La cella dell’ergastolo di Santo Stefano, che mi ospitò, divenne il tempio della mia fede

Fonte: Pertini… uno di noi, ILSREC, cit. infra, cui, subito qui sotto, altresì, si rimanda per ulteriori informazioni

In realtà presso il ministero dell’Interno era aperto un fascicolo sul “sovversivo” Gerolamo Isetta <4, l’avvocato di Sandro Pertini che nei primi anni Trenta aveva sfidato il Tribunale speciale per difendere l’amico nel processo per oltraggio a pubblico ufficiale. Ma i sospetti della Prefettura di Savona sono ancora precedenti. Già nel 1926 Gerolamo Isetta attirò un’attenta vigilanza per l’esuberanza con cui aveva parteggiato per gli imputati durante lo svolgimento del processo di Savona. Ancor prima, nel 1924 <5, erano sorvegliati i suoi spostamenti, insieme all’avvocato Giovanni Pera di Savona, a Nizza dove Pertini era fuoruscito dopo la nota fuga da Savona insieme al Maestro Turati.
L’avv. ISETTA GEROLAMO di Antonio, nato a Savona il 4 aprile 1900, con studio in questa città, fu compagno di studi e collega professionale del Pertini, al quale è legato da vincoli di amicizia. Ha avuto qui più volte contatti con la fidanzata e con la madre di Pertini, allo scopo di occuparsi della cura prima e della vendita poi di alcuni terreni di proprietà del medesimo. È stato inoltre patrocinatore del Pertini nella recente causa penale contro di lui e risulta anche che l’ha sovvenzionato più volte con danaro. L’Isetta professò nell’età giovanile principi repubblicani senza svolgere particolare attività ma fece sorgere gravi sospetti sul suo conto in occasione del processo contro i favoreggiatori dell’espatrio politico di Turati, avendo dimostrato di prendere vivo interesse al processo stesso e tenendosi compiacentemente e costantemente in contatto con gli imputati, dai quali incoraggiava il contegno spavaldo e sicuro. In seguito, sebbene sorvegliato, non si ebbe più occasione di fare rilievi sul suo conto. Non è però ritenuto favorevole al Regime, sebbene frequenti anche elementi fascisti“.
Il documento è chiosato dalla “puntata” [sic] del Sig. Capo Sezione “Sarebbe bene che lo tenessero d’occhio”.
Gli “elementi fascisti” frequentati da Isetta, cui allude il foglio della Prefettura di Savona, si riferiscono a un savonese, fascista della prima ora e poi pentito, che gli salvò la vita testimoniando il falso riguardo alla sua presenza sul treno Pisa-Savona il 14 aprile 1929, giorno dell’arresto di Sandro Pertini con il quale Isetta aveva avuto un incontro clandestino e cospiratorio <6 di cui si ha documentata testimonianza.
Il ministero dell’Interno riceveva quindi informazioni più che corrette, evidentemente carpite dal controllo della corrispondenza tra il confinato Pertini e Isetta. Il carteggio rende conto degli elementi segnalati dalla Prefettura: l’amicizia, la comune professione, l’ideale politico, la vicinanza di Isetta ai famigliari di Pertini durante il confino.
[NOTE]
4 Archivio centrale dello Stato-Roma, ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, scheda
n. 119698.
5 A. Martino, Pertini e altri socialisti savonesi nelle carte della R. Questura, Savona, 20133, pp. 194-195.
6 Cfr. supra, p. 32, n. 3.
Sandra Isetta, Dal carteggio tra Sandro Pertini e Gerolamo Isetta in Pertini… uno di noi, ILSREC, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, 2017

Pertini in occasione dell’inaugurazione della bandiera della Società dei Combattenti, Stella, 1921 [Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Savona] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra

Comizio di Alessandro Pertini in occasione dell’inaugurazione della bandiera della Società dei Combattenti, Stella (SV), 1921 [Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Savona] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra
Un giorno mi trasferiscono perché avevo preso le difese di Gramsci e di un altro, facevo un po’ il Don Chisciotte. Vengo trasferito a Pianosa, e gli dico: “Gramsci, mi rincresce, devo andare, mi trasferiscono…”. “Ah sì, vai via, rincresce anche a me” – “Sai perché mi rincresce lasciare Turi di Bari, un carcere vale l’altro Gramsci, è perché lascio te e la tua compagnia. La tua compagnia mi era così dolce e così preziosa. Nelle conversazioni con te io avevo sempre da imparare qualche cosa, Gramsci”. – “Quando parti?”. – “Domattina ci vedremo ancora a passeggio”. “Allora domattina ti porterò un ricordo”. E di fatti mi portò un opuscolo di una conferenza che Croce aveva tenuto ad Oxford, ‘Storicismo e anti-storicismo’, una conferenza in cui dice: “Con la dittatura si arresta la storia, è contro la storia ogni dittatura”. E lui mi fece una dedica bellissima, molto bella. Io porto via quel libro, che per me era caro… Io ero il “social-traditore” anche per i comunisti di Pianosa. Feci vedere al mio vicino di letto, comunista: “Vedi, guarda, Gramsci…”. “Oh, perbacco”, l’ho fatto vedere agli altri. Un giorno vado a cercare il libro e non lo trovo più, scomparso: “Chi è che mi ha portato via il libro?”, chiedo. Tutti zitti. E dicono: “Non è che vorrai accusare noi!” – “E come, il libro era qui, con la dedica di Gramsci”. Me lo avevano portato via, strappata quella dedica. “Eh, dice, un social-traditore non può tenere questo libro con la dedica di Antonio Gramsci”.
Intervista di Sandro Pertini, presidente della Repubblica, a Enzo Biagi, qui ripresa da Fondo Pertini

Il comizio di Alessandro Pertini nella Milano appena liberata

La nostalgia della patria e il richiamo della lotta erano evidentemente troppo forti: il 14 aprile 1929 Pertini fu arrestato a Pisa. Condannato dal Tribunale speciale a 10 anni e 9 mesi, fu incarcerato a Regina Coeli e successivamente all’ergastolo di Santo Stefano (dove si ammalò di tubercolosi), a Turi (dove fu trasferito il 10 dicembre 1930 e conobbe Gramsci <12), Pianosa e infine al confino (Ponza, Tremiti, Ventotene).
Per le sue cattive condizioni di salute, si cominciò a pensare di organizzare una campagna internazionale per la sua liberazione, consigliata anche da Palmiro Togliatti a Turati in una lettera del 30 ottobre 1930 in cui lo informava, “da fonte sicura e diretta (il tipografo comunista svizzero Emilio Hofmaier, anch’egli detenuto a Santo Stefano)”.
Come scriveva però un suo vecchio compagno di lotta, Anacreonte Costa, allo stesso Turati il 21 aprile 1931: “Rimarrebbe da rimuovere la difficoltà maggiore che è quella del carattere stesso del Pertini. Si adatterà egli ad accettare una forma qualsiasi di grazia o di indulto isolato? Non foss’altro che di fronte ai suoi nove compagni di cella, tutti comunisti, tubercolotici come lui, egli non vorrà mai accettare un trattamento speciale” <13.
È in questo quadro, nel quale si inserisce, oltre alla tempra di Pertini, anche il rapporto con i compagni comunisti, che si verifica il famoso episodio del rifiuto della grazia, che lo portò a una, momentanea, rottura dei rapporti con l’amatissima madre, cui scriveva il 26 febbraio 1933 da Pianosa: “Io mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà […]. Come si può pensare che io, pur di tornare libero, sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può importarmene della libertà? La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di questo tradimento, che si è osato proporre a me” <14.
Anche nei momenti più duri della prigionia, non venne dunque mai meno la sua fede nel socialismo come religione, che caratterizzò tutta la sua vita politica.
Sempre da Pianosa e sempre alla madre, scriveva dunque il 4 agosto 1935, con toni che sembrano quelli di un San Paolo laico: “Se vivo ancora fosse il babbo e se a lui fossi vicino, come allora con parole buone e dolci mi direbbe: Bravo Sandro. Sono contento di te, continua così. Questo mi ripeterebbe il babbo, ne sono certo, mamma. E questa certezza mi deve bastare e da essa devo trarre il compenso a quel poco che ho sofferto e l’incitamento a perseverare nel bene. E venga pure presto la sera di questa mia giornata, tanto tormentata. La terminerò sorridendo e contento, perché penserò che onestamente l’ho vissuta […]. Ed è appunto questa intima soddisfazione, che dobbiamo chiedere al nostro destino; il resto non conta. L’ambizione di giungere in alto, il desiderio di ricevere dalla vita tutte le gioie sono vane miserie, che costringono il nostro animo a rimanere in basso e lo incatenano a tutte le meschinità e le bassezze della vita e gli impediscono di levarsi in alto, ove veramente può trovare una ragione alla sua esistenza” <15.
Liberato dal confino nell’agosto 1943, dopo l’8 settembre diventa membro, con Riccardo Bauer e Giorgio Amendola, della Giunta militare del Cln, partecipando agli scontri di Porta San Paolo. Il 18 ottobre è nuovamente arrestato e detenuto a Regina Coeli, da dove scriverà alla sorella Marion: “Lo so, molti ammirano la mia forza d’animo, e la giudicano e l’ammirano come una forza fisica e, quindi, come una forza naturale; e pensano che sia per me una gioia usarla, come in realtà è una gioia per un uomo vigoroso usare la forza, di cui il suo corpo è dotato. Non sanno, invece, costoro quanto essa mi costi; non sanno come essa sia il frutto di continue lotte intime, penosissime; non sanno quante lagrime nascoste per essa vada versando il mio cuore da anni, da molti anni, sacrificato dalla mia volontà, la quale non punta che a una meta, non sente che una esigenza. Ti scrissi un giorno, sorella, che è doloroso, molto doloroso, essere crudeli verso noi stessi. È la verità, Marion, triste verità, che io da anni conosco. Cerca di comprendere quanta tristezza, sorella, dietro a questa mia sorridente serenità che tutti conoscono e che tutti ammirano! E così continuerò, sino all’ultimo istante di mia vita. State certi, Sandro sarà sempre forte e sereno, ed accetterà con animo tranquillo e fiero la sorte – qualunque essa sia – che per lui sarà decisa” <16.
Condannato a morte, riuscirà a evadere, con Saragat, il 14 gennaio 1944, grazie, tra gli altri, all’opera di Giuliano Vassalli. Decise quindi di lasciare Roma, “perché il Papa aveva fatto sapere a De Gasperi che i tedeschi l’avrebbero evacuata se le formazioni partigiane non avessero attaccato e Nenni [gli] disse: ‘Guarda, non si fa più l’insurrezione, abbiamo deciso di non correre questo rischio, tanto i tedeschi se ne vanno’. Lui e Saragat rimasero lì. Ma il [suo] posto non era più lì. Era dove bisognava combattere i tedeschi e i fascisti” <17.
[NOTE]
12 Cfr. il suo ricordo in M. Paulesu (a cura di), Gramsci vivo nelle testimonianze dei contemporanei, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 210-214.
13 Cit. in S. Pertini, Lettere dal carcere, 1931-1935, a cura di S. Caretti, Piero Lacaita, Manduria 2006, p. 191.
14 Ivi, pp. 105-106.
15 Ivi, pp. 181-182. Cfr. anche, con gli stessi toni, quanto affermato trent’anni dopo, il 27 dicembre 1973, in un’intervista resa a Oriana Fallaci per “L’Europeo”: “Se ci stai per un reato comune, la galera è orrenda. Se invece ci stai per una fede politica e sai di rappresentare un simbolo, ecco: la tua giornata ha un senso e la tua cella non è più buia. Io non sono credente ma in carcere ho letto la storia dei primi cristiani e ho capito quel che mi raccontava mia madre quand’ero bambino. Li ho capiti i martiri che, per rifiutarsi d’accendere due granelli d’incenso sotto la statua di Cesare, si lasciavano sbranare dai leoni. E ho capito Cristo, ho ammirato pazzamente la vita di Cristo. Perché è la vita di un uomo di fede, è la vita di un uomo. Un uomo è un uomo quando vince il dolore e non tradisce la propria idea. Io non l’ho mai tradita, Oriana”.
16 S. Pertini, Dal confino alla Resistenza: lettere 1935-1945, a cura di S. Caretti, Piero Lacaita, Manduria, 2007, pp. 123-124.
17 Dall’intervista resa a Oriana Fallaci, art. cit.
Giovanni Scirocco, “Questo socialismo, questa Resistenza, questa continua lotta politica”: Sandro Pertini dall’antifascismo alla Resistenza in Pertini… uno di noi, Op. cit.

Nel giugno 1924, all’indomani dell’uccisione del segretario del partito Giacomo Matteotti, Pertini chiede l’iscrizione al PSU.
In quei giorni Pertini è a Firenze, dove consegue la seconda laurea in Scienze Politiche, (la prima in Giurisprudenza a Modena).
La sua tesi sulla cooperazione sembrava essere dispersa durante l’alluvione del 1966, ma è stata ritrovata recentemente e ne è stato fatto un volume <11.
Pertini entra quindi in contatto col movimento “Italia libera” di cui fanno parte importanti personaggi come Gaetano Salvemini, i fratelli Rosselli ed Ernesto Rossi.
Inizialmente quello di Pertini è un antifascismo intransigente e prende posizione talvolta in maniera tanto ardita, da venire all’attenzione della polizia fascista, che prende di mira con spedizioni punitive lo studio dove il giovane Sandro esercita la professione di avvocato.
Viene arrestato, con l’accusa di essere un sovversivo e un fomentatore d’odio, condannato al pagamento di una multa, oltre a una pena di otto mesi di reclusione (poi revocata dalla Corte d’Appello di Genova per amnistia).
Viene ritrovato un manifestino in cui condanna l’assoluzione del quadrumviro De Bono nella complicità nell’omicidio Matteotti.
Sono state molte le aggressioni nei suoi confronti, fino alla messa al bando da Savona, tanto da essere costretto a rifugiarsi a Milano, dove conosce Carlo Rosselli, e soprattutto Filippo Turati, che aiuta ad espatriare con lui in Francia, nel 1926, perchè entrambi costretti all’esilio.
Filippo Turati è la figura che maggiormente influisce sul pensiero di Sandro Pertini. Turati appartiene alla corrente “gradualista” del PSI, che è in opposizione a quella “massimalista”, la quale è dominante e che ha come capisaldi leninismo e rivoluzione. Turati è vera guida per i socialisti riformisti, convinti che il socialismo in Italia si sarebbe potuto realizzare soltanto se il paese si fosse trasformato in un moderno stato industriale e se il movimento operaio avesse guardato con favore all’opera progressista ispirata da Giolitti.
Turati, per il giovane Sandro, rimarrà un simbolo vivo e costante e rappresenterà un punto di riferimento per la quotidiana lotta politica, tanto da considerarlo come “testimonianza del socialismo che si era fatto storia, che aveva saputo guardare alle trasformazioni della società italiana e alle esigenze della classe operaia con spirito aperto e laico, con l’obiettivo di promuovere una graduale, ma concreta integrazione politica e sociale nelle masse nello Stato, rifuggendo da quelle pratiche violente e irrazionali dei rivoluzionari basate sull’istinto e su una generica quanto inutile attesa di una rivoluzione impossibile” <12.
Durante l’esilio in Francia svolge i lavori più umili, di cui fa menzione in un altro dei suoi “Discorsi parlamentari”: “Io benedico il mio destino perché mi ha fatto conoscere un’esperienza che non dimenticherò mai. Se vi parlo dei lavoratori con tanta passione è perché so che cosa vuol dire la fatica fisica. Infatti per due anni e mezzo in Francia, lontano dalla mia famiglia per motivi politici, per mantenermi fedele alla mia idea, ho dovuto, per vivere onestamente, fare il manovale-muratore. So quindi cosa vuol dire il lavoro fisico, cosa vuol dire lavorare per ore e ore, ritornare stanco sfinito a casa e alla fine della settimana ricevere un compenso per nulla adeguato alle più elementari esigenze” <13.
Nell’epistolario con Turati, emerge come Pertini viva l’esilio come un intervallo prima del rientro in patria, dopo aver ottenuto un falso passaporto. Viene però riconosciuto e arrestato a Pisa nel 1929, accusato di essere un “socialista unitario pericoloso”.
Da questo momento comincia il suo calvario attraverso i tribunali e le carceri fasciste. Viene infatti deferito al Tribunale Speciale che lo condanna a dieci anni e nove mesi di reclusione e a tre di vigilanza speciale, ma dopo aver ascoltato la sentenza Pertini grida: “Viva il socialismo!” e “Abbasso il fascismo!” e questo gli vale l’ergastolo da scontare nel carcere di Santo Stefano.
Qui avviene l’incontro con Antonio Gramsci. Lo ricorda nel discorso tenuto in veste di deputato nella seduta del febbraio 1955: “Permettete che io ricordi questa nostra dolorosa esperienza; essa è stata espressa in modo mirabile, con parole semplici da un grande patriota, mio amico fraterno e compagno di galera: Antonio Gramsci. Leggete le sue lettere dal carcere. In una lettera alla sua mamma, parla di quando, dopo tanti anni di carcere, fu trasferito a Formia. Ad un certo momento si staccò dai carabinieri e riuscì a vedersi, dopo tanti anni, in uno specchio; e si vede i capelli bianchi… Io stesso sentii, onorevoli colleghi, la stessa constatazione amara: uomini che erano entrati in carcere con una giovinezza esuberante, ne uscirono quando la loro giovinezza se n’era andata con tutti i suoi sogni, quei sogni che gran parte di voi è riuscito a realizzare. Vedete, signori, se io fossi entrato in carcere per un reato comune, commesso in un momento di smarrimento, vi assicuro che non avrei sopportato il carcere, l’avrei fatta finita subito, perché la galera è una cosa veramente schifosa, impone delle rinunce tremende. Soltanto chi ha una fede può resistere in carcere. Ecco perché noi sopportammo la lunga detenzione con animo sereno, fiero. La cella dell’ergastolo di Santo Stefano, che mi ospitò, divenne il tempio della mia fede ed io allora compresi i primi cristiani, che, pur di non bruciare incenso alla statua di Cesare, preferivano affrontare la ferocia delle belve. Non ho avuto mai un momento di debolezza, mai un momento di scoramento, perché la mia cella era illuminata dalla mia fede politica” <14.
Pertini viene poi spostato nel carcere di Pianosa, dove rimane per altri due anni, anni difficili caratterizzati da contrasti (soprattutto col direttore del penitenziario) e dal peggioramento delle sue condizioni di salute <15.
Alcuni suoi concittadini convincono la madre a scrivere la domanda di grazia per il figlio,il quale si oppone in modo deciso come testimoniato dallo stesso Pertini nell’intervista rilasciata a Oriana Fallaci <16
[…] Pertini resta a Pianosa fino al 1934, dove apprende della morte dei suoi maestri Turati e Treves.
Viene poi trasferito sull’isola di Ponza, in concomitanza con la guerra di Etiopia e la Guerra Civile spagnola, nutrendo la speranza di una prossima caduta del fascismo.
La polizia fascista inasprisce i controlli, suscitando vive proteste da parte dello stesso Pertini, che viene denunciato per resistenza a pubblico ufficiale, processato e poi assolto per insufficienza di prove. Le sue condizioni di salute peggiorano sempre più, tanto che viene spostato nell’isola di Ventotene tra i confinati “malati” e vi rimane fino alla caduta del fascismo, il 25 Luglio 1943.
Raggiunge Roma e si impegna subito ad organizzare la resistenza nella Capitale contro i tedeschi, oltre a partecipare attivamente alla ricostituzione del partito (il PSIUP nacque ufficialmente fra il 23 e il 25 agosto 1943, durante un convegno semiclandestino organizzato nella casa di Oreste Lizzadri), insieme a Saragat e Nenni. Quest’ultimo viene nominato segretario e direttore dell'”Avanti!”, mentre Pertini e Saragat diventano vicesegretari. Il programma del nuovo partito ha come punti fondamentali l’instaurazione della repubblica socialista e il superamento dello stato borghese. Questo processo di ricostituzione del partito va avanti fino a quando Pertini non viene di nuovo arrestato dai fascisti e rinchiuso insieme a Saragat nel carcere di Regina Coeli, da cui però riesce ad evadere nel gennaio del 1944 in seguito a un’azione di gruppo da parte di un gruppo partigiano.  Da allora ricopre incarichi importanti presso la giunta militare centrale del Comitato di Liberazione Nazionale a Roma.
Nel frattempo, al Nord il PSIUP attraversa un periodo di difficoltà e dopo la liberazione di Roma, Pertini decide di proporsi per la carica di segretario e di rifondare gli organismi dirigenti dell’Alta Italia.
Una volta rientrato a Roma però, si rende conto ben presto di non essere la persona più adatta per la riorganizzazione del partito e torna nel Nord Italia.
È significativa in proposito la sua visione dei CLN che dà nel discorso tenuto alla Consulta Nazionale nel settembre 1945: “I Comitati di Liberazione: questi organismi sorti per germinazione spontanea dalla sete di libertà, che il popolo italiano ha sentito dopo venti anni di dominazione fascista, per noi sono stati, oltreché uno strumento di liberazione, anche uno strumento di rinnovamento democratico. Non ci siamo battuti soltanto per cacciare i tedeschi dall’Italia, ma ci siamo soprattutto battuti per creare le premesse di un rinnovamento profondo democratico in Italia, e pensavamo che i Comitati di Liberazione questi compiti potessero assolvere e che quindi potessero dare una direzione politica al Paese. Dobbiamo molta riconoscenza – mi si conceda di aprire una breve parentesi – a questa coalizione di sei partiti che è stata una prova di solidarietà ammirevole che hanno dato tutti i partiti, superando divergenze ideologiche, e noi considereremmo una sventura per tutti gli italiani se questa coalizione dovesse spezzarsi, perchè sentiamo fermamente che non un partito solo (e sarebbe anche questa una sventura se un partito potesse imporsi al popolo italiano), deve avere il sopravvento, perchè ricadremmo in un’altra forma di fascismo, perchè sentiamo che un partito solo non potrà mai accingersi a questa opera di ricostruzione veramente titanica” <17.
Nell’aprile 1945, Pertini guida il comitato internazionale che libera Milano: è in questa occasione che incontra sulle scale dell’Arcivescovado Benito Mussolini, invitato dal Cardinale Schuster per trattare un’eventuale resa con i capi partigiani.
Tutti i libri di memorie sono concordi nel ritrarre Pertini attivissimo nel galvanizzare i militanti e nel dare animo alla Resistenza e come colui che si fa rispettare tanto dai rivali quanto dai nemici politici.
Dopo il 25 Aprile, egli sarà riconosciuto come uno dei leader più amati della Resistenza, che viene considerata come l’esperienza decisiva della sua vita.
[NOTE]
11 “Ritrovata la tesi di laurea di Pertini. Adesso diventerà un libro” in La Stampa, 12 marzo 2013
12 G. SCROCCU, “La passione di un socialista. Sandro Pertini e il Psi dalla Liberazione agli anni del centro-sinistra”, Piero Lacaita Editore, Manduria, 2008, pag. 34
13 S. PERTINI, “Discorsi Parlamentari 1945-1976” a cura di M. ARNOFI, Bari, ed.Laterza, 2005, pag. 96
15 S.PERTINI, “Lettere dal carcere: 1931-1935” a cura di S. CARETTI, Manduria, Piero Lacaita editore, 2006, pag. 9
16 O. FALLACI, Intervista a Sandro Pertini in “L’Europeo”, 27 dicembre 1973
17 S. PERTINI “Discorsi parlamentari 1945-1976”, Bari, ed. Laterza, pag. 5
Luigi Bernini, Sandro Pertini. Vita e pensiero di un combattente per la libertà, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno accademico 2014-2015

Diploma di laurea di Pertini presso l’Istituto «Cesare Alfieri» di Firenze, 1924 [Archivio Storico dell’Università degli Studi di Firenze] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra

Diploma di laurea di Pertini presso l’Istituto «Cesare Alfieri» di Firenze, 1924 [Archivio Storico dell’Università degli Studi di Firenze] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra

Un’immagine dell’originale della tesi di laurea di Pertini, 1924 [Biblioteca Umanistica dell’Università degli Studi di Firenze] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra

Un’immagine dell’originale della tesi di laurea di Pertini, 1924 [Biblioteca Umanistica dell’Università degli Studi di Firenze] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra

Un’immagine dell’originale della tesi di laurea di Pertini, 1924 [Biblioteca Umanistica dell’Università degli Studi di Firenze] – immagine qui ripresa da Sandro Pertini. La Cooperazione, Op. cit. infra
La lunga parentesi francese termina nel marzo 1929, quando con documenti falsi raggiunge l’Italia attraverso la Svizzera. Mentre cerca vanamente di prendere contatto con altri gruppi di antifascisti, è riconosciuto e arrestato a Pisa; deferito al Tribunale Speciale, viene condannato a dieci anni e nove mesi di reclusione: la pena sarà in seguito ridotta a sette anni per indulto. Per Pertini, che accoglie la sentenza inneggiando al socialismo, inizia così la lunga peregrinazione per i luoghi della reclusione politica italiana sotto la dittatura. Tra la fine del 1929 e il 1930 è in carcere (con i dirigenti comunisti Umberto Terracini e Mauro Scoccimarro), nell’ergastolo di Santo Stefano che aveva ospitato Luigi Settembrini, e dove aveva trovato la morte l’anarchico Gaetano Bresci. Un appello internazionale della Lega dei diritti dei popoli spinge le autorità italiane a trasferirlo per motivi di salute al carcere per malati cronici di Turi, unico socialista con diciassette comunisti (tra i quali Antonio Gramsci, di cui diviene amico) e tre anarchici. Nel 1932 è trasferito al sanatorio giudiziario di Pianosa, dove tuttavia le sue condizioni di salute si aggravano, tanto da spingere la madre ad avanzare domanda di grazia; il tentativo, sdegnosamente respinto da Pertini stesso, è causa di un drammatico allontanamento dall’amata madre, cui rimprovererà per lungo tempo l’iniziativa.
Nonostante le restrizioni carcerarie, riesce inizialmente a riprendere gli studi di storia contemporanea ed economia politica, su testi consigliati da Turati; durante la detenzione a Pianosa subisce tuttavia restrizioni sempre più pesanti, nonché un ulteriore processo per oltraggio ad un secondino. Dopo sei anni e mezzo di carcere, nel settembre 1935, è trasferito a Ponza per scontare i cinque anni di confino comminati nel 1926: qui ritrova Terracini e Scoccimarro, e vive a contatto con Camilla Ravera, Pietro Secchia, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Riccardo Bauer. Dopo un breve soggiorno alle Tremiti, nell’agosto 1940 è riassegnato al confino di Ventotene per ordine diretto di Mussolini, alla cui caduta, dopo quattordici anni, riacquista la propria libertà.
(a cura di) Sebastiano Tringali, Sandro Pertini. La Cooperazione (tesi di laurea discussa da Alessandro Pertini nell’anno 1924 presso l’Istituto di Scienze sociali «Cesare Alfieri» di Firenze), Ames, Associazione aderente a Legacoop, Genova, 2012

Esce [Sandro Pertini] dalla guerra con molti interrogativi e molte frustrazioni come tanti altri giovani della sua generazione, ma pur divenuto presidente dell’associazione combattenti di Stella, non partecipa all’onda “diciannovista”, non si fa attrarre dalle sirene del fascismo, del dannunzianesimo e dei corifei della “vittoria mutilata”. Ma è l’assassinio di Matteotti a chiarire definitivamente l’orizzonte politico al giovane Pertini: due giorni dopo la scoperta della salma del leader socialista si iscrive al Psu, il partito socialista riformista di Turati, Treves, Matteotti e Carlo Rosselli, nato dall’espulsione dei riformisti al XIX congresso del Psi, ormai dominato dai massimalisti.
La pubblicazione nel 1925 di un opuscoletto “Sotto il barbaro dominio fascista”, nel quale condannava le profanazioni squadriste alla croce che la moglie di Matteotti aveva messo nel luogo del ritrovamento del corpo di suo marito e la codarda subalternità della magistratura ai voleri del duce, gli valse la prima condanna da parte del regime fascista e la sua vita di oppositore del regime lo portò inevitabilmente sulle vie dell’esilio.
Dopo lo scioglimento del Psu e le leggi “fascistissime” scappa insieme a Turati, Parri e Carlo Rosselli con una clamorosa fuga prima in Corsica e a Parigi, per stabilirsi poi a Nizza, dove vivrà di numerosi mestieri, senza mai smettere di dedicarsi alla causa antifascista.
Ma anche in questa difficile esperienza di fuoriuscito il filo che legava il suo impegno nella lotta contro il regime alle sue profonde convinzioni politiche emerge con nettezza. Operò infatti sia nella Lega per i diritti dell’uomo, la vecchia organizzazione umanitaria fondata nel 1919 dal primo sindaco laico di Roma Ernesto Nathan e poi diventata all’estero il luogo di incontro e di impegno dell’antifascismo socialista e democratico, da Pietro Nenni a Luigi Campolonghi, da Treves a De Ambris, a Facchinetti (che qui mi fa piacere ricordare perché come ministro del secondo governo De Gasperi propose di assumere Fratelli d’Italia come inno nazionale), sia nella Concentrazione antifascista, altro centro organizzativo unitario dell’antifascismo riformista italiano, insieme a Saragat e a Buozzi, e poi ai dirigenti di Giustizia e libertà. Si delinea in lui anche qui un orizzonte politico molto chiaro: socialista, riformista, ma fortemente unitario, nella convinzione che solo l’unità delle forze antifasciste avrebbe potuto efficacemente combattere il fascismo.
Dopo l’arresto a Pisa nel 1929 inizia per lui una peregrinazione nel sistema carcerario fascista da Santo Stefano a Turi, da Pianosa a Ponza e a Ventotene, nel quale incontra e intreccia rapporti umani e politici con le figure di maggior spicco dell’antifascismo italiano: a parte Gramsci morto nel 1937, basta scorrere i nomi per avere uno spaccato significativo della futura classe dirigente repubblicana, a dimostrazione che nelle reti organizzative dell’antifascismo
in carcere e fuori, che alla fine degli anni Trenta apparivano sconfitte e marginali, era in realtà cresciuto non solo un blocco di forze, ma anche una élite politica, cui il collasso del fascismo e la sconfitta bellica avrebbe consegnato l’Italia per ricostituirla.
Infatti l’8 settembre spariglia le carte della situazione italiana: lo sbarco in Sicilia e l’avanzata angloamericana divide in due la penisola, ormai campo di battaglia e terra di occupazione nazista. Ma Pertini riprenderà ancora la via del carcere a Regina Coeli: condannato a morte dalle Ss, nel gennaio del 1944 riesce a fuggire, aiutato dai compagni di una brigata partigiana Matteotti, capeggiata da Giuliano Vassalli.
In seguito raggiunge Milano, dove entra a fare parte della Giunta militare del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia per dirigere la Resistenza nell’Italia del nord, occupato dall’esercito tedesco. Nel capoluogo lombardo il 29 marzo del 1945 costituì, con Leo Valiani per il Partito d’azione ed Emilio Sereni per il Pci, il Comitato militare in seno al Clnai con lo scopo di preparare l’insurrezione che lo stesso Pertini annunciò il 25 aprile alla radio.
Alberto De Bernardi, Pertini: uomo della democrazia, uomo della Repubblica in Pertini… uno di noi, Op. cit.

Venni a Roma nel 1944, nell’estate, agosto, settembre. E’ stato un viaggio molto avventuroso. Però, nonostante mi fossi indispettito con Nenni perché mi aveva chiamato qui a Roma distogliendomi dalla lotta che sostenevo a Milano, ecco che da un male è venuto un bene, perché ho potuto partecipare all’insurrezione di Firenze, nell’agosto del 1944. Arrivato a Roma capii presto che la mia presenza era inutile, che quindi dovevo andare su nel Nord perché a Roma si stavano dividendo le poltrone ministeriali: io non ho mai avuto una poltrona ministeriale, tra me e le poltrone ministeriali c’è sempre stata una antipatia profonda e solenne. Allora decisi di tornare su nel Nord, dove io ero il segretario del partito socialista per tutta l’Italia occupata dai nazisti e dai repubblichini e facevo parte del Comitato di Liberazione Alta Italia in rappresentanza del PSI.
… Si pensò subito di mandarmi con un sottomarino verso l’Istria, ma questa proposta cadde; poi si pensò di paracadutarmi e finalmente si accettò una mia proposta. Allora venni portato in aereo da Napoli a Lione, da Lione a Digione, poi da Digione andammo giù in macchina a Chamonix. Lì presi contatto con il maquis francese, comandato da un colonnello…
Decidemmo di attraversare il Monte Bianco. Rassicuro il colonnello dei maquis dicendo che ho fatto tante volte i 4000 metri, e invece non era vero. Ci portarono su al Corn du Midi. Io e Cerilo Spinelli, il fratello di Altiero, salimmo su una teleferica portamerci. “Non muovetevi”, ci dissero. “Se fate un dondolio, poi l’oscillazione aumenta e finite per cadere”. Era una teleferica a fondo piatto con un leggero rilievo laterale. Poi camminammo sulla neve alta. Faceva freddo. La pattuglia dei maquis aveva contatti radio continui con i partigiani della Valle d’Aosta. Tra questi c’era Emile Allais, un campione del mondo di sci, che dopo la guerra accenderà la fiaccola olimpica. Mi misero ai piedi delle racchette mai viste prima. Abbiamo fatto anche delle fotografie. Io provo le racchette e cado a testa in giù. Un maquis mi porta in una baracca dove posso asciugarmi.
Il tenente Frank venne con me fino al Monte Bianco, poi mi lasciò e diede alla guida delle sterline d’oro. “Le altre le avrà al di là dal monte”. Rimasti soli, dissi alla guida che non ero mai stato in montagna, ma ugualmente volevo attraversare la Mer de Glace e il Monte Bianco. Lui dice: “faremo due cordate”. “Non vi darò fastidio” risposi. Avevo calcolato, da genovese, che ormai mi avrebbero portato in Italia, se non altro per le sterline. Le due cordate procedevano. Diceva Leger: “Ma siete stanco o no?”. “Io no. Siete stanco voi!”. Un napoletano aveva freddo e diceva: “San Gennaro mio, o sole e’ Posillipo!”. Ci fanno salire e scendere varie volte, allora dico: “Basta! Voi avete perduto la strada! Sono io il capo della cordata. Fate il giro della montagna. Non possiamo essere lontani dal Rifugio Torino. Fate il grido della montagna”. Loro gridano e io dico “Hanno risposto”. Infatti ecco lo sciatore Emile Allais che mi prende in braccio. Gli dico: “Vengo con voi”. Di notte saltiamo un crepaccio: lui con gli sci, io legato a lui. Portavo uno zaino pesante come un sasso. Mi dà uno strattone e sono di là. Il villaggio è stato bruciato dai nazisti di Courmayeur. Io sto nudo nel sacco a pelo per fare asciugare i vestiti davanti al fuoco. Poi di giorno mi fanno vedere un crepaccio senza fondo. Era quello che abbiamo saltato di notte. Regalo una borraccia di argento massiccio a Emile Allais. Lui va via. Noi scendiamo verso Entreves. La neve smette di cadere e quelli della cordata ci conducono in un capanno. Le pattuglie tedesche venivano là spesso. Dicono: “Vi lasciamo qui, Sandro”. “Voi ci lasciate al nostro destino”, dico io. Dovevo dare loro la parola d’ordine da ripetere in Francia per Frank: se va così così “Londra”, se va bene “New York”, se va male “Roma”. Dico a Leger: “Ditegli Londra”. Poi li vedo partire. Restiamo io, Spinelli e i due telegrafisti. Nascondiamo i teli, le due trasmittenti e andiamo sulla cresta della neve.
Arriviamo al rifugio. C’erano brande accatastate, viveri, nutrimento inglese in pillole e cognac. Il radiotelegrafista napoletano: “Mo mangio gli spaghetti ‘e vongole da Zi’ Teresa”. Prendo il comando: la mattina vedo orme di stivali fuori dal rifugio, tutte le sere una pattuglia nazista veniva su, pernottava e tornava. I tedeschi avevano due contadine giù alla cascina che erano le loro amanti. Avevano fatto il giro del rifugio ed erano scesi alla cascina dalle due donne. I sacchi a pelo li lasciai ai partigiani di Entreves, di cui Allais mi aveva dato l’indirizzo. Mi tolsi di dosso le carte pericolose. Chiesi indicazioni a una donna che mi disse: “Sono scappati tutti, qui c’è stato un rastrellamento l’altra sera”. Le guide ci avevano abbandonato. Continuare era troppo pericoloso. Dicevano: “I tedeschi ci stanno osservando coi binocoli…”. Io, Spinelli e i marconisti passiamo la notte in un casolare abbandonato. All’alba decido di partire in avanscoperta e, per strada, incontro un giovane. E’ un partigiano. Dice che la zona è ancora nelle mani dei partigiani, ma l’attacco tedesco è imminente. Gli Alpenjager avanzano in fila indiana, protetti dal fuoco dei mortai e delle mitragliatrici. Dal bosco sovrastante noi tiriamo radi colpi insieme ai partigiani, scegliendo accuratamente il bersaglio, perché le munizioni sono agli sgoccioli. La colonna tedesca avanza sempre, incurante delle perdite. Giunge per i partigiani l’ordine di ritirarsi.
Sempre con Spinelli, mentre i due marconisti si dirigono verso la Svizzera, scendo su Aosta e poi mi dirigo verso Ivrea, schivando pattuglie e posti di blocco. Dai rapporti ricevuti a Milano sapevo che tutti i parroci della Valle d’Aosta erano antifascisti. Dico che voglio confessarmi. Due giovanotti mi portano dal parroco, ma poi tirano fuori gli “Sten” e chiedono: “Chi siete?”. “Dovrei chiedervi la stessa cosa. Gli “Sten” non mi fanno paura!” rispondo io. Per fortuna Frank li aveva informati via radio che “Sandro è in arrivo”. Dissi: “Sono Sandro. Sono partigiano”. Mi abbracciarono e dissero: “Sei stato intelligente a cercare il parroco. E’ giusto un partigiano fino ai capelli”. Era notte e ci mettemmo a dormire nei sacchi a pelo. La neve ci coprì come mummie. Poi scendemmo a Valsavarange, a Cogne e a Torino, dove conobbi Carla Voltolina. Carla fu al mio fianco a Milano, valorosa partigiana, dopo essere stata nelle formazioni partigiane a Visso, nelle Marche. E adesso è mia moglie. Da Torino, dopo un rastrellamento condotto dai russi bianchi, andammo a Milano ed era il dicembre del ’44, prima di Natale: l’ultimo Natale di guerra.
Intervista del presidente Pertini alla Radio Televisione Aosta, Roma, 18 gennaio 1979 in Gianni Bisiach, Pertini racconta, Milano, Mondadori, 1983, pp. 146-149, qui ripresa da Fondo Pertini