Poi per Piero Calamandrei vennero i giorni esaltanti della Costituente e della fondazione della Repubblica

Collicello d’Amelia, provincia di Terni – Foto: Vincenzo di Vincenzo

Piero Calamandrei è stata una figura decisiva della storia italiana, non solo del diritto: docente universitario e rettore dell’Università di Firenze, avvocato e presidente del Consiglio nazionale forense, tra gli autori del Codice di procedura civile, tutt’oggi in vigore, membro eminente dell’Assemblea Costituente, occupandosi in particolare delle garanzie istituzionali e del potere giudiziario; polemista acuto e scrittore fecondo, non solo di cose giuridiche.
È praticamente sua la formula del 2’ comma dell’art. 3 della nostra Costituzione, quella che recita:
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Nei primi anni ‘40 Calamandrei, voluto dal ministro guardasigilli fascista Dino Grandi, faceva parte della Commissione chiamata a redigere il nuovo Codice di procedura civile, insieme ai colleghi Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti – tutti e tre noti antifascisti. In quegli anni rischiò l’arresto, per una denuncia maturata nell’ambiente forense; l’arresto, secondo il suo diario, sarebbe stato scongiurato all’ultimo momento grazie a un intervento diretto proprio del ministro.
Dal 1939 infatti il giurista fiorentino teneva un diario personale, che in certi giorni – quei giorni della guerra nei quali gli sembrava probabile la vittoria dell’Asse – immagina come una sorta di lascito ai posteri da parte di uno degli ultimi rappresentati della civiltà che stava per essere rasa al suolo dalla furia nazista; una civiltà scomparsa, da raccontare ad ignari archeologi del futuro.
Si immaginava come Montaigne, rinchiuso nella sua torre, disgustato dal presente e alla ricerca di se stesso.
Il 25 luglio 1943, la caduta del fascismo e gli eventi che ne seguirono videro Calamandrei eletto per poche settimane rettore dell’università di Firenze, ma l’invasione tedesca dell’Italia e la proclamazione della Repubblica sociale costrinsero il giurista alla fuga dalla città, per evitare l’arresto che sicuramente sarebbe stato ordinato contro di lui.
Si trasferì prima a Montepulciano, nel palazzo dei nonni, in cui passava le vacanze da bambino; poi, sentendosi braccato e immaginando che quel nascondiglio potesse essere prevedibile e poco sicuro, si rifugiò nel piccolo borgo di Collicello d’Amelia, nella campagna umbra.
Lì rimase fino alla Liberazione.
Arrivato in quel paese, che nel diario descrive amabilmente, con lo stile sicuro dell’uomo appassionato di lettere, quello stile che ha reso famose le pagine del suo Inventario della casa di campagna, annota il 23 ottobre 1943:
“Questo, in tempi normali potrebb’essere il luogo ideale per il riposo: qualche settimana di compiuto isolamento, senza libri, senza lavoro, in questa serena cordialità di paesaggio e di ambiente familiare (…) Ma questo, che dovrebbe essere riposo, è per me nascondiglio e angosciosa attesa: e tutte le cose e le persone d’intorno si colorano di questa sfumatura d’ansietà, che dà al mondo un tono come di sogno o d’incubo”.
Nonostante ciò, molte pagine del diario del periodo del forzato soggiorno umbro restano memorabili: descrizioni della natura, con annotazioni sul paesaggio, la luce, i fiori e gli alberi nelle diverse stagioni – Calamandrei possedeva un erbario ed era appassionato di botanica – dei personaggi, persino degli animali, anche i più umili, che animavano la vita del paesello sulla collina: pagine che spesso si aprono in un controllato ma palpitante lirismo.
Il 9 novembre del 1943 però annota nel diario:
“Mi accorgo in questi giorni quanto sia artificioso e convenzionale concepire il nostro pensiero come qualcosa di lineare e di definito che si svolga con continuità logica isolato nella mente come su uno sfondo vuoto: in realtà la coscienza è come un continuo flusso di pensieri amalgamati eterogenei, come una corrente in cui affiorano ogni tanto ragionamenti individuati e poi il filo si spezza e si risommergono come relitti sbattuti dalle onde in piena: e in questo amalgama si sovrappongono e si confondono sensazioni fisiche e angosce morali”.
È singolare trovare questo riferimento al “flusso di coscienza” in un giurista, un intellettuale, di chiarissima matrice illuminista. Un’angoscia, che turba il carattere univoco della percezione, del discernimento e della comprensione del mondo e persino di sé: quella stessa univocità che spesso è il presupposto logico di tanta scienza giuridica – si pensi solo alle teorie dell’imputazione o della colpa nel diritto penale, o anche, in fondo, allo stesso principio di autodeterminazione, fondamento delle libertà moderne – si incrina, trovando come una crepa. Ancora nel diario, Calamandrei annota che in quei giorni spesso ricorreva a sonniferi per riuscire a dormire la notte.
Si tratta di un’angoscia resa con accenti inaspettati.
Ora, in quale rapporto era il giurista fiorentino con la psicanalisi? Verosimilmente nessuno. Nei suoi diari non si riviene mai il nome di Sigmund Freud, né di altri padri della scuola. E soprattutto non vi è neppure un accenno a possibili interpretazioni psicanalitiche di eventi o persone.
Forse bisogna indagare tra le sue passioni letterarie. E due indizi probabilmente ci aiutano: il primo è la pagina del diario datata 15 luglio 1940 – l’Italia è appena entrata in guerra contro Francia e Inghilterra, e sui giornali gli intellettuali fanno a gara ad esprimere opinioni appiattite sulla decisione del regime. La nota è un tipico esempio di prosa ironica calamandreiana, ora sulla proverbiale ignoranza fascista, che era dilagata anche nell’università. Calamandrei forse ci mette pure un suo tocco di scaramanzia:
“In un articolo pubblicato sulla «Nazione», l’innominabile universitario fiorentino addita Joyce come lo scrittore più rappresentativo del caos mentale e dell’immoralismo inglese: infatti Joyce è irlandese, vive a Parigi, ha scritto Ulisse a Trieste.”
Un altro è invece del 26 agosto 1944. Firenze è stata appena liberata e Calamandrei si trova a Roma: racconta di un appuntamento in piazza S. Pietro con l’amico Giorgio La Pira; incontra pure S.E. Antonio Lanza, arcivescovo di Reggio Calabria, che si offre di far accompagnare la signora Ada, la donna con “gli occhi stellanti”, da Collicello a Montepulciano con la sua macchina; poi va a una riunione del Partito d’Azione con Tristano Codignola; ma una lettera di Lea, la fida segretaria, gli turba la giornata. Lea infatti gli annuncia da Firenze che le sue carte e i libri a cui più teneva non c’erano più, erano stati rubati. La villa dei parenti a cui aveva chiesto di tenere quelle che giudicava le sue cose più preziose – tra cui un manoscritto inedito di Benvenuto Cellini – era stata infatti distrutta dai bombardamenti. Poi erano passati gli sciacalli.
Lui commenta:
“Tutti i miei libri migliori (gli Scrittori d’Italia, la Plèiade, Proust…)”.
In realtà non era andata proprio così, la signora Lea era stata troppo frettolosa e pessimista: la villa era stata sì distrutta, ma i cugini di Calamandrei erano riusciti a portare in salvo le cose di Piero, che successivamente poté pubblicare anche il suo manoscritto celliniano.
In ogni caso, abbiamo i nomi di Joyce e Proust.
Appare così verosimile che quella descrizione così vivida del “flusso di coscienza” durante la stagione dell’angoscia a Collicello trovasse la sua origine in un’attenta e devota consuetudine con la Recherche e l’Ulisse.
Poi vennero i giorni esaltanti della Costituente e della fondazione della Repubblica. Riferimenti bibliografici:
Piero Calamandrei, Diario, I, 1939-1941, Roma, ult. ed. Edizioni di Storia e Letteratura, 2015;
Diario, II, 1942-1945, Roma, ult. ed. Edizioni di Storia e Letteratura, 2017;
Inventario della casa di campagna, Le Monnier, Firenze, 1941 ult. ed. Edizioni di Storia e Letteratura, 2013;
Scritti e inediti celliniani, a cura di Carlo Cordié, La Nuova Italia, Firenze, 1971;
L’avvenire dei diritti di libertà, Galaad, Giulianova (TE), 2018;
Ada con gli occhi stellanti, Sellerio, Palermo, 2005;
Galante Garrone, Calamandrei. Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi, Monte Porzio Catone (RM), 2018;
Roncarati – R. Marcucci, Codici e rose. L’erbario di Piero Calamandrei tra storia, fiori e paesaggio, Verona, Olschki, 2015.
Carlo Pontorieri, La coscienza di Piero Calamandrei a Collicello d’Amelia (1943-1944), Nuova Atlantide, 13 dicembre 2018

Nel 2018 La Scala ha presentato il volume “La politica non è una professione” di Piero Calamandrei, undicesimo volume della collana Diritti – Società – Frontiere, Edizioni Henry Beyle.
“Bisogna ricominciare a distinguere che altro è il lavoro professionale redditizio e altro l’ufficio politico gratuito, e che chi mescola le proprie cariche politiche con i propri affari personali, inquinando nello stesso tempo la vita privata e la vita pubblica, le ragioni della politica e quelle della scienza e dell’arte, non è un grande politico, né un grande scienziato, ma è semplicemente un miserabile cialtrone”. Chi pensate lo abbia scritto? Un antiberlusconiano invasato, da anni in attesa di veder finalmente approvata una vera legge sul conflitto d’interessi? Un antirenziano moralista che storce il naso davanti alle riunioni di corrente tenute da Matteo Renzi negli uffici dell’azienda farmaceutica di famiglia del capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci? O peggio ancora un indefesso populista demagogicamente convinto che “la politica non è una professione e che gli onori si chiamano così perché non danno guadagno”. No, questa frase non esce dalla penna e dalla mente (per molti malata) di nessuno di loro. A metterla nero su bianco, nell’agosto del 1943, è stato Pietro Calamandrei, il più citato, ma meno ascoltato, tra tutti i nostri Padri costituenti. A lui nel corso degli anni sono state intitolate decine di scuole, aule, lapidi, luoghi di riunione e, per celebrare e ricordare il fine giurista, anche un palazzo di giustizia. È l’omaggio ipocrita di una nazione da sempre condannata a commettere gli stessi errori.
Così, rileggendo le 23 pagine di “La politica non è una professione”, ben ristampate in tiratura limitata dalle Edizioni Henry Beyle, viene da chiedersi quante e quali polemiche susciterebbe oggi il pensiero di Calamandrei se in Parlamento qualcuno ripetesse che “affinché si crei una classe politica capace di dirigere il Paese, occorre (…) gente che sappia prima di tutto governarsi in modo onesto in casa sua e nella propria professione, perché non possono aspirare a dirigere il proprio Paese coloro che nella loro cerchia famigliare e nella propria economia privata ostentano esempi clamorosi di malgoverno o di malcostume. Educazione politica ed educazione morale sono la stessa cosa: per esercitare con purezza gli incarichi politici a beneficio della collettività ci vuole (…) quello stesso senso del dovere che si dimostra prima di tutto nel compiere con onestà il proprio lavoro o nel sacrificarsi con semplicità per i figliuoli”.
Sì, non è difficile capire che nell’Italia capovolta di questi anni, le parole di Calamandrei verrebbero bollate in tv come antisistema e che frotte d’intellettuali, sulle ali di un revisionismo sempre più di moda, definirebbero falsa pure la sua analisi sui comportamenti dei tanti gerarchi fascisti. Uomini che si “erano mossi sapendo con lucida freddezza cosa volevano: invece che la via degli studi, lunga e faticosa e raramente fertile di guadagni cospicui, essi videro nella violenza politica il mezzo sbrigativo per arrivare rapidamente alla ricchezza; e nella prepotenza connessa ai pubblici uffici il mezzo per difenderla e per accrescerla”.
Peter Gomez, Piero Calamandrei, “La politica non è una professione”, Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2018

Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà […].
La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […].
La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società […].
A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.
Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. È l’art. 34, in cui è detto: “La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Questo è l’articolo più importante della nostra Costituzione.
Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei pubblicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei pubblicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra Repubblica, domandiamoci: com’è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di Stato. Lo Stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello Stato sia ottima (applausi).
ùVedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l’accento su quel comma dell’art. 33 della Costituzione che dice così: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Dunque, per questo comma […] lo Stato ha in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo Stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo Stato ha una funzione di realizzazione […].
Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole.
La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione.
La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti.
La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione: dell’art. 3:
“Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”.
E l’art. 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni […].
Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo Stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell’articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere la istituzione di scuole che meglio corrispondano con certe garanzie che ora vedremo alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo Stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici. La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.
La scuola della Repubblica, la scuola dello Stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: (1) che lo Stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. (2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo Stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c’erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l’espressione, “più ottime” le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo Stato, non motivo di abdicazione.
Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo Stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di Stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più. Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di Stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo Stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di Stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c’è un’altra forma per arrivare a trasformare la scuola di Stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora, il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.
Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna di­scutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: (1) ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione […]. Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito […].
Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell’art. 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: “Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato”. Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche […]. Ma poi c’è un’altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la “frode alla legge”, che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla […]. E venuta così fuori l’idea dell’assegno familiare, dell’assegno familiare scolastico.
Il ministro dell’Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: ‘la scuola privata deve servire a “stimolare” al massimo le spese non statali per l’insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo Stato dia sussidi alle scuole private’. Però aggiunse: ‘pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo Stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo Stato ed ha un sussidio, un assegno’ […].
Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l’arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l’arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! […]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito […].
Piero Calamandrei, Discorso pronunciato al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950, pubblicato in Scuola democratica, periodico di battaglia per una nuova scuola, Roma, IV, suppl. al n. 2 del 20 marzo 1950, pp. 1-5