
Le dinamiche dell’informazione: il «buco nero» dei primi anni Duemila
Alla copertura ideologica offerta dal libro di Putnam, si aggiunsero le inevitabili dinamiche dell’informazione.
Nel decennio che va dalla seconda metà degli anni ’90 alla prima metà degli anni 2000 le inchieste giudiziarie furono infatti di meno e non ebbero lo stesso effetto prorompente che aveva avuto un’indagine come la Duomo Connection <1031. Nell’esperienza di Mario Portanova, giornalista autore di diverse inchieste e di un classico come Mafia a Milano, «è come se ci fosse stato un buco nero» <1032: man mano che i grandi processi della prima metà degli anni ’90 andavano a sentenza, confermati nella quasi totalità dei casi anche in Cassazione, iniziò a calare il silenzio e diventò molto difficile far passare anche sui quotidiani inchieste giornalistiche sulla mafia a Milano: «se si provava a proporre qualche inchiesta su Desio o Buccinasco e sul movimento terra, ci veniva risposto che non interessava, ma “se magari trovi un mafioso che ha il negozio in Galleria a Milano”…» <1033. Era quindi notiziabile e degna di spazio sui quotidiani la notizia clamorosa, che andava in un certo senso a confermare lo stereotipo del mafioso che nella ex-capitale morale si dedicava all’economia e alla finanza, piuttosto che la documentazione della reale attività degli esponenti delle organizzazioni mafiose a Milano e in Lombardia.
Un altro giornalista che per oltre quarant’anni si è occupato di mafia in regione come Gianni Barbacetto aggiunge: «per quanto riguarda Milano non c’è mai stata una presa d’atto, anche da parte dell’informazione, che ci fosse un problema “mafia”: anche negli anni ’80, quando facevamo ‘Società Civile’ con Nando dalla Chiesa, la singola notizia veniva sì raccontata, anche da quotidiani come Il Giorno molto attenti a quello che accadeva sul territorio, ma la tendenza generale era quella di non unire mai i puntini, con il risultato che non si prendeva mai atto che Milano era diventata la capitale della criminalità organizzata. Anzi, c’è sempre stato un negazionismo quasi assoluto» <1034.
D’altronde, nemmeno l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, «che avrebbe dovuto far capire che il limite era stato già passato», scatenò una reazione della classe dirigente, come ricorda Cesare Giuzzi del Corriere della Sera: «l’inizio di quel lungo percorso verso la consapevolezza si deve alla scommessa di Nando dalla Chiesa con Società Civile, che educò una generazione di ragazzi e ragazze a determinati valori» <1035.
In merito alla successiva esperienza di Omicron, l’osservatorio milanese sulla criminalità organizzata che documentava dettagliatamente gli sviluppi delle inchieste negli anni ’90, Mario Portanova evidenzia tuttavia che «avevi la sensazione di coltivare una tua passione: eravamo gli stessi magistrati, giornalisti, attivisti e intellettuali che si parlavano tra di loro. Occuparsi di mafia a Milano era diventata una cosa da cultori della materia, almeno fino al 2006-2007, quando c’è stata la prima grande inchiesta che coinvolge l’Ortomercato di Milano» <1036.
In quell’occasione ci fu un risveglio dell’attenzione mediatica anzitutto perché l’inchiesta riguardava Milano città, e non l’hinterland, e soprattutto coinvolgeva una società partecipata del Comune di Milano come Sogemi, e un territorio, come quello dell’Ortomercato, già oggetto di indagine nel decennio precedente.
«Non c’è da sorprendersi: l’informazione italiana è molto umorale e ha un andamento sinusoidale», spiega Giuzzi <1037: «nel 2006 esce ‘Gomorra’ di Roberto Saviano, che ha il merito di fotografare un tema semi-sconosciuto a livello nazionale, dando una visione di insieme dello smaltimento illecito di rifiuti e del clan dei Casalesi; poi il 15 agosto 2007 vi è la Strage di Duisburg che fa passare mediaticamente la ‘ndrangheta da fenomeno residuale nel crimine organizzato a problema addirittura europeo, e quindi c’è stata la corsa ad occuparsene a più livelli».
L’attenzione mediatica si intensificò subito dopo a seguito dell’aggiudicazione il 31 marzo 2008 dell’Expo <2015: a fronte delle nuove inchieste che descrivevano un monopolio delle ‘ndrine nel movimento terra e una pesante infiltrazione nel settore dell’edilizia, si moltiplicavano inchieste giornalistiche e allarmi istituzionali su possibili infiltrazioni negli appalti per la sua realizzazione, evocando quanto era successo in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006. La mafia, insomma, era tornata ad essere un argomento interessante, tanto che, sull’onda del successo di Saviano, diverse case editrici iniziarono a programmare titoli sul tema nel proprio catalogo <1038.
Le variabili politiche: il «cono d’ombra» dell’immigrazione
Alle variabili giornalistiche e giudiziarie locali si sommavano quelle politiche, già richiamate nel quinto capitolo: negli ultimi anni della giunta Formentini la classe politica e il sistema mediatico berlusconiano iniziarono a cavalcare le paure legate ai flussi migratori extra-Ue, introducendo nel discorso pubblico una nuova retorica della sicurezza che finiva per escludere il problema della presenza mafiosa a Milano, in Lombardia e in generale al Nord. La strategia dell’inabissamento scelta da Bernardo Provenzano dopo l’arresto di Riina fu fatta anche dalla ‘ndrangheta lombarda decimata dalle condanne: i reati «di prossimità» ad opera di immigrati destavano maggior allarme sociale dei figli dei boss che proseguivano l’opera dei padri, così come dei politici e funzionari corrotti che ogni tanto venivano arrestati dalla magistratura.
Come ha scritto Nando dalla Chiesa <1039, «la guerra ai clandestini assume la stessa funzione-schermo del terrorismo prima e di Tangentopoli e delle stragi di mafia poi». Con la non trascurabile differenza che mentre le prime due sono il prodotto della Storia, quest’ultima fu il frutto di una precisa strategia politica della classe dirigente lombarda a trazione berlusconiana e leghista <1040, che non fece altro che dare corso anche in Italia a quel processo di «istituzionalizzazione della paura urbana» di cui abbiamo parlato nel secondo capitolo e che ebbe una decisiva accelerazione in occasione dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Quest’ultimo evento storico determinò un cambiamento epocale, dettando nuove priorità nell’agenda politica internazionale, dei singoli Stati e delle loro comunità locali, a beneficio delle organizzazioni mafiose, comprese quelle lombarde, costituendo un nuovo formidabile «cono d’ombra».
In provincia di Milano, come documentarono anche le indagini a ridosso di Crimine-Infinito, nel primo decennio degli anni Duemila andavano a fuoco tabaccherie, bar, locali pubblici <1041, c’erano sparatorie e omicidi, e si consumavano brutali pestaggi a danno di imprenditori che non volevano svendere azienda e beni immobili <1042 e di sindacalisti che chiedevano il rispetto dei diritti dei lavoratori. Il 27 novembre 2007 l’allora Procuratore Aggiunto a capo della Direzione Distrettuale Antimafia, Ferdinando Pomarici, denunciò in una relazione al Parlamento «l’occupazione criminosa di interi settori economici caratterizzati da difficoltà finanziarie», in particolare «edilizia, immobiliare, centri commerciali, alimentari, sicurezza, discoteche, appalti, garage, bar e ristoranti, sale da gioco, distributori, cooperative di servizi, trasporti», mentre lo Scico stimava in «oltre 150mila i piccoli imprenditori coinvolti in rapporti usurari-estorsivi», di cui «almeno 50mila con clan mafiosi» <1043.
La classe dirigente politica e imprenditoriale, davanti a uno spaccato del genere, restò in silenzio. A livello politico, dalla regione alle province fino ai piccoli comuni, tutti gli episodi criminosi, al pari delle dichiarazioni pubbliche di magistrati in convegni e manifestazioni, fino agli atti giudiziari, vennero sistematicamente minimizzati, se non addirittura negati. Emblematico l’intervento dell’allora sindaco di Milano Letizia Moratti, nella puntata del 25 maggio 2009 della trasmissione Annozero, in cui si parlava di quanto emergeva dalle inchieste della magistratura e dei pericolosi segnali in vista dell’Expo <2015:
«Io credo che Milano e il territorio circostante, la Lombardia, non possa essere descritta così, perché davvero è un modo di descrivere il nostro territorio che non corrisponde all’anima del nostro territorio. Quindi io davvero credo che ci debba essere la possibilità anche di far vedere ciò che Milano è davvero, quindi non è questo» <1044.
Quello stesso giorno veniva definitivamente cancellata la Commissione consiliare antimafia, con una mozione del Popolo della Libertà: bocciata una prima volta dalla maggioranza di centrodestra il 18 febbraio 2008, era stata approvata il 2 marzo dell’anno successivo all’unanimità dopo nuovi blitz della magistratura, ma già il giorno dopo venne stroncata dall’allora Prefetto Gian Valerio Lombardi, che in una lettera al Sindaco dichiarò che la lotta alla mafia «esula del tutto dalle competenze comunali», «confligge con le norme in vigore» e addirittura «è suscettibile di interferire con le istituzioni preposte» <1045. Il risultato fu che il centrodestra, facendosi forte delle dichiarazioni del Prefetto, disertò la prima seduta del 7 aprile successivo, fino alla definitiva cancellazione.
Sempre il Prefetto fu al centro di una polemica politica feroce quando il 21 gennaio 2010, di fronte alla Commissione Parlamentare Antimafia in visita nel capoluogo lombardo, riuscì a dichiarare che «anche se sono presenti singole famiglie, ciò non vuol dire che a Milano e in Lombardia esista la mafia» <1046, come se non fossero mai esistiti decenni di rapporti di polizia, inchieste giudiziarie e giornalistiche, nonché manifestazioni antimafia <1047. Il Sindaco lo seguì a ruota due giorni dopo, dichiarando: «Io parlerei, più che di infiltrazioni mafiose, di infiltrazioni della criminalità organizzata» <1048. Qualche mese prima, il 24 novembre 2009, la testimone di giustizia Lea Garofalo veniva rapita a pochi passi dall’Arco della Pace, in pieno centro città, strangolata in un appartamento a Quarto Oggiaro e bruciata e frantumata in un campo a San Fruttuoso. Da uomini contigui alla ‘ndrangheta, che però per le istituzioni non esisteva <1049.
In queste vicende di fine decennio emerge quell’invisibilità manifesta del potere mafioso, fondata sulla cecità delle istituzioni pubbliche e sulla consapevolezza dei privati cittadini. Nonché l’orgoglio milanese per la propria tradizione civica e imprenditoriale, con tanto di rivendicazione di una diversa «anima» della città, rispetto a quella che emergeva dalle inchieste della magistratura e da quelle giornalistiche. La retorica della «Milano che lavora e produce» tornava ad essere, come ai tempi della Duomo Connection, il paravento ideologico in cui si annidava lo stereotipo dei mafiosi che al Nord porterebbero solo i loro soldi e che rappresentano un fenomeno marginale della società milanese e lombarda.
[NOTE]
1031 Tra il 1995 e il 2004 ci furono 20 inchieste giudiziarie, di cui 13 riguardanti la ‘ndrangheta, contro le 29 del quinquennio 1990-1994. Si veda in Appendice, l’elenco delle inchieste antimafia in Lombardia.
1032 Mario Portanova, Intervista all’autore, 14 gennaio 2021.
1033 Ibidem.
1034 Gianni Barbacetto, Intervista all’autore, 21 gennaio 2021.
1035 Cesare Giuzzi, Intervista all’autore, 21 gennaio 2021.
1036 Mario Portanova, Intervista all’autore, 14 gennaio 2021.
1037 Cesare Giuzzi, Intervista all’autore, 21 gennaio 2021.
1038 Lo stesso Giuzzi, che come vedremo più avanti aveva firmato un primo importante articolo che fotografava l’interesse delle ‘ndrine per l’Expo2015 finito anche negli atti giudiziari della vicenda Perego, nell’intervista ci confida di aver ricevuto insieme ad altri colleghi una richiesta da un importante casa editrice proprio per questo motivo. Avere un libro che parlasse di mafie, in particolare al Nord, era diventato un must per il mercato editoriale, dopo il successo di Gomorra.
1039 Nando dalla Chiesa (2010). La Convergenza, Milano, Melampo, p. 228.
1040 Si pensi alle incredibili dichiarazioni di Gianfranco Miglio, che in un’intervista a Il Giornale del 20 marzo 1999 propose di istituzionalizzare mafia e ‘ndrangheta, perché «il sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando».
1041 Il 30 novembre 2009 andò a fuoco persino lo storico Cinema Odeon di proprietà dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ufficialmente per «un cortocircuito», senza generare alcuna presa di posizione pubblica dell’interessato al riguardo. Cfr Dalla Chiesa (2010), op. cit., p. 239.
1042 Paolo Biondani, Mario Portanova, Adesso il Padrino parla milanese, l’Espresso, 23 aprile 2009.
1043 Citato in Biondani, Portanova, Adesso il Padrino parla milanese.
1044 Annozero, 25 maggio 2009.
1045 Rossi, Portanova, Stefanoni, Mafia a Milano, p. 360.
1046 Citato in Sandro De Riccardis, Il prefetto: a Milano non c’è la mafia, la Repubblica, 22 gennaio 2010
1047 Va doverosamente fatto notare che a livello giudiziario, l’attività repressiva della magistratura ebbe una svolta con la nomina a Procuratore aggiunto di Ilda Boccassini a capo della DDA di Milano, che decise di perseguire una strada specifica di contestazione del reato di associazione mafiosa sul territorio milanese e lombardo. Si veda in proposito, Davide Milosa, Droga a Milano, Antimafia: “Inchieste sul traffico crollate del 70% in sette anni, Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2015.
1048 Citato in Pisanu: «Sempre più mafia al Nord». Polemiche sulla frase di Lombardi, Corriere della Sera, 25 gennaio 2010
1049 Il padre e il fratello di Lea Garofalo erano affiliati alla ‘ndrangheta. La donna molto giovane si spostò a Milano, ma il compagno, da cui ebbe la figlia Denise, si era messo con lei solo per far carriera nell’organizzazione, come emerse al processo. Inoltre, Cosco chiese poi l’autorizzazione a compiere l’omicidio ai Grande Aracri. Se non fosse stato per la denuncia della figlia Denise, il delitto di Lea Garofalo sarebbe rimasto impunito.
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020