La grande operatività delle brigate comuniste nella Capitale fu dovuta alla felice intuizione di Amendola di arruolare nei Gap le nuove leve

Prati è sempre stato il quartiere della borghesia intellettuale romana di estrazione liberal-democratica ed era perciò pacifico e naturale che i figli della intelligencija romana, molti dei quali furono educati culturalmente al liceo classico statale Terenzio Mamiani, aderissero con convinzione alla lotta antifascista e entrassero a far parte delle formazioni partigiane del “partito degli intellettuali”.
Infine dopo il Pci e il Pd’A, tra le forze del CLN che diedero il proprio contributo alla lotta armata ai nazifascisti figura il PSIUP, che era la nuova denominazione assunta dallo storico Partito Socialista nella fase di sua ricostituzione dopo un ventennio di persecuzioni ed esili. Lo scarso contributo apportato alla Resistenza romana dalle brigate socialiste – giudizio peraltro confermato nel resoconto prodotto dal PSIUP sull’attività militare a Roma e nel Lazio in cui si evidenziavano le difficoltà nella “creazione di proprie squadre di azione popolare […] dato lo stato embrionale del Partito a Roma” e “le numerosissime deficienze rilevate nella nostra organizzazione militare” – fu dovuto principalmente all’arresto e al successivo imprigionamento il 15 ottobre 1943 di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, due tra i principali esponenti socialisti a Roma, in particolare il secondo che era il responsabile militare del PSIUP nel Cln. La guida dell’organizzazione militare, fino alla liberazione di Pertini il 22 gennaio ’44, fu assunta da Giuseppe Gracceva. Nonostante le citate difficoltà organizzative, il resoconto elenca una serie di azioni di guerriglia messe in atto dalle Brigate Matteotti, di cui la prima è un multiplo omicidio commesso in ottobre ai danni di 4 spie al soldo dei nazifascisti, uno a ponte Sisto, uno a via Renella, uno al Ponte Mazzini (Trastevere) e uno a piazza Verdi (Parioli). Il rapporto cita anche una significativa impresa intrapresa dalle squadre socialiste in dicembre e consistente in un “ […] colpo di mano per la liberazione delle vittime delle retate alla caserma della 81° Fanteria di viale Giulio Cesare nella quale rimasero uccisi alcuni tedeschi e fascisti”. Sempre in dicembre le Brigate Matteotti avevano cominciato un’intensa opera di intercettazione delle denunce e delle informazioni che si scambiavano per posta i nazifascisti, opera permessa dal compagno Tommaselli, grazie ai cui contatti all’interno del servizio postale della Capitale essi poterono intercettare tutta la corrispondenza diretta al Fascio Repubblicano locale ottenendone importantissime informazioni riguardo alle ricerche e alle azioni repressive nei confronti dei patrioti locali i quali si poterono mettere in salvo. In febbraio ha luogo quella che è la più importante azione delle squadre d’azione socialiste sul territorio di Roma, ovvero il minamento di un treno carico di munizioni tedesche alla stazione Ostiense, che ne provocherà l’esplosione. L’azione fu rivendicata da una banda Matteotti guidata da Cracceva e dai fratelli Edoardo e Cosimo Vurchio.
Le altre forze cielleniste, come detto, erano contrari al perseguimento di una lotta armata all’occupante e coerenti con la linea attendista da loro decisa non commetteranno azioni di guerriglia; ciò non gli risparmierà l’atteggiamento cruento e repressivo delle truppe d’occupazione naziste e dei loro sgherri fascisti, come ne è testimonianza l’arresto in data 1° marzo di Nicola Angelucci, importante membro democristiano del CLN, Giuseppe Intersimone e la figlia di Ercole Chini, il responsabile dell’organizzazione militare della DC.
La lotta partigiana a Roma; il predominio gappista
La forza ciellenista principale artefice della lotta antifascista fu, come detto, il Partito Comunista che, appurata l’impossibilità di giungere a una decisione collegiale univoca sull’organizzazione della guerriglia urbana, decise di svolgere in maniera autonoma la lotta armata. A tal scopo sin dal novembre ’43, anche su sollecitazione dei dirigenti settentrionali del partito che lamentavano la scarsa operatività delle squadre comuniste nella capitale, l’organizzazione militare del partito capitolina – alla cui guida vi era Giorgio Amendola – stabilisce la costituzione dei Gruppi di Azione Patriottica, più noti con l’acronimo di GAP. Vi era un Gap per ogni zona. Per primi vennero costituiti i Gap delle zone centrali (i cd. Gap centrali), il “Pisacane”, il “Gramsci”, il “Garibaldi”, il “Sozzi”. La struttura organizzativa dei Gap centrali era molto verticistica; al comando della struttura vi era Antonello Trombadori, sotto cui vi erano i coordinatori delle squadre (Carlo Salinari era il responsabile dei Gap Gramsci e Pisacane, mentre Franco Calamandrei era il responsabile dei Gap Garibaldi e Sozzi), infine ciascun Gap aveva il proprio comandante.
La grande operatività delle brigate comuniste nella Capitale fu dovuta alla felice intuizione di Amendola di arruolare nei Gap le nuove leve, e quindi quella generazione di giovani iscritti al partito estranea dalle lotte del passato, pressoché del tutto sconosciuta alla polizia politica; esponenti di spicco di questa nuova generazione erano Franco Calamandrei, Trombadori, Bentivegna, Mario Fiorentini, Carlo Salinari e poi un manipolo di donne, giovanissime, come Maria Teresa Regard, Marisa Musu e Carla Capponi. Tutti questi gappisti condividevano, oltre che la giovane età, anche l’estrazione sociale medio o alto borghese e la provenienza dai quartieri più culturalmente stimolanti della Capitale; anche questa caratteristica era il frutto di una precisa scelta di Amendola, il quale, consapevole che i tedeschi erano soliti andare a cercare nei quartieri popolari gli esecutori di azioni di guerriglia urbana, decise di affidare a questi insospettabili ragazzi della borghesia intellettuale l’esecuzione delle azioni di lotta più audaci, lasciando così i tedeschi – che faticosamente si affannavano a scovare “sovversivi” laddove di solito vi erano sempre stati, ovvero nelle periferie – interdetti e a lungo incapaci di capire chi li attaccasse. Ciò non toglie che anche uomini delle fasce popolari della città non abbiano dato il loro contributo alle azioni del Gap centrale. Come già sottolineato l’omicidio del sergente Schmidt aveva segnato un vistoso salto di qualità della lotta armata comunista. Prova di ciò ne è il fatto che nel giorno seguente, il 18 dicembre, le bande comuniste misero in atto ben due clamorosi attentati; il primo fu attuato alle ore 20 all’interno della trattoria “Antonelli” in via Fabio Massimo (Prati), che secondo i gappisti era solita essere frequentata da tedeschi e “collaborazionisti”. Il bilancio dell’attentato, che fu provocato dal lancio all’interno della trattoria di uno spezzone esplosivo, fu di nove morti e sette feriti, la cui nazionalità è però oggetto di controversia; il resoconto della Procura parla di vittime solo di nazionalità italiana, mentre i libri di memorie di alcuni partigiani comunisti esaltano l’azione indicando tra le vittime “otto militari della Wehrmacht”, con il chiaro intento di amplificare le azioni di guerriglia ai tedeschi al fine di incoraggiare i propri militanti e attrarre nuovi combattenti. D’altro canto però il fatto che nei vari resoconti redatti dal PCI sull’attività partigiana e nei libri di memorie dei protagonisti di quella lotta non siano mai indicati i nomi degli autori di quell’attentato avvalora la tesi che di vittime tedesche alla trattoria non ve ne furono e che probabilmente anche gli stessi dirigenti del partito fossero assai dubbiosi della riuscita dell’azione; azione che in sostanza colpì solo italiani, bollati come “collaborazionisti”, quando nessuno di essi risultava essere legato ai corpi armati o alle forze di polizia della RSI e il loro unico legame con i tedeschi consisteva nel fatto che essi avessero riposto positivamente a uno degli appelli tedeschi per il reclutamento di manodopera e che quindi fossero “operai del servizio del lavoro” sotto la dipendenza del Comando Tedesco di stanza presso la caserma dei Carabinieri di via Legnano (oggi via Carlo Alberto Dalla Chiesa, che è la prosecuzione di via Fabio M. oltre viale Giulio Cesare). Molto più efficace nel colpire i tedeschi fu il secondo attentato di quel giorno, provocato da parte di Bentivegna che, giunto in pazza Barberini in bicicletta dopo aver percorso la discesa di via Barberini, lanciò uno spezzone in mezzo alla folla di soldati tedeschi appena usciti dal cinema, dove avevano assistito a uno spettacolo a loro riservato, cagionando otto perdite tedesche e diverse feriti e dandosi alla fuga in via del Tritone.
In dicembre l’attivismo comunista fu sempre molto alto come dimostra un’altra grande azione condotta da un membro del Gap “Pisacane”, in questo caso Fiorentini, che il 28 dicembre in pieno giorno percorse tutto il lungotevere Gianicolense in bicicletta e arrivato all’altezza del portone del carcere di Regina Coeli (che si trova in via Lungara, una via sottostante al Lungotevere) gettò l’ordigno che aveva in tasca di fronte all’ingresso del penitenziario; l’esplosione dell’ordigno provocò sette morti e venti feriti tra i militari. La conseguenza di tale azione fu che il comando tedesco dal giorno seguente impartì ai soldati l’ordine di fare fuoco contro le biciclette che non si fermavano all’alt e pochi giorni dopo ne disposero il divieto d’uso in tutta la città, causando così grandi disagi nella popolazione.
L’offensiva invernale dei Gap (seconda metà di dicembre e gennaio) colse di sorpresa i tedeschi che, sentendosi padroni della città dopo le severissime misure adottate nei primi due mesi di occupazione che erano valse a reprimere ogni tentativo di opposizione all’occupante, avevano sottovalutato enormemente le capacità dei nuclei partigiani. I nazisti d’altronde non poterono contare sulla cooperazione della polizia italiana, la quale in parte per incapacità di alcuni suoi funzionari, in parte per i forti sentimenti antitedeschi vivi in molti di essi e in parte poiché altri membri della Questura fiutarono che molti degli antifascisti che erano incaricati di reprimere sarebbero diventati l’élite politica che avrebbe guidato il paese nel dopoguerra e che quindi era meglio non esporsi troppo nella loro persecuzione, fu decisamente inoperante. A ciò va aggiunto che uomini della polizia a ogni livello gerarchico coltivavano segretamente rapporti di complicità con uomini della Resistenza, come ne è testimonianza l’episodio della fuga di Pertini e Saragat dal carcere di Regina Coeli il 24 gennaio, reso possibile dall’eroico coraggio del medico del carcere, il socialista Alfredo Monaco, e della moglie Marcella. Superato il momento di sbandamento, alla fine di gennaio i tedeschi ritrovarono la forza per contrastare efficacemente il gappismo. In primis Maeltzer scelse il rastrellamento come strumento per installare la paura nella popolazione e dissuadere i partigiani dal compiere nuovamente azioni di guerriglia; il 31 gennaio i nazisti agli ordini del colonello delle SS Kappler procedettero a un grande rastrellamento nell’area compresa tra la stazione Termini, piazza dell’Indipendenza e via Nazionale, a seguito del quale catturarono 2000 persone. Ma poco dopo essi compresero che i rastrellamenti non avevano svolto efficacemente la loro funzione di deterrente alla lotta partigiano, anzi avevano provocato l’effetto opposto, e in breve giro smisero di adoperare tale strumento, ricorrendo a un inasprimento della risposta repressiva, sotto i cui colpi iniziarono a cadere anche membri del PCI. Il 29 di quel mese un’irruzione tedesca nell’abitazione del professore del liceo Cavour Gioacchino Gesmundo ubicata in via Licia (quartiere San Giovanni), sede della redazione clandestina dell’Unità e deposito dei chiodi a tre punte che i partigiani erano soliti utilizzare per rallentare gli spostamenti nazisti, causò il suo arresto. Il giorno seguente vengono fatte prigioniere da un manipolo di nazisti appostatisi là davanti anche la Regard e Lina Trozzi, le quali si erano recate nell’abitazione del professore proprio per ritirare due sacchetti di chiodi a tre punte. Tuttavia il destino dei 3 arrestati fu totalmente diverso; Gesmundo venne portato in via Tasso, sottoposto a torture di ogni genere, nonostante le quali mantenne il suo silenzio, e fu assassinato alle Fosse Ardeatine; la Trozzi verrà deportata in un campo in Germania, mentre la Regard, dichiarata estranea all’attività partigiana, fu rilasciata dopo 8 giorni di detenzione.
Nei primi di febbraio continuarono gli arresti di gappisti; il 1° febbraio le SS fanno irruzione in uno stabile in via Giulia (Trastevere), laboratorio di preparazione e il deposito degli ordigni adoperati dalle bande comuniste, catturando i custodi di quel laboratorio, ovvero i partigiani Gianfranco Mattei e Giorgio Labò. Entrambi vennero portati in via Tasso, dove vennero sottoposti alle più atroci torture, che spingeranno il primo, timoroso di non riuscire a resistere per il dolore, a suicidarsi nella sua cella per non parlare. Labò venne fucilato a Forte Bravetta ai primi di marzo. Il giorno seguente, con una dinamica uguale a quella dell’irruzione in via Licia, fu sorpreso davanti all’appartamento in via Giulia Antonello Trombadori, che arrestato riuscì miracolosamente a sfuggire approfittando delle esitazioni dei soldati tedeschi che, per la loro già citata poca conoscenza delle dinamiche resistenziali romane, non si erano resi conto di aver preso il capo dei GAP.
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2020-2021

Dal punto di vista comunista, è l’occupazione nazifascista la causa delle barbarie, essendo tale potere «terroristico per norma comportamentale» <56. È necessario colpire quanto prima l’invasore tedesco, al fine di «superare quel complesso di inferiorità che all’inizio, di fronte a lui, avevano ancora persino alcuni patrioti» <57. Le rappresaglie, conseguenti alle azioni gappiste, sono viste come costi ineliminabili della lotta. Rinunciare a combattere per evitare la reazione nemica, significherebbe sprofondare nel tanto disdegnato attesismo: “Accettare il ricatto delle rappresaglie voleva dire rinunciare in partenza alla lotta. Bisognava reagire alle rappresaglie naziste rispondendo colpo su colpo, senza fermarsi di fronte alla minaccia del nemico. Questa era la linea che avevamo coerentemente seguito fin dall’inizio dell’occupazione tedesca in Francia e poi in Italia”. <58
1.6.a Via Rasella
Le azioni gappiste che più acuiscono i rapporti tra i partiti antifascisti all’interno del CLN sono due. La prima è l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, giorno nel quale ricorre l’anniversario della fondazione del movimento politico dei Fasci italiani di combattimento, compiuto a Roma ai danni dell’XI compagnia del III battaglione del SS Polizeiregiment «Bozen», che costa la vita a 33 soldati altoatesini e a 2 civili italiani, Antonio Chiaretti e Piero Zuccheretti, quest’ultimo ancora bambino.
[…] L’iniziativa di via Rasella è inizialmente pensata come un’azione di riserva, per il fatto che la principale doveva essere quella contro il corteo fascista che, riunitosi al teatro Adriano, si sarebbe poi diretto verso la sede del fascio, posta in via Veneto. Quando, all’ultimo momento, su ordine dei tedeschi, l’adunanza fascista viene spostata al palazzo delle Corporazioni in via Veneto, «fortezza inespugnabile» <64, con l’intento di scongiurare il ripetersi di un assalto gappista nel centro della città, come quello avvenuto il 10 marzo 1944 contro la parata di fascisti repubblicani che procedeva per via Tomacelli, via Rasella diviene progetto preminente. Ideatore dell’attacco è il gappista Mario Fiorentini <65.
[NOTE]
56 Collotti, Sandri e Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. II, cit., p. 212.
57 Scotti, La nascita delle formazioni, in Comitato per le celebrazioni del XX anniversario della Resistenza (a cura di), La resistenza in Lombardia, cit., p. 70.
58 Giorgio Amendola, Lettere a Milano, cit., p. 293.
64 Mario Fiorentini, Sette mesi di guerriglia urbana. La Resistenza dei GAP a Roma, a cura di Massimo Sestili, Odradek, Roma 2015, p. 108.
65 Mario Fiorentini. Nato a Roma nel 1918, cominciò la sua attività antifascista collaborando sia con Giustizia e Libertà che con il PCI. Fu membro dei GAP centrali. Dopo la liberazione di Roma, fu aviolanciato dietro le linee tedesche in Emilia-Romagna ed operò come ufficiale di collegamento dell’Office of Strategic Services, ossia il servizio segreto statunitense operante nella Seconda guerra mondiale. Nel dopoguerra, iniziò gli studi liceali e universitari, divenendo professore universitario di matematica, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 27-06-2019.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019

Via Rasella e le Fosse Ardeatine
Il culmine di questo rinnovato attivismo gappista fu raggiunto con il celeberrimo episodio dell’attentato di via Rasella. La genesi di questa azione di guerriglia risale a una riunione tenuta il 17 marzo alla presenza di Calamandrei, Salinari e Fiorentini, i quali, compiaciutisi per la riuscita dell’attentato in via Tomacelli ai militi fascisti che il 10 marzo sfilavano in corteo, il quale aveva provocato 3 morti e diversi feriti <149, avevano deciso di programmarne un altro il 23 marzo come risposta della Resistenza antifascista alle celebrazioni fasciste che avrebbe avuto luogo in occasione dell’anniversario della nascita dei Fasci di combattimento. Inoltre in tale riunione essi concordarono che in tale data avrebbe avuto luogo anche un’azione di guerra contro i tedeschi; sotto impulso di Amendola si individuò la 11° Compagnia del III Battaglione del Bozen- corpo di spedizione armata formato da soldati arruolati in Alto Adige e adibito a Roma principalmente a funzioni di polizia e ordine pubblico- il quale ogni mattina si spostava a piedi per raggiungere un campo di addestramento al tiro e faceva ritorno il primo pomeriggio <150. Proprio questa sua quotidianità lo rendeva un bersaglio facile, cosa che i gappisti non si lasciarono sfuggire. Il tratto che il Battaglione percorreva di ritorno- che i partigiani studiarono nei minimi termini- era il seguente: provenendo da piazza di Spagna, la truppa imboccava via dei Due Marcelli e giunta all’incrocio con via del Tritone proseguiva dritta in via del Traforo per poi svoltare alla seconda traversa a sinistra in via Rasella. Questa- stretta e percorsa da una sola stradina, ossia via del Boccaccio, libera dal traffico in quanto i commercianti avevano le loro botteghe soprattutto nella prima parte- si presentava come un luogo perfetto per un attentato dinamitardo. Nel mentre gli esponenti del Gap centrale studiavano l’azione nei minimi particolari, verificando anche le vie di fuga, in una cantina in via Marco Aurelio (rione Celio) Giulio Cortini e la moglie Laura Garroni lavorano febbrilmente alla costruzione del materiale esplosivo, consistente in diciotto chili di tritolo pressati con accanto altri 6 chili di esplosivo e pezzi di ferro sparsi, che con l’esplosione sarebbero diventati mortali schegge. Il tutto stipato in un bidone di un carretto della spazzatura, che si era stabilito fosse il contenitore che avrebbe occultato l’esplosivo, il cui trasporto da via Marco Aurelio era stato affidato a Rosario Bentivegna <151. Il piano dell’attentato in via Rasella – che alla fine era diventato l’unico dato che, a mezzogiorno del 23, venne data la notizia dell’annullamento della cerimonia all’Adriano e del seguente corteo verso la sede del PFR per ordine dei tedeschi, i quali memori dell’attentato del 10 in via Tomacelli hanno proibito il corteo per evitare di essere facile bersaglio di un attacco partigiano – prevedeva che Bentivegna, vestito da spazzino e dopo aver trascinato il carretto, si posizionasse davanti al portone di palazzo Tittoni e che Calamandrei, posizionato all’incrocio tra via Rasella e via del Traforo, non appena avesse visto i soldati tedeschi prossimi a svoltarvi risalisse via Rasella e desse il segnale di accendere la miccia al Bentivegna togliendosi il cappello. A quel punto Bentivegna con passo deciso ma senza dare nell’occhio avrebbe dovuto allontanarsi dal luogo dell’esplosione e proseguire verso l’incrocio con via delle Quattro Fontane dove l’aspettava la Capponi con in mano l’impermeabile che egli avrebbe dovuto mettere sopra la divisa da spazzino. Escludendo l’enorme ritardo con cui il Battaglione del Bozen giunse nei pressi di via Rasella, tutto andò secondo i piani e la deflagrazione, che fu seguita dal lancio di tre bombe Brixia alle spalle della colonna – confezionate sempre in via Marco Aurelio- da parte di Raoul Falcioni, Francesco Curreli e un terzo partigiano ignoto, provocò 35 morti (di cui 33 sul colpo e 2 in seguito alle ferite riportate) e 45 feriti <152. I 76 soldati della Bozen sopravvissuti, non capendo da dove provenisse l’attentato, iniziarono a scaricare raffiche di mitra ovunque, mirando in particolare verso l’alto perché convinti che i banditi fossero nell’edificio di fronte.
La strage di via Rasella, il più clamoroso e violento attentato dinamitardo antitedesco mai compiuto nell’Europa occidentale occupata dai nazisti, provocò la furiosa reazione di Hitler, il quale in un primo momento aveva minacciato l’ordine di evacuare l’intero quartiere dove si trova via Rasella, il rione Trevi, di farlo saltare in aria e di fucilare per rappresaglia 50 cittadini italiani per ogni tedesco ucciso ma poi fu convinto – probabilmente da diplomatici che lo esortarono a tenere conto della speciale situazione di Roma, sede del Vaticano,- a rientrare all’ordinario criterio delle rappresaglie naziste in Europa, ovvero “1 a 10”, disponendo già il 23 sera l’ordine di una rappresaglia di 330 uomini da eseguire entro 24 ore <153. Nell’arco di tempo tra la sera del 23 marzo e le 14 del giorno seguente i funzionari delle SS completarono la stesura degli ostaggi da fucilare, che furono selezionati tra vari elenchi che erano negli archivi dei tedeschi. La lista definitiva comprendeva 156 uomini arrestati e imprigionati nei carceri di Regina Coeli e di via Tasso per attività antifascista, 75 esponenti della comunità ebraica, 23 uomini in attesa di condanna da parte del Tribunale Militare Tedesco e 16 con condanne a pene tra 1 e 15 anni già comminate, 40 uomini (di sospetta attività antifascista) consegnati dalla polizia italiana, 10 civili arrestati nei pressi di via Rasella, 10 persone arrestate per motivi di pubblica sicurezza e 7 persone non identificate <154. 335 vittime che, prelevati dalle prigioni di via Tasso e Regina Coeli, furono trasportati in campion coperti alle cave Ardeatine, delle cave di pozzolana situate lungo la via Ardeatina (una delle principali arterie della parte meridionale della Capitale), scelte per la loro conformazione di grotte che perfettamente si confacevano allo scopo nazista di attuare le esecuzioni e poi occultare i cadaveri. Al termine della procedura di esecuzione delle 335 vittime, fucilate in gruppi di 5 per volta da Kappler e dagli agenti delle SS con un colpo alla nuca, i tedeschi misero delle mine all’ingresso delle Cave, tentando di rendere così inaccessibile quel triste deposito di cadaveri; tentativo che tuttavia fu vano dato che nella notte dei salesiani nelle vicinanze, avendo udito le esplosioni finali, si recarono sul luogo trovandosi di fronte lo spettacolo orrendo di una fossa comune di 335 cadaveri ammassati l’uno sull’altro in pile di un metro e mezzo <155. Una tragedia, quella delle Fosse Ardeatine, ai danni di 335 persone che pagheranno con altissimo tributo di sangue il prezzo della loro coraggiosa attività antifascista.
149 CARLA CAPPONI, Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, Il Saggiatore, Milano 2009
150 G.RANZATO, La liberazione cit., p.369
151 Ivi, pp.369-370
152 Ivi, pp.371-374, 376, 381
153 ALESSANDRO PORTELLI, La condanna è già stata eseguita; Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria. Feltrinelli, Milano 2012, pp.209-210
154 Dati prelevati dal sito de “Il mausoleo delle Fosse Ardeatine”
155ROBERT KATZ, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Il Saggiatore, Milano 2004
Il 4 giugno 1944 Roma sarà liberata dagli Alleati che con il concorso delle bande partigiane scacceranno i tedeschi dalla Capitale, ponendo così fine alla terribile esperienza dell’occupazione nazista. Anche quel giorno i nazisti daranno dimostrazione della loro implacabile forza repressiva; mentre fuggivano da Roma per rifugiarsi a nord essi fucileranno a La Storta (periferia nord-ovest di Roma) 14 ex detenuti di via Tasso, tra i quali spicca la figura di Bruno Buozzi, importante sindacalista della ricostituita confederazione generale del lavoro ed esponente socialista della Resistenza romana.
[NOTE] :
149 CARLA CAPPONI, Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, Il Saggiatore, Milano 2009
150 G.RANZATO, La liberazione cit., p.369
151 Ivi, pp.369-370
152 Ivi, pp.371-374, 376, 381
153 ALESSANDRO PORTELLI, La condanna è già stata eseguita; Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria. Feltrinelli, Milano 2012, pp.209-210
154 Dati prelevati dal sito de “Il mausoleo delle Fosse Ardeatine”
155 ROBERT KATZ, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Il Saggiatore, Milano 2004
Guglielmo Salimei, Op. cit.