La Comunità israelitica reagì con una lettera di segnalazione al Questore

All’inizio del Novecento, grazie alla sua prosperità e al suo tasso di crescita, la Comunità ebraica di Trieste cominciò ad avvertire l’esigenza di concentrare tutta l’attività culturale in un unico luogo che, per sancire un’equiparazione ai gentili, fosse adeguatamente dimensionato e maestoso. Così, nel drammatico periodo che va dalla seconda metà degli anni Trenta alla prima metà degli anni Quaranta del Novecento, la Sinagoga divenne punto di riferimento, emblema simbolico e spazio reale della persecuzione antisemita.
Specialmente dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, nel giugno 1940, la persecuzione voluta da Mussolini si acuì e la Sinagoga fu oggetto di sfregi che imbrattarono il monumento, diventando offese destinate a colpire tutta la Comunità ebraica locale.
Documenti fotografici, giunti fino a noi da archivi privati, ritraggono sposi di guerra o bambine al Bat Mitzvà che in quegli anni sorridono in posa tra svastiche, croci uncinate e fasci littori, dipinti sui pilastri dell’entrata di via San Francesco.
Il crescendo di odio antisemita si spiega con il coinvolgimento dell’Italia nell’avventura della guerra totale. Ne furono protagonisti alcuni studenti degli Istituti superiori e del GUF nonché gruppi di squadristi che nell’ottobre 1941 lanciarono a più riprese bottigliette d’inchiostro rosso contro la facciata principale della Sinagoga. Anche altre sedi istituzionali, come l’Alloggio degli emigranti ebrei e la Scuola media ebraica di via del Monte, vennero imbrattate da scritte e colpite da sassi; l’insegna e la stella di David furono coperte di vernice e sugli scalini dell’ingresso vennero dipinti fasci littori e croci uncinate.
Il questore Capobianco, di fronte a questi ripetuti atti di violenza, intervenne con decisione per intensificare il servizio d’ordine e la vigilanza al Tempio israelitico ma, proprio nello stesso lasso di tempo, gli agenti di PS constatavano che «sulle tre facciate della Sinagoga figurano numerosissime scritte: “VINCEREMO” con emblemi fascio littorio e croce uncinata, nonché qualche scritta: “Morte ai giudei”, quasi tutte eseguite ad altezza d’uomo a caratteri cubitali».
Dato il susseguirsi continuo di atti criminosi, la Comunità israelitica reagì con una lettera di segnalazione al Questore, lettera che riassumeva l’elenco degli atti vandalici subiti, verificatisi a ritmo giornaliero, aggravati da numerosi maltrattamenti a membri della Comunità.
Lo stesso Questore dichiarò testualmente: «La popolazione commenta, non certo favorevolmente, che sovente oggetto di percosse pravengono fatte persone d’età avanzata e lamenta la mancanza di garanzia da parte dei dirigenti del partito e delle autorità». Poco dopo, «durante la funzione religiosa pomeridiana del sabato, destinata alla scolaresca, bande di fascisti circondarono l’edificio della Sinagoga, minacciando rappresaglie contro le persone convenute».
L’acme delle manifestazioni e degli attentati sembra dover coincidere, nel 1942, con la presenza a Trieste di Roberto Farinacci che, certamente non a caso, pubblicava da anni articoli estremamente aggressivi ed istigatori contro gli ebrei triestini, accusati di formare una quinta colonna, un fronte interno che manteneva relazioni con l’internazionale «anglo-comunistagiudaica». Avvicinandosi il giorno dell’arrivo del «ras» di Cremona, in occasione della commemorazione del ventesimo anniversario della marcia su Roma, circolarono in città voci allarmistiche, raccolte anche dalle autorità, su un progetto terroristico degli squadristi: «Si vociferava addirittura che questi pensassero d’incendiare la Sinagoga» per far trovare a Farinacci le rovine ancora fumanti e che «il prefetto li avesse diffidati dal farlo».
Il paventato incendio venne evitato, ma una diversa, feroce azione dimostrativa, non certo improvvisa e solo apparentemente ingiustificata, si verificò contro la Sinagoga. Così verbalizzarono le autorità locali: «Il 18 luglio 1942 nuovo assalto, ma ben più grave, al Tempio: gli squadristi penetrarono nell’interno compiendo una devastazione: banchi rovesciati e spaccati, lampadari abbattuti al suolo, libri bruciati o distrutti in altro modo, le due menorath dell’altare completamente ritorte nel vano tentativo di spezzarle, arredi sacri danneggiati».
Dell’episodio drammatico e vandalico della devastazione della Sinagoga fu responsabile un gruppo di una quindicina di individui, tra i quali più tardi si accertò la presenza di sette squadristi, la cui posizione fu aggravata dal sospetto che «all’atto dell’irruzione nella Sinagoga uno degli squadristi non identificato fosse provvisto di bombe SIPE».
Lo stesso giorno della tentata distruzione della Sinagoga vennero presi di mira anche l’Oratorio israelitico ed i locali dell’Alloggio per gli emigranti ebrei, gestito dal Comitato di assistenza; qui gli squadristi ruppero alcune panche e degli armadi, lacerarono vari libri di carattere religioso, fracassarono i vetri di alcune finestre, scassinarono diverse porte. Inoltre si verificarono casi di violenze su ebrei da parte di elementi fascisti e «gufino» che imbrattarono e maltrattarono le vittime rasando loro i capelli, intimidirono chi li accompagnava, compiendo le loro aggressioni tanto per strada quanto introducendosi in abitazioni private.
Su questi fatti gravissimi intervenne il presidente della Comunità israelitica di Trieste, Enrico Horitzky-Orsini, che sporse denuncia alla Procura. Nella Sinagoga – si legge nella relazione – gli aggressori «avevano recato seco anche una quantità di trucioli (dei quali alcuni non distrutti dalle fiamme rimasti sul posto) e fiaschi di spirito (ed anche di questi uno fu rinvenuto) ai quali fu appiccato il fuoco. Contemporaneamente venivano rovesciati banchi e la furia della sacrilega devastazione si scatenava contro l’altare. Ivi venivano rovesciati e ridotti in pezzi quattro pilastri di marmo belga di fattura antica, due maestosi candelabri di bronzo in parte smembrati in parte contorti; gettati a terra e danneggiati vari candelabri ed altri sacri arredi. Da segni manifesti risulta che gli aggressori colpirono, tentando di forzarla, l’Arca sacra contenente i rotoli della Legge senza però riuscirvi. Intanto il fuoco aveva intaccato alcuni banchi e libri di preghiera e le volute di fumo che avevano invaso tutto l’ambiente si espandevano verso l’esterno. I custodi del Tempio, impotenti ad opporsi alla turba armata, avvertivano i vigili del fuoco, che, prontamente accorsi, riuscivano a spegnere l’incendio prima che assumesse più vaste proporzioni. Nel frattempo gli aggressori uscivano per la stessa via attraverso la quale erano entrati e si allontanarono. La R. Questura avvertita telefonicamente inviò su tutti i due posti delle invasioni propri funzionari i quali però vi giunsero a devastazione compiuta».
Il presidente così concludeva il documento, dando prova di fermezza e di piena consapevolezza del significato dell’offesa patita: «Gli atti che qui si denunciano erano evidentemente intesi ad offendere la religione israelitica, culto ammesso nello Stato, mediante distruzione e vilipendio delle cose che ne formano oggetto e sono consacrate al culto o destinate necessariamente all’esercizio dello stesso. Si è perciò che, rispetto alla sacrilega devastazione del Tempio, passa in seconda linea il danno materiale, il quale tuttavia ammonta a parecchie diecine di migliaia di lire (per oggetti infranti, bruciati, danneggiati e mancanti – poiché anche dal Tempio Maggiore risultano mancanti alcuni paramenti sacri – nonché per gli ingenti danni occasionati dall’opera di spegnimento dell’incendio) a tacere dal fatto che andarono distrutti oggetti d’arte e cimeli insostituibili e particolarmente cari al cuore di ogni ebreo triestino, quali le ghirlande con bacche dorate e nastri tricolori con frange auree deposte ai piedi della lapide che ricorda i venti ebrei triestini volontari di guerra caduti per la redenzione di Trieste».
A documentare gli atti vandalici di devastazione della Sinagoga, rimangono alcune fotografie dell’interno del Tempio, scattate da un coraggioso fotografo: esse danno l’esatta impressione della portata degli incidenti.
Dopo l’istituzione della Zona d’Operazioni Litorale Adriatico, in seguito all’occupazione tedesca, la Sinagoga rimase aperta fino al gennaio 1944. Successivamente, divenne magazzino dei beni razziati dagli immobili di proprietà ebraica, e moltissimi libri, quadri e tappeti furono ammassati confusamente: poche immagini dell’epoca testimoniano la messa a soqquadro del luogo sacro. Nell’inverno 1943-44 vennero perpetrati altri sequestri illegali degli edifici della Comunità ebraica triestina e violenze contro chi li abitava. Così l’irruzione nella Pia Casa Gentilomo, asilo fondato da benefattori ebrei ancora nella seconda metà dell’Ottocento, portò alla deportazione dei circa sessantacinque vecchi ed ammalati che vi erano ricoverati.
Carlo Morpurgo, segretario della Comunità, che mantenne funzioni di riferimento per tutti gli ebrei che non erano in grado di fuggire dalla città, dopo la chiusura forzata degli Uffici fu deportato, assieme al custode e ad altri dipendenti, nel Lager di Auschwitz, dove tutti trovarono la morte. Nel marzo 1944 Trieste poté essere dichiarata dai nazisti Judenfrei. Dalla città erano state prelevate ben 708 persone, 512 delle quali sono le vittime ad oggi accertate. È però pressoché impossibile ricostruire dati certi ed assoluti.
Nel giugno 1945 la Sinagoga fu riaperta al culto dal rabbino militare dell’esercito britannico rav Liptscitz, assieme al presidente della Comunità Horitzky-Orsini, ad Aldo Osterman, del Circolo giovanile ebraico, e al signor Cesana.
Silva Bon, La devastazione della Sinagoga in Un percorso tra le violenze del Novecento nella provincia di Trieste, Volume pubblicato con il contributo della Provincia di Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2006

La Sinagoga deturpata dai fascisti nel 1941 – Fonte: Silva Bon, art. cit.

[…] Dal 1901 la Comunità riprese con rinnovato entusiasmo in mano la questione del nuovo Tempio, avviando le pratiche per un concorso di progetti e per l’acquisizione di un terreno adatto alla sua erezione. Scelta quest’ultima molto dibattuta, ma nel 1903 la decisione fu di scegliere via San Francesco, l’attuale sito del Tempio Maggiore, terreno posto al di fuori della tradizionale area di insediamento delle istituzioni comunitarie, che si accentravano nella zona dell’ex ghetto, situata a ridosso di Piazza dell’Unità d’Italia e di via del Monte, quest’ultima sede oggi delle scuole ebraiche e del Museo della Comunità ebraica “Carlo e Vera Wagner”.
Contestualmente fu indetto anche il concorso internazionale per il progetto, al quale parteciparono 42 professionisti, in gran parte provenienti dall’Europa centro-orientale, in prevalenza dall’Italia, ma anche da Vienna e Budapest. Il concorso, le cui realizzazioni progettuali furono visibili a tutta la cittadinanza, proprio perché si voleva costruire un’opera che divenisse parte del patrimonio della città, non fu vinto da nessuno, ma l’incarico su indicazione di un’apposita commissione fu dato a due architetti di Budapest: Emil Adler e Franz Matouschek, ai quali però la Comunità chiese dei cambiamenti al progetto originario, denominato “Patria”.
L’accordo non andò in porto, e il contratto con i due architetti ungheresi fu rescisso. A questo punto entrò in scena Ruggero Berlam, al quale la Comunità affidò la costruzione del Tempio. Nel 1906 Berlam assieme al figlio Arduino progettò il nuovo Tempio, e nel gennaio del 1907 i due presentavano i primi risultati con un preventivo dei costi che la Comunità dovette suo malgrado ridimensionare. Partirono così i lavori di costruzione dell’edificio e la posa della prima pietra fu solennemente festeggiata il 21 giugno 1908. Grazie agli sforzi di una dirigenza comunitaria infaticabile, il nuovo Tempio Maggiore, maestoso e imponente nel suo stile siriaco e nelle sue dimensioni, fu inaugurato davanti a tutta la città nel giugno del 1912, mentre la cerimonia fu accompagnata dalla musica dell’organo, che ancora oggi fa bella mostra di sé nella sinagoga. L’aula centrale è solenne e ariosa, ornata da eleganti lampadari e da fasce superiori decorate. È strutturata su tre navate e termina con un’abside, dove troneggia un imponente aròn ornato da un’edicola in granito rosa e da imponenti candelabri di bronzo a sette braccia (menoròt).
Nel corso dei decenni il Tempio, di rito tedesco, è stato testimone e anche vittima di tutte le vicende che hanno coinvolto gli ebrei triestini e l’intera città durante il periodo delle leggi razziali fasciste promulgate nel 1938 e all’epoca dell’occupazione nazista della città. Imbrattato all’esterno una prima volta nell’ottobre del 1941 con frasi ingiuriose dai fascisti, fu devastato pesantemente anche internamente il 18 luglio 1942 da un gruppo di squadristi. Con l’occupazione nazista, nel 1944 la sinagoga fu trasformata in magazzino per i beni degli ebrei e fu ulteriormente danneggiata all’interno.
Nel giugno del 1945 la cerimonia di riapertura del Tempio di fronte alle forze alleate segnò il ritorno alla vita dei sopravvissuti della comunità ebraica locale; e nel giugno del 2012 la Comunità ha festeggiato assieme a tutta la cittadinanza il primo centenario del Tempio.
Tullia Catalan, La Sinagoga segno forte della presenza, della storia ebraica, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia

Il 1942 fu l’anno in cui la situazione dell’ordine pubblico in città iniziò a degenerare.
Fu l’anno della devastazione della sinagoga (18 luglio) e anche l’anno in cui venne creato a Trieste, dopo quelli di Milano, Firenze ed Ancona, un Centro per lo studio del problema ebraico, dipendente dall’Ufficio studi e propaganda sulla razza del ministero per la Cultura popolare, la cui giurisdizione abbracciava le province delle Tre Venezie.
La direzione venne affidata all’avvocato Ettore Martinoli, mentre vicedirettore fu nominato il segretario del GUF (Gruppo universitario fascista) Ugo Lanza. Nella lotta contro i nemici del Partito fascista gli squadristi erano così supportati dai giovani universitari triestini che, dalle colonne del quindicinale «Decima Regio», lamentavano l’indifferenza dei cittadini verso il «pericolo giudaico» e ricordavano come Trieste fosse stata la città che più di ogni altra aveva dovuto subire la dominazione dell’ebraismo.
Il culmine della violenza in città venne raggiunto nel maggio del 1943, con la devastazione di alcuni negozi in pieno centro nel giorno dei funerali di sei militi fascisti, uccisi in un’imboscata nei pressi di Raute di San Giacomo in Colle (sembra che anche il negozio dei fratelli Forti, commercianti, fosse stato colpito). Le autorità rimasero inerti, se non complici.
Il federale Giovanni Spangaro lasciò mano libera agli estremisti del Partito <6, mentre il prefetto Tullio Tamburini si limitò ad invitare gli squadristi a scegliere con maggior cura il bersaglio e non toccare vecchi e bambini ebrei, tenendo sempre presente il giudizio che poi avrebbe dato sul loro operato l’opinione pubblica, per evitare una frattura insanabile tra il PNF e il popolo. A seguito di questi episodi, Francesco Giunta fu nominato governatore della Dalmazia, mentre tre squadristi vennero mandati al confino; per altri colpevoli di vandalismo rinchiusi in carcere, solo dopo il 25 luglio sarebbe stato istituito un processo, ma gli stessi, con l’arrivo dei tedeschi, avrebbero riacquistato la libertà. Il federale Giovanni Spangaro venne sostituito da Mario Macola il 5 luglio 1943. Di pari passo con l’accrescersi della violenza, a caratterizzare gli ultimi mesi di vita del regime fascista fu il moltiplicarsi delle manifestazioni propagandistiche e coreografiche decise dal Partito.
6 E. Apih, Dal regime alla resistenza. Venezia Giulia 1922-1943, Del Bianco, Udine 1960, p. 118.
Raffaella Scocchi, Il PFR a Trieste: premesse per una ricerca, Quale Storia, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Anno XLIV, N.ro 2, Dicembre 2016

[…] Nel settembre 1938, in un discorso pronunciato proprio a Trieste, in piazza Unità, Benito Mussolini annuncia la promulgazione delle leggi razziali. Si sancisce così la completa espulsione dei cittadini ebrei dalla società civile. Si limita il loro diritto di proprietà e, con effetto retroattivo, si revoca la cittadinanza italiana a quanti l’hanno ottenuta dopo il 1919, creando così circa 500 apolidi privi di ogni protezione, impossibilitati anche a emigrare perché privi di passaporto.Il 22 febbraio 1939, viene sciolta la Comunità israelitica che fino allora aveva rappresentato un elemento fondamentale di riferimento e di coesione. Dal 1941, anche sulla scia degli eventi bellici, la persecuzione si fa via via più aspra. Gli incidenti e i maltrattamenti si susseguono fino alla devastazione, il 18 luglio 1942, della maestosa Sinagoga.Le intimidazioni e le aggressioni contrassegnano anche il 1943, anno che rappresenta un momento di drammatica svolta per la Comunità di Trieste, l’8 settembre scatta il piano d’occupazione tedesco e Trieste, capoluogo del Litorale adriatico, viene posta sotto il diretto controllo germanico. La politica antisemita volge ora alla soluzione finale.
Tra novembre e dicembre del 1943 la Risiera di San Sabba, complesso di edifici industriali dei primi Novecento, un tempo adibito alla pilatura del riso e poi a caserma, viene trasformato nell’unico campo di sterminio realizzato sul territorio italiano. A gestirla sono chiamati militari e ufficiali già sperimentati nelle atrocità della soluzione finale in Polonia. Alla Risiera trovano la morte tra le 4 e le 5 mila persone, per lo più oppositori politici, partigiani italiani, sloveni e croati.Le vittime ebree sono meno di un centinaio. Per gli ebrei il campo di San Sabba è infatti solo una sistemazione temporanea in attesa della deportazione, di solito in direzione Auschwitz. La Comunità triestina è colpita nel profondo. Almeno 700 persone, il 10 per cento degli ebrei italiani furono deportati e faranno ritorno dai campo di sterminio solo in 19, soprattutto donne, che testimonieranno l’orrore subito. Dopo la guerra rientra in città un migliaio di sopravvissuti nascostisi in Italia o in Svizzera. Molti di loro emigreranno in Palestina o nelle Americhe. Rimangono a Trieste circa 1500 ebrei e a metà degli anni ‘60 un netto scompenso tra morti e nascite ridurrà il loro numero di circa 500 unità.Oggi la Comunità ebraica di Trieste conta quasi 600 iscritti ed è considerata a livello nazionale una realtà media.
Redazione, Ghetto Ebraico di Trieste, Yes Tour