di un personale di altissima professionalità, a cominciare dal suo dirigente, l’ispettore generale Giuseppe Gueli», che in seguito sarebbe stato condannato a otto anni ma poi amnistiato. I metodi adottati dall’Ispettorato furono efficaci anche grazie a «un uso indiscriminato della violenza sui prigionieri». Questo violenza «forsennata e disperata», come la definì Elio Apih, «non sarebbe stato altro che un tentativo estremo da parte dei regime di marcare la propria presenza in un territorio su cui, di fronte al dilagare della resistenza, stava ormai perdendo presa». Nel libro ecco poi le protagoniste prime, le donne. Come Katra, la staffetta dei partigiani sovietici (raccontata da Marina Rossi), o come Alba Perello, “Zora”, nata a Trieste da un matrimonio misto – padre “regnicolo” e madre slovena -, che già nel ’38, racconta lo storico Goarzd Bajc, entrò a fare parte della Lega della gioventù comunista di Jugoslavia e morì nel 1945 nel campo di concentramento di Ravensbrück. Oppure Giuditta “Dikta”, «partigiana italiana e slovena in conflitto tra i due mondi» (Anna Di Gianantonio) […]
Pietro Spirito, Resistenza difficile nella Trieste divisa da odi e sofferenze, Il Piccolo, 12 aprile 2017

Zora Perello era nata nel rione triestino di Servola il 14 maggio 1922, l’ anno in cui il fascismo giunse al potere, da papà italiano, venuto a Trieste da Reggio Calabria, e madre slovena, venuta a Trieste dalla vicina zona dei Brkini. Zora, anagraficamente Alba, aveva otto o nove anni, quando il padre si allontanò dalla famiglia e la madre si trasferì con Zora nel rione di San Giacomo. Fin da adolescente, mentre frequentava il liceo classico Dante Alighieri di Trieste, Zora partecipò alla vita culturale, sempre più clandestina, delle organizzazioni nazionali slovene. Si unì in particolare ai gruppi giovanili e si avvicinò così anche ai giovani comunisti del gruppo di Pino Tomažič (fucilato con altri quattro condannati a Opicina, nel dicembre del 1941). Conobbe compagni sloveni ed italiani, studenti e operai, entrando nel 1938 nelle file clandestine della FGCd’Italia. Incarcerata una prima volta nel 1940, venne nuovamente arrestata nel 1941 e confinat a Pollenza di Macerata. Ritornata a casa nel giugno del 1941, entrò poco dopo, con altri, in contatto con Oskar e Lev Kovačič, fuoriusciti goriziani allora giunti a Trieste come rappresentanti del Comitato Centrale del PC di Slovenia e dell’Osvobodilna fronta, il Fronte di Liberazione sloveno. Arrestati, vennero processati nel settembre 1942: Zora, arrestata a scuola nel dicembre del 1941, venne condannata a tredici anni di reclusione. In prigione a Perugia con altre detenute politiche, tra le quali Marina Bernetič, dirigente triestina del PC d’Italia e comandante partigiana, vi rimase, come tanti, fino all’ 8 settembre 1943. Si ricongiunse allora al movimento partigiano sloveno ed entrò nell’unione giovanile slovena ZSM, nello SKOJ, l’unione dei giovani comunisti di Jugoslavia, e poi, assumendo incarichi sempre più importanti, nel KPS/KPJ. Nel maggio 1944 Zora sposò, nei Brkini, il compagno di lotta e comandante partigiano Vojo Godina. Richiamata dall’organizzazione clandestina a Trieste, venne arrestata nell’ottobre 1944, torturata e deportata in Germania. Morì a Ravensbrück il 21 febbraio del 1945, attorniata dalle amiche compagne di prigionia triestine.
A Zora Perello è intitolata dal settembre 2007 la Casa del Popolo di Servola in via di Servola 114. A Capodistria una strada porta il suo nome.
La madre Pavla ne custodì la memoria, vivendo per lunghi decenni nel solo nome di Zora. Raccogliendone i ricordi, Lida Turk, redattrice e pubblicista triestina, ha raccontato la biografia di Zora in una struggente e precisa ricostruzione, pubblicata a Trieste, in lingua slovena, nel 2005.
Redazione, La Shoah vissuta dalle donne, oggi alla Stazione Rogers, Bora.la, 31 gennaio 2013

[…] Nell’immediato dopoguerra l’ispettore Umberto De Giorgi si mise in luce come l’organizzatore dei recuperi delle salme degli “infoibati”. Sull’operato di De Giorgi hanno spesso speculato coloro che fecero della questione foibe il loro cavallo di battaglia politica, dato che di questo rapporto non esistono copie a disposizione del pubblico, mentre per quanto concerne ciò che realmente fece De Giorgi esistono molte mistificazioni e pochi riscontri reali. Lo storico Roberto Spazzali (che non può assolutamente essere tacciato di “filoslavocomunismo”) scrisse di un < non meglio precisato “rapporto” che sarebbe stato redatto nel 1947 dall’ispettore capo della Polizia civile del GMA Umberto De Giorgi in merito ad alcune esplorazioni (…) Resta da verificare l’attendibilità del “rapporto”, la bibliografia indicata non fa alcun accenno personale e originale a questo “rapporto”.
[…] Per una curiosa coincidenza nello stesso periodo (era anche l’epoca del processo per i crimini della Risiera), apparve un’intervista con l’allora ottantaduenne ispettore a riposo De Giorgi che < parla volentieri delle sue esperienze di poliziotto iniziate nel ‘23, quando partecipò alle ricerche del corpo di Matteotti. È stato l’ufficiale che a Trieste ha messo su il primo gabinetto di polizia scientifica e la squadra femminile: uno che sa il suo mestiere (…) “Quando ero alla Questura – ricorda – durante l’occupazione nazista, noi facevamo il nostro solito lavoro di polizia. (…) la banda Collotti si occupava di altre vicende. Un giorno trovai il cadavere di una donna in una scarpata, presso Santa Croce . Aveva strane lesioni alle vertebre. Studiammo la cosa, e un mio assistente fece uno schema di come quelle lesioni e le ferite che trovammo in tutto il corpo, potevano essere state provocate. Ne risultò lo strumento di tortura, che si scoprì in seguito, della banda Collotti. Trovammo anche altri cadaveri, che la banda Collotti buttava in cespugli e anfratti dopo le torture, girando la notte con un furgoncino che aveva sequestrato alla ditta Zimolo. Io volevo andare fino in fondo: feci i miei rapporti. Poi uno della questura mi disse: non occupartene più se non vuoi fare la stessa fine. Collotti ti tiene d’occhio” > .
Queste dichiarazioni di De Giorgi fanno innanzitutto pensare che la pratica di “infoibare” le persone sia stata propria piuttosto dell’Ispettorato Speciale che non del movimento partigiano ed aprono inoltre tutta una serie di interrogativi in merito ai recuperi dei corpi dalle “foibe” triestine effettuati proprio da De Giorgi, che sembrava andare “a colpo sicuro” quando si trattava di esplorare le cavità per recuperare “infoibati”. […]
Claudia Cernigoi, Il rapporto dell´ispettore De Giorgi in L´Ombra di Gladio, La Nuova Alabarda

L’ispettore De Giorgi e la “Banda Collotti”
Spulciando i vari giornali, troviamo un’intervista pubblicata dal “Meridiano di Trieste” , all’epoca del processo per i crimini della Risiera di San Sabba con l’allora ottantaduenne ispettore a riposo De Giorgi che < parla volentieri delle sue esperienze di poliziotto iniziate nel ‘23, quando partecipò alle ricerche del corpo di Matteotti. È stato l’ufficiale che a Trieste ha messo su il primo gabinetto di polizia scientifica e la squadra femminile: uno che sa il suo mestiere (…) “Quando ero alla Questura – ricorda – durante l’occupazione nazista, noi facevamo il nostro solito lavoro di polizia. (…) la banda Collotti si occupava di altre vicende . Un giorno trovai il cadavere di una donna in una scarpata, presso Santa Croce . Aveva strane lesioni alle vertebre. Studiammo la cosa, e un mio assistente fece uno schema di come quelle lesioni e le ferite che trovammo in tutto il corpo, potevano essere state provocate. Ne risultò lo strumento di tortura, che si scoprì in seguito, della banda Collotti. Trovammo anche altri cadaveri, che la banda Collotti buttava in cespugli e anfratti dopo le torture, girando la notte con un furgoncino che aveva sequestrato alla ditta Zimolo. Io volevo andare fino in fondo: feci i miei rapporti. Poi uno della questura mi disse: non occupartene più se non vuoi fare la stessa fine. Collotti ti tiene d’occhio” >.
Queste dichiarazioni di De Giorgi fanno pensare innanzitutto che la pratica di “infoibare” le persone sia stata propria piuttosto dell’Ispettorato Speciale di PS che non del movimento partigiano. Però è anche interessante il fatto che De Giorgi, pur sapendo che l’Ispettorato usava gettare cadaveri negli “anfratti” (cioè le foibe?), non sembrò avere mai il minimo dubbio nell’attribuire ai partigiani la responsabilità degli “infoibamenti” dei corpi da lui recuperati, come vedremo più avanti.
Sempre riguardo la “banda Collotti”, è interessante anche leggere la “perizia sui metodi di tortura dell’Ispettorato Speciale”, firmata da De Giorgi e richiesta dal Procuratore Generale Colonna per conto della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste nella quale vengono descritte, tra le altre cose, i metodi di tortura della “cassetta” e della “sedia elettrica”. Leggiamone le descrizioni: < stando alle deposizioni testimoniali, allorquando la vittima non confessava (nonostante il dolore provocato dalla distensione forzata di tutto il corpo mediante trazione delle corde fissate agli arti e fatte scorrere negli anelli infissi al pavimento, che spesso provocavano la lussazione delle spalle), era costretta a subire l’introduzione nell’esofago del tubo dell’acqua, che le veniva fatta ingoiare fino a riempimento totale dello stomaco; indi per azione di compressione esercitata da un segugio sul torace, le veniva fatta rigurgitare a mo’ di fontana, che, stante la posizione supina, spesso doveva minacciare di soffocamento la vittima stessa; ed allorquando entrambe le azioni combinate non bastavano a farli confessare, gli interrogati vi venivano costretti, mediante l’azione termica di un fornello elettrico collocato sotto la pianta dei piedi denudati (…) la sedia elettrica consisteva in una sedia-poltrona, a spalliera alta, con leggera imbottitura in cuoio, a bracciuoli, su cui venivano legati gli avambracci della vittima ad uno dei quali veniva fissato un bracciale metallico unito al polo negativo di un apparecchio conduttore elettrico regolabile, a reostato. Al polo positivo era collegato una specie di pennello con manico isolato, e frangia metallica che serviva per chiudere il circuito su qualsiasi parte non isolata del corpo della vittima il quale veniva così attraversato dagli impulsi della frequenza della corrente elettrica. Questo metodo, apparentemente molto impressionante, non poteva produrre lesioni organiche o conseguenze dannose sul corpo umano. Tuttavia è noto che anche volgarissimi pregiudicati rotti a tutte le astuzie e raffinatezze per sfuggire agli interrogatori, si abbandonarono ad esaurientissime confessioni, che trovarono conferma nei fatti, alla sola visione dell’apparato, senza essere stati sottoposti alla sua azione >.
Probabilmente lo stesso estensore del rapporto si sarebbe “abbandonato ad esaurientissime confessioni” se messo nella prospettiva di dover subire la tortura della “sedia elettrica”. D’altra parte è per noi una novità che un corpo umano sottoposto a continue e potenti scariche elettriche non subisca alcuna conseguenza da questo trattamento: basterebbe chiedere a qualcuno che è stato torturato in questo modo.
Claudia Cernigoi, Le inchieste dell’ispettore De Giorgi, La Nuova Alabarda