La memoria del calcio e il fascismo

L’Italia fascista è stata senz’altro il primo Stato, insieme all’Unione Sovietica, ad aver organizzato una politica sportiva e genuina con lo scopo di trasformare gli italiani in “una nazione sportiva” (1). Il primo passo fu la progettazione e la realizzazione di un’ampia opera di lavori pubblici: mirando a costruire tanto i campi littori – un modello standardizzato di stadio per la pratica di massa nelle piccole e medie città – quanto gli stadi Littoriale (Bologna), Berta (Firenze) e Mussolini (Torino), autentiche vetrine architettoniche, il regime volle rompere con l’apatia atletica dell’Italietta liberale e forgiare l’uomo nuovo, che sarebbe stato, anche, un homo sportivus.

Le pose del ‘primo sportivo d’Italia’, Mussolini in persona, del ‘gigante buono’ Primo Carnera che saluta romanamente, le vittorie olimpiche di Luigi Beccali (1932) o di Ondina Valla (1936) sono, tra le altre, le figure più emblematiche dello sport in camicia nera, all’interno del quale il calcio ha occupato uno spazio particolare. Per semplificare le cose, si potrebbero, in effetti, considerare immagini simbolo del calcio del Ventennio, le squadre di serie A schierate in linea per salutare le gerarchie sedute nelle tribune d’onore degli stadi italiani. O gli Azzurri del ’34 – il portiere della Juventus Giampiero Combi in testa – che sollevano la Coppa del Duce, l’altro trofeo assegnato al termine della finale della seconda Coppa del mondo della Fifa, disputata nello stadio del Partito nazionale fascista.

Sarebbe tuttavia una visione parziale considerare il calcio sotto il regime alla stregua di un calcio meramente ‘fascista’. Primo, perché non era lo sport di regime. Secondo, perché la cultura del calcio deve essere reinserita in un contesto più ampio in cui vanno inclusi anche il calcio e lo sport europei. Terzo, perché solo in mancanza di meglio i calciatori e la passione calcistica furono strumentalizzati dal regime e dalle autorità sportive legate al partito. Sono quindi questo sistema sportivo complesso e la sua memoria che qui si intende analizzare.

Trasformismo e apolitismo: la memoria del calcio sotto il fascismo dopo il ’45 Lo sport e il calcio furono forse l’eredità meno problematica che l’Italia del dopoguerra poteva raccogliere dal Ventennio. Allorché le ambizioni di raggiungere e mantenere il rango di grande potenza svanirono, con l’avventurosa politica estera di Mussolini, lo sport fu “il solo terreno sul quale l’orgoglio nazionale poteva esprimersi senza riserva” (2). E benché le pagine sportive dei quotidiani italiani non erano state avare di metafore guerriere, il calcio apparve come un segno della pace e della libertà ritrovate.
Fascismo e calcio dalla guerra all’occupazione tedesca

Eppure… Al contrario del maggio del 1915, nel quale tutte le competizioni sportive nazionali erano state annullate fino alla fine del conflitto, il regime scelse di lasciarle svolgere, malgrado l’entrata in guerra del 10 giugno 1940. Era, secondo la stampa asservita, la dimostrazione della normalità della situazione, una sfida agli inglesi che cominciavano a bombardare le grandi città italiane. Un uomo d’ordine come Vittorio Pozzo, nello stesse tempo Commissario unico della nazionale e giornalista – condizione che gli permetteva di commentare e giudicare le prestazioni azzurre sul quotidiano La Stampa – collegava questa scelta a quella dell’alleato tedesco. Il 23 ottobre 1941, sul giornale torinese scriveva: “Sotto quest’aspetto ha visto la questione il Partito nel dare la sua adesione alla ripresa del campionato, proprio nelle attuali contingenze. Sotto questo aspetto ha considerato la cosa la nostra grande alleata, la Germania. Il capo dello sport tedesco, richiesto al momento dell’inizio della offensiva contro la Russia, se era il caso di riprendere il campionato di calcio, rispose con una parola sola, una parola che tagliò corto agli indugi: ‘Weitermachen’. Proseguire”.

Se il calcio era stato messo al servizio della propaganda di guerra, i calciatori furono messi anche alla sbarra degli accusati. Al contrario di alcuni loro colleghi, atleti o ciclisti, vennero infatti molto spesso considerati degli imboscati, poiché lasciati a disposizione delle loro sociétà. Tuttavia, l’accusa di essere prima di tutto dei mercenari non era nuova. Per molti versi derivava dalla diffidenza nutrita nei confronti del calcio, alla fine degli anni Venti, dai gerarchi dello sport fascista come Lando Ferretti, presidente del Coni, o come Augusto Turati, segretario del Partito nazionale fascista. Ma in un contesto di guerra, tali accuse tornavano nuovamente ad assumere rilievo. A tal punto che La Gazzetta dello Sport, alludendo a un articolo del Popolo d’Italia, il 4 aprile 1943, riferendosi al fronte, chiedeva: “Dove sono gli sportivi?” Occorre precisare che la prospettiva di uno sbarco degli Alleati si faceva sempre più reale.

Dopo la caduta di Mussolini e l’invasione tedesca, per il mondo del calcio si trattò soprattutto di aspettare giorni migliori. Furono ben pochi quelli che scelsero di schierarsi da una parte o dall’altra durante la guerra civile. Bastò per rifarsi una verginità? In ogni caso, la squadra del Torino che si era rinforzata a colpi di milioni di lire fino a “diventare un’esagerazione” (3), alla fine del maggio 1945 prese parte a una manifestazione sportiva e patriottica giocando contro una rappresentativa lombarda, davanti a un pubblico selezionato da Palmiro Togliatti, segretario del Pci.

Secondo Gioventù d’azione, l’organo dei gruppi di giovani partigiani di Giustizia e Libertà, la folla che assisteva alla partita sentì “vibrare nel suo cuore generoso un fremito di libertà, un desiderio imperioso che lo sport al più presto riprenda per cancellare un triste ricordo di oppressione” (4). Vittorio Pozzo, che si vantava di azioni partigiane, intonò a sua volta, al momento della ripresa delle attività calcistiche, la retorica della libertà ritrovata: “Comincia il Campionato” scriveva sulla Stampa del 14 ottobre 1945, “la cosa più desiderata dagli sportivi italiani. Se ne parlava, come di un sogno, al tempo della occupazione tedesca. Poter assistere ancora a un vero campionato italiano”.
Certo, il biennio settembre 1943/ottobre 1945 valeva allora quanto un secolo, in termini di cambiamenti e di rovesciamenti della Storia e degli uomini. Ma Pozzo dava anche un’esemplare dimostrazione di una nuova forma di trasformismo applicata al campo sportivo, dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Il tecnico piemontese non fu neanche tra gli ultimi a ricordare le gloriose ore del passato. Ora che le strutture sportive del fascismo erano state più o meno conservate, a cominciare dal Coni – affidato a un giovane socialista dottore in diritto, Giulio Onesti – Vittorio Pozzo poteva vantare anche lo spirito delle vittorie dell’anteguerra. Il 6 aprile, dopo una vittoria (3-1) ottenuta a Parigi contro la nazionale francese, nel bel mezzo della situazione da guerra civile che circondava le elezioni politiche, sempre sulla Stampa scriveva: “Pareva di essere tornato allo stato d’animo dell’anteguerra, quando la squadra, a incontro terminato, affluiva tutta in una camera stretta, unita, affratellata e commentava l’operato proprio. Miracoli della maglia azzurra”.

Altre voci, tra quelle che avevano dato il tono del giornalismo sportivo durante il Ventennio, iniziarono a evocare in termini piuttosto positivi l’opera del fascismo nel campo dello sport. Uno sport fascista che sarebbe stato più pulito di quello della Repubblica perché sostenuto economicamente dal regime. Fu la spiegazione di Renato Casalbore in Tuttosport del 27 settembre 1948, a proposito della creazione del Totocalcio. Secondo lui, “molti mali guarirebbero il giorno in cui lo Stato italiano fosse in condizione di sostenere lo sport: difficile appare ora l’investimento di una situazione creata all’avvento delle scommesse sulle partite di calcio. Il regime fascista fu sempre contrario a tal genere di iniziative; ma il regime sovvenzionava ampiamente lo sport”. E concludeva: “La differenza è sostanziale”.

Se, da un lato, la citazione di Casalbore non deve essere interpretata come l’espressione di una specie di nostalgia del fascismo, bensì come un rimpianto del dinamismo e dei successi dello sport italiano sotto il fascismo grazie al sostegno del regime, dall’altro la dottrina ufficiale dell’apoliticità dello sport, in corso negli ambienti sportivi, giustificava questo tipo di sguardo benigno sul passato.

Non si trattava solo di una mania italiana. Questo sguardo era diffuso in tutta la società internazionale dello sport. A cominciare da Jules Rimet, il presidente francese della Fédération internationale de football association (Fifa) dal 1921 al 1954. Alla fine della sua presidenza e della sua vita, Rimet scrisse un opuscolo su “il calcio e il riavvicinamento dei popoli” nel quale sosteneva che, lungi dal creare tensioni tra le fazioni sportive e i popoli, il calcio contribuiva al loro affratellamento (5). E rievocando, nello stesso anno (1954), la “meravigliosa storia della Coppa del mondo”, Rimet relativizzava il carattere politico dell’edizione italiana (1934). In particolare, rifiutava di identificare Giorgio Vaccaro, il presidente della Figc – peraltro, console della Milizia – come lo strumento di controllo del potere fascista sul calcio. “Non dobbiamo giudicare nel Generale Vaccaro” scriveva Rimet vent’anni dopo, “il personaggio politico. Ma lo sportivo ci appartiene. Abbiamo il diritto di dire che è stato per l’associazione italiana un presidente prestigioso e che tutti quelli che sono stati in relazione con lui debbono dare la testimonianza della loro simpatia” (6).

Da una decina di anni, giornalisti e storici hanno deciso di indagare sul calcio del Ventennio. Sia sotto l’aspetto dei grandi protagonisti (7), sia sotto quello della storia culturale e politica (8), le loro opere hanno insistito sulla politicizzazione e sullo sviluppo del calcio sotto il fascismo. Purtroppo, quando si cercano negli archivi segni di questo processo, i risultati spesso deludono. Le fonti dell’archivio centrale di Stato rivelano, per esempio, che Mussolini si era mostrato molto indifferente all’organizzazione della Coppa del mondo, fino alla vigilia dell’evento. Il mantenimento dell’ordine pubblico durante le partite era certamente la preoccupazione principale dei prefetti e dei questori, ma ciò non significa che lo sport che stava diventando ‘lo sport nazionale’ non scampasse alla politicizzazione in corso nella società italiana. Anche se questo fenomeno deve essere ricondotto in un quadro europeo.

Lando Ferretti, il fascista colto e perbene, incaricato del controllo del Coni, riassumeva bene la posizione particolare del calcio all’interno del sistema dello sport fascista. Scriveva nel 1928 che “le fortune travolgenti del calcio fra noi, per il suo meraviglioso adattarsi al temperamento della stirpe, sono uno dei fatti salienti della ripresa sportiva italiana”. Ma aggiungeva egualmente: “Certo il foot-ball (sic) ha potentemente contribuito a questa ripresa, ma oggi col suo incipiente professionismo e con le sue aspre contese campanilistiche cui dà luogo, ne compromette i successivi sviluppi” (9).

Corruzione, violenze di tifosi, denaro componevano già il cocktail del calcio, anche se in misura minore rispetto a oggi. E i calciatori erano già accusati di comportarsi come dei mercenari. A tal punto che Augusto Turati in persona cercò di limitare la sua diffusione, creando uno ‘sport di sintesi’ a uso dei dopolavoristi come la ‘volata’, e decretò il rugby “sport fascista per excellenza” per farne il gioco dei Gruppi universitari fascisti (Guf).
Ma la passione delle popolazioni urbane per il calcio era tale che sembrava impossibile arrestarne la crescita. Piuttosto che combatterlo, sembrò più utile assegnargli l’obiettivo di contribuire al consenso e di tenere alti i colori dell’Italia nelle competizioni internazionali.

La politicizzazione dello sport in generale, e del calcio in particolare, non era una peculiarità solo dell’Italia fascista. Le federazioni sportive si mostravano avide di riconoscenza da parte delle autorità statali. Nel 1927, la federazione francese di calcio invitò il presidente della Repubblica Gaston Doumergue alla finale della Coppa di Francia. Nasceva in quel momento una tradizione, ispirata alla FA Cup inglese. Ogni anno, da allora, la personalità più importante della République assiste alla Fête nationale du football française, per analogia con il 14 luglio. Il fatto che, da Gaston Doumergue a Nicolas Sarkozy, i presidenti abbiano consegnato il trofeo al capitano della squadra vincente non è senza significato. La formula della Coupe, una competizione nella quale le squadre dilettanti incontrano quelle dei professionisti in una partita a eliminazione diretta, incarnava non solo la democrazia dello sport ma anche l’ideale della meritocrazia e dell’egalitarismo repubblicani. Nella Coupe de France, dei dilettanti seri e allenati potevano eliminare delle vedette poco motivate, esattamente come un ragazzo, titolare di una borsa di studio statale, poteva salire nella scala sociale tramite i suoi successi scolastici.

Gli anni Trenta vedranno anche le prime politiche sportive democratiche, in reazione a quelle degli Stati totalitari. Furono i governi di Front populaire (1936-1938) a integrare lo sport e l’educazione fisica in un progetto politico più globale. Ma i giochi di Berlino avevano anche provato che lo sport poteva servire come arma politica. Così, la diplomazia britannica suggerì ai giocatori della nazionale inglese di effettuare il saluto nazista prima della partita contro la Germania allo stadio olimpico di Berlino il 14 maggio, meno di due mesi dopo l’Anschluss (10). Era il contributo calcistico alla politica dell’appeasement…

Non era questo, tuttavia, il significato attribuito alle vittorie azzurre dalla propaganda fascista. In effetti, lo sport costituiva un altro modo di assumere i desideri di potenza almeno dal punto di vista simbolico. E un gerarca sportivo come Lando Ferretti, sosteneva la necessaria sovversione ideologica dei valori dello sport. Denunciava in particolare l’internazionalismo decoubertiniano. Per lui lo sport internazionale doveva produrre una gerarchia tra le nazioni, dimostrare il valore di una razza, e non contribuire alla pace tra i popoli.

Di fatto lo sport, accanto alle imprese aeree come quelle di Italo Balbo, proponeva all’estero un’immagine dinamica, giovane e finalmente virile e moderna dell’Italia. Per la stampa popolare parigina, simpatizzante del regime e sovente ‘corrotta’ dai servizi di propaganda italiani, il campione italiano, che fosse Giuseppe Meazza, Tazio Nuvolari o Alfredo Binda, incarnava l’Italia nuova, disciplinata dal suo duce. Gli stadi di Firenze o di Torino erano portati a esempio e ispiravano gli architetti che progettarono gli stadi-velodromi di Marsiglia e Bordeaux nella seconda metà degli anni Trenta. A tal punto che, alla vigilia della Coppa del mondo di calcio organizzata in Francia (1938), la stampa francese si allarmava per il paragone che gli stranieri avrebbero potuto fare con l’edizione italiana, giudicando gli stadi francesi troppo piccoli per una competizione mondiale. La vittoria finale di Pozzo e dei suoi uomini nello stadio di Colombes, il saluto romano del capitano Meazza al presidente della Repubblica francese Albert Lebrun prima di ricevere il trofeo, confermarono il timore dei giornalisti francesi. Due anni dopo Berlino, le imprese e i successi sportivi delle dittature, accompagnavano la loro aggressività diplomatica.

La stampa sportiva europea dipingeva volentieri il carattere politico del calcio italiano. Pubblicando una serie di caricature sugli stili nazionali dopo il mondiale del ’34, il settimanale francese Football mostrava un Azzurro trionfante mentre salutava romanamente un Mussolini marziale (11). Con un dettaglio ‘umoristico’. Sulla tribuna, sulla quale era rappresentato il duce, era disegnato anche il fascio del littorio coperto dal pallone. Una maniera per dire, come avrebbe affermato Rimet vent’anni più tardi, che il calcio poteva cancellare una parte della carica politica che gli si voleva attribuire.

Benché il calcio fosse organizzato su un piano nazionale e le partite internazionali fossero definite matchs internations, la cultura del calcio prodotta e trasmessa dalla stampa sportiva era in parte transnazionale. I direttori di testate come Walther Bensemann (Der Kicker, prima dell’avvento al potere dei nazisti), Gabriel Hanot (Le Miroir des Sports) o Marcel Rossini (Football) formavano una società di giornalisti che scambiavano informazioni e facevano circolare immagini e rappresentazioni del gioco. Il calcio italiano era esso stesso aperto al cosmopolitismo sportivo fin dall’inizio. Certo, Leandro Arpinati, il ras di Bologna, presidente della Figc, aveva vietato l’importazione di calciatori stranieri nel 1926, chiudendo un periodo nel quale molte vedette erano austriache o ungheresi. Ma l’utilizzazione degli ‘oriundi’, questi argentini o brasiliani che, come Raimundo Orsi o Luis Monti, vestivano la maglia della nazionale, dava un tocco esotico al neonato campionato di serie A.

La Mitropa Cup, la Coppa internazionale, le Coppe del mondo del 1934 e del 1938, e gli incontri amichevoli internazionali, offrivano altrettante occasioni di vedere all’opera i grandi giocatori stranieri – in particolare i danubiani – o di leggere la descrizione dei loro successi nelle ampie pagine dedicate allo sport dalla stampa italiana durante il Ventennio. Non a caso Carlo Levi, evocando l’atmosfera del dopoguerra e del governo Parri, ricorda a un redattore del giornale di cui è direttore, le stelle degli anni Venti e Trenta. “Zamora, Mateo, Hirzer la gazzella, Sindelar cartavelina. Quei nomi, come una realtà poetica ed eternale, spingevano lontano da lui ogni cosa presente, e la politica e il giornale” (12).

Allorché Primo Carnera simbolizzava nolens volens la brutalità fascista e una Italia immaginaria popolata da giganti e altri Maciste, i calciatori simbolizzavano, al contrario, la velocità e la destrezza. Giuseppe Meazza fu soprannominato ‘balilla’, sicuramente in virtù della sua giovane età ma anche perché non era un colosso. La tecnica e la vista gli permettevano di ingannare la guardia dei più feroci terzini. Aveva anche un bel sorriso, che la stampa francese faceva ammirare; una forza seduttiva paragonabile a quella degli attori del cinema.

Il fascino dei calciatori non era limitato ai campi da gioco. La stampa degli anni Trenta amava far conoscere l’uomo oltre che lo sportivo. Il calciatore era quello che poteva raggiungere uno stile di vita da cui la maggiore parte degli italiani era esclusa. Automobili Fiat per Meazza (una Balilla, ovviamente) o per Orsi; vacanze sul litorale tirreno a Forte dei Marmi per Rosetta, il terzino della Juventus, e per tutti la gestione di un bar o di un negozio. Nella ‘biografia’ di Rosetta, il giornalista Erberto Levi evocava il progetto dell’ex calciatore della Pro Vercelli in questi termini: “Iniziativa commerciale e industriale, in una parola. Virginio Rosetta amministra i frutti dei suoi risparmi con la stessa saviezza con cui amministra i suoi trentatré anni d’atleta” (13). Nessuno spirito di sacrificio al regime, ma piuttosto spirito di risparmio piccolo borghese. Rosetta non seguiva quindi la definizione dello sport secondo Lando Ferretti nel suo breviario atletico: “Lo sport è per noi anzitutto e soprattutto, scuola di volontà che prepara al fascismo i consapevoli cittadini della pace, gli eroici soldati della guerra” (14), scriveva nel 1928 il capo del Coni.

Se i raduni di massa organizzati da Achille Starace hanno potuto contribuire a costruire il consenso ottenuto da Mussolini, secondo Renzo De Felice, per una grande parte degli italiani nella prima metà degli anni Trenta questo non bastava. Certo, Nuto Revelli poté ricordare che per lui “il fascismo e lo sport erano la stessa cosa” e che era “orgoglioso dei suoi nastrini e delle sue medaglie” (15). In questo modo, lo sport, associato ai riti del Campo Dux, poteva lusingare il “narcisismo dei piccoli in divisa” (16).

Per i più grandi, il richiamo del moschetto e della divisa era senz’altro meno forte. O forse il proposito militaresco del regime non era per loro il volto più efficace dell’immagine del fascismo. Ma, come altrove nell’Europa dell’ovest, i vettori italiani della cultura di massa erigevano a modello un modo di vita moderno e spensierato. In questo senso la vita dei calciatori era l’equivalente sportivo dei film dei ‘telefoni bianchi’. E, con il suo primo sistema di protezione sociale, il dopolavoro, grazie al quale i giovani adulti potevano per di più acquistare a buon prezzo i biglietti per vedere le partite di serie A, il regime prometteva anche un presente e un avvenire migliori.

Ma lo stadio offriva anche la possibilità di esprimere quella rabbia che era esclusa dal campo sociale e politico. In particolare quella relativa al campanilismo, a tal punto che nel 1932, Il Littoriale, il quotidiano organo del Coni, dovette richiamare l’esasperazione espressa dal duce contro tutte le manifestazioni di regionalismo (17). Malgrado i decreti legge promulgati da Federzoni dopo la sparatoria della stazione di Porta Nuova nel 1925, al termine della finale Bologna-Genoa, una situazione elettrica accompagnò le partite di calcio fino al 1943. Furono in parte tollerate perché non si trattava di tensioni politiche e, in fin dei conti, non rappresentavano un pericolo per il regime. I tifosi al più erano una specie di ‘indifferenti’ degli stadi, come i protagonisti del romanzo di Alberto Moravia uscito nel 1929.
Da qualche anno, calciatori come il portiere del Milan Christian Abbiati, fanno il loro coming out mussoliano. Se avessero la curiosità di sfogliare i periodici pubblicati durante il Ventennio, potrebbero verificare che i loro predecessori non erano affatto gli idealtipi dello sportivo fascista e che furono anche accusati di essere dei mercenari o peggio degli imboscati. Ciò significa che la storicizzazione di questo aspetto della storia del Ventennio è necessaria per capire la passione degli italiani per il campionato di serie A, il quale è senz’altro l’istituzione più solida del Novecento italiano! Questo non significa che il calcio non fu politicizzato. Il ‘giornalista’ Vittorio Pozzo ne dà numerosi esempi. Una ragione di più per lui e suoi colleghi, come Bruno Roghi, direttore della Gazzetta dello Sport, per gettare un velo pudico nell’immediato dopoguerra su queste relazioni pericolose tra calcio e regime e per costruire, con altri ‘gerarchi’ dello sport, la leggenda dell’apolitismo sportivo che innerva la memoria dello sport.
È quindi questa ambivalenza, questa complessità della posizione del calcio e dei calciatori sotto il regime, che fa di questo sport un osservatorio singolare e pertinente degli anni del fascismo.

(1) Sport e fascismo. La politica sportiva del regime 1924-1936, Felice Fabrizio, Guaraldi, 1976
(2) Storia della prima Repubblica, Aurelio Lepre, Il Mulino, 1993, pag. 146
(3) Il film del Campionato di calcio 1942-1943
(4) Gioventù d’Azione. Giustizia e Libertà, anno 2, n. 4, 27 Maggio 1945
(5) Le football et le rapprochement des peuples, Jules Rimet, Fifa, 1954
(6) Histoire merveilleuse de la Coupe du monde, Jules Rimet, Union européenne d’éditions, 1954, pag. 99
(7) Vittorio Pozzo. Storia di un italiano, Mauro Grimaldi, Società Stampa Sportiva, 2001
(8) in particolare Football and Fascism: the national game under Mussolini, Simon Martin, Berg, 2004
(9) Il Libro dello Sport, Lando Ferretti, Libreria del Littorio, 1928, pag. 164
(10) Su questo episodio dell’appeasement sportivo cfr. Scoring for Britain: international Football and International Politics 1900-1939, Peter J. Beck, Franck Cass, 1999
(11) Football, 28 giugno 1934
(12) L’Orologio, Carlo Levi, Einaudi, 1989 (prima ed. 1950), pag. 192
(13) Viri (Virginio Rosetta): piccola storia di un grande atleta, Erberto Levi, Editrice Popolare Milanese, 1935
(14) Lando Ferretti, op. cit., pag. 225
(15) Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Nuto Revelli, Einaudi, 2003, pagg. 14-15
(16) Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Antonio Gibelli, Einaudi, 2005, pag. 319
(17) Dopo la parola del Duce. Basta coi regionalismi!, Il Littoriale, 28 luglio 1932

Paul Dietschy (Storico, francese, specializzato nella storia dello sport, in particolare del calcio. Tra le sue pubblicazioni: Histoire du football, Paris, Éditions Perrin, 2010) in paginauno, 10 dicembre 2010

[…] Per quanto riguarda la religione della patria e la politica dei fascisti in campo della cultura ci sembra essere una grande diversità di punti di vista sul modo, in cui i fascisti hanno provato a controllare la vita culturale in Italia. A proposito di questo argomento George Mosse dice che << il fascismo creava un ambiente politico che provava ad assorbire tutto l’uomo, fare molto attenzione a tutte le forme di senso ed emozione e fare dall’astratto una cosa concreta, di modo che diveniva una cosa nota, visibile e concreta.>> Aggiunge che <<la messinscena era cruciale per la rappresentazione del fascismo, mentre l’espressione visuale del fascismo nell’architettura, l’arte e l’edilizia urbana aveva un posto di comando per quanto riguarda le espressioni del pensiero politico del movimento>> < 9
Simonetta Falasca-Zamponi racconta del <<discorso ufficiale del fascismo, essendo composto da immagini, rituali e discorsi, con cui la storia del fascismo veniva raccontata.>> Tramite la mistificazione di varie cose, per esempio la Marcia su Roma, il fascismo provava a creare la sua unica storia. Falasca-Zamponi lo spiega come << un discorso intersoggettivo, il quale trova posto in un ambiente sociale determinato e un’epoca storica. Tramite queste rappresentazioni narrative nasce un consenso tra i membri di un collettivo (in questo caso la società), a cui appartengono tutti.>> Secondo Falasca-Zamponi le forme non-linguistiche sono state <<un elemento essenziale nella formazione dell’identità del regime fascista. >> Lei intende con le forme non-linguistiche cose come rituali, miti e immagini. Per quanto riguarda l’elemento sport, in questa tesina sarà fatta molto attenzione a cose come le gare sportive e la stampa. Tramite l’attenzione per queste cose i fascisti hanno provato a <<creare una coesione in una società molto separata.>> Tramite la partecipazione a cose come festival pubblici, per esempio gare sportive, si tentava a <<creare uno spirito nazionale, con cui i rituali e le ceremonie erano il cemento dell’unità della nazione>> <10
[…] Nelle varie divagazioni scientifiche sono state scritte alcune parole indirette di questo argomento. George Mosse parla della <<lode per lo stadio atletico nel Foro Mussolini per via della stessa semplicità di stile usata come nel caso dello stadio di Norimberga >>, costruito dai nazi. Poi parla anche dell’<<ideale dell’èquipe >>, un termine che è stato creato da intelletuali francesi e di cui verrà parlato più tardi nella ricerca. Poi, Mosse introduce la ginnastica come <<una parte di festival nazionali>>. Con ciò Mosse cita Guts Muths, che lega la ginnastica alla bellezza maschile. Di questa bellezza maschile verrà parlato più tardi in questa tesina. Un brano nell’opera Il fascismo sintetico di Giuseppe Iannacone indica che Mussolini faceva sul serio attenzione allo sport. Nella sua opera Iannacone cita Mussolini da un’opera di Renzo De Felice. Cita una frase di Mussolini, in cui dice che <<il borghese è nemico dello sport. Nemicissimo dello sport, di tutto quello che può turbare il suo stato perenne di quiete>>. <16 Mussolini considerava lo sport una forma di attività, la quale va perfettamente insieme con il fascismo, specialmente per quanto riguarda gli elementi della bellezza maschile e dell’attività.
Recentemente c’è stata fatta più attenzione allo sport come elemento della politica fascista in campo della cultura. Però, i contributi si limitano a un solo sport, cioè il calcio, uno sport amato da molti italiani. Nella sua opera Calcio, a history of Italian football John Foot fa attenzione al ruolo del calcio durante il dominio fascista. Un’opera più scientifica è Football and Fascism, the national game under Mussolini di Simon Martin, lanciata nel 2004. In questa opera viene citato Leandro Arpinati, il presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) dal 1926 al 1933 <17. In questa citazione Arpinati parla del fatto che <<lo sport non è solo una forma di competitività tra campioni, ma anche un’educazione fisica indispensabile per la massa>> <18 Vedremo più tardi in questa tesina le ragioni, per cui la massa andava educata. Gli stadi dovevano fungere da <<teatro per la massa>> <19 […]
4. I mondiali di calcio del 1934
Nel 1934 Italia organizzò i mondiali di calcio. Già in quel momento questo sport godeva una popolarità enorme nel mondo occidentale.La Squadra Azzurra aveva un ruolo importante nella lotta dei fascisti di far avvenire ‘una rinascita’ della nazione.Durante l’instaurazione del regime fascista lo sport era già molto popolare e questa popolarità continuava a crescere durante il periodo del regime fascista. Il calcio era dunque un mezzo di propaganda allettante per i fascisti.Martin dice perfino di questo argomento che <<la Squadra Azzurra offre la prova più convincente del fruttuoso programma nazionale di rinascita.>> Tramite il calcio il regime tentava di <<diffondere miti nazionali, rituali e codici di comportamento, i quali dovevano realizzare la rinascita e la nazionalizzazione della massa >>
4.1 I mondiali come esempio dell’Italia nuova
Per il regime fascista il torneo era l’occassione ideale per mostrare che cosa implicava l’Italia fascista e di che cosa il paese era in grado. Martin confronta giustamente questo evento con le Olimpiadi che avevano luogo nella Germania dei nazi nel 1936. Tramite questo torneo Mussolini e i suoi avevano la possibilità di mostrare al mondo tutti gli sviluppi positivi, i quali erano stati prodotti grazie alla rinascita della nazione, sia in campo delle prestazioni sportive che in campo dell’infrastruttura. Inoltre, il regime tentava di presentarsi come un ospite degno per i partecipanti. Augusto Parboni diceva di questo argomento nella rivista Lo Sport Fascista che <<un evento così colossale, a cui parteciperanno le squadre di quattro continenti, poteva essere organizzato solo dall’Italia di Benito Mussolini che aveva dato al mondo tutte le condizioni di un’organizzazione geniale e perfetta, la quale si tentava di copiare vanamente .>>
Una buona forma di pubblicità per il regime era dunque molto importante per il fascismo. La crisi economica aveva intoccato l’attrazione del regime e la politica estera maneggiata fino all’inizio del torneo era stata tutt’altra che fruttuosa. Tramite un’eventuale vittoria il regime avrebbe recuperato molto prestigio. Per esempio, per questa ragione venivano prodotti francobolli dedicati ai mondiali di calcio. In questo modo il regime sfruttava << le possibilità di pubblicità, profitto e propaganda>> nel modo migliore . Inoltre, ogni giorno la stampa comunicava i risultati ottenuti dalla Squadra Azzurra, con cui si poteva avvertire una sfumatura molto nazionalista. Le gare d’Italia venivano descritte come eventi , con cui non erano attivi undici uomini italiani, ma <<una razza, la quale si presentava con i suoi sentimenti, istinti, rabbia, estasi, carrattere e atteggiamento.>> Inoltre, veniva stabilita regolarmente una relazione tra il comportamento dei giocatori e <<la sangue latina>>, la quale era la causa del <<zelo, la passione, lo spirito combattivo e il carrattere sopraffacente degli italiani .>> La vittoria e la superiorità razziale si erano collegate inestricabilmente.
Interessava tutto al regime la vittoria della Squadra Azzurra e la conquista del Coppa del Mondo, la quale era stata ribattezzata la Coppa del Duce. I successi della Squadra Azzurra potevano essere usati come propaganda interna per collacare il collettivo in primo piano. La squadra di calcio come collettivo era <<un’allegoria perfetta, in cui gli individui venivano depersonalizzati e si perdevano in questo collettivo .>> I fascisti consideravano dunque il calcio, uno sport di squadra, la loro immagine ideale della società. Una società, la quale consisteva in non-individui, cosìcche in questo modo era facile controllarli e domarli. Inoltre, una vittoria sarebbe stata un segno di <<superiorità razziale.>> Una vittoria avrebbe dato al regime molto prestigio e poteva dunque servire da mezzo di propaganda verso l’estero. I giocatori erano l’ambasciatori d’Italia e dell’italianità. Inoltre, sarebbe stato molto imbarazzante se un’altra squadra avesse vinto la ‘propria’ Coppa del Duce.
Dunque, la Squadra Azzurra era sotto una pressione enorme. Il mito che era stato creato dal regime, risultava nel fatto che adesso la squadra era obbligata a vincere il torneo. Ogni altro risultato avrebbe significato una perdita di prestigio gigantesca per i fascisti. Però, le iniziative dei fascisti in campo del calcio avevano dato buoni frutti. La struttura realizzata dai fascisti aveva risultato in <<una generazione di giocatori che erano capaci di portare il compito quasi impossibile a buon fine .>>
Durante i mondiali di calcio l’allenatore della Squadra Azzurra era Vittorio Pozzo. Questo uomo era un bel esempio di un leader forte, a cui ubbedivano tutti i giocatori. Pozzo metteva l’accento sull’attacco e l’aggressività. Poi, faceva la propria bandiera dello spirito di squadra. Dogliani dice di Pozzo che faceva ambire i suoi giocatori a <<un sentimento di vittoria a qualsiasi prezzo, come gli Arditi durante la Prima Guerra Mondiale>> Martin dice di questo argomento che l’allenatore metteva anche l’accento sugli aspetti nazionalisti e combattivi per rendere i giocatori consapevoli del loro ruolo di rappresentanti del regime , anche se Pozzo stesso non era membro del PNF. Questo rispecchia di nuovo la visione ambigua del regime in campo dello sport. Il fatto che Pozzo non era membro del PNF non era un problema per il regime, finché continuava a ottenere vittorie con la Squadra Azzurra.
Per conquistare il titolo di campione del mondo del 1934 Pozzo optava per <<una nuova generazione di atleti che era stata educata con le ideali fasciste. >> Però, Pozzo guardava sul serio oltre i confini della nazione per cercare ispirazione. Aveva giocato a calcio in Francia, in Svizzera e in Germania. Però, la maggior parte della sua ispirazione per costruire una propria visione sul calcio, l’ha cercata proprio in Inghilterra, il paese di cui i fascisti avevano orrore a causa della loro visione sullo sport . Sulla base del WM dell’inglese Herbert Chapman (anche noto come il sistema) Pozzo sviluppava il suo proprio sistema chiamato WW, cioè il metodo . La fonte d’ispirazione per questa tattica, la quale avrebbe avuto molto successo, era dunque l’allenatore della squadra inglese Arsenal. Poi, Pozzo aveva a dispozione gli oriundi. Questi giocatori si facevano influenzare molto dalla preferenza sudamericana per dribblare. Pozzo aveva una visione originale su questi giocatori. Secondo l’allenatore <<il giocatore italiano si concentra sulla semplicità, il gioco veloce e ottenere risultati positivi tramite il modo più semplice, questo al contrario degli oriundi dribblanti.>> Secondo Pozzo, i sudamericani tentavano di giocare il gioco, mentre gli italiani tentavano di risolverlo .
La conseguenza era un crogiolo di tattica inglese, tecnica sudamericana e semplicità e disciplina italiana. Questo crogiolo fatto da Pozzo è stato la base dei successi della Squadra Azzurra. Anche il metodo di lavoro di Pozzo rispecchia una visione ambigua. Tramite i loro programmi i fascisti tentavano di creare l’italiano nuovo. Però, il modo, in cui la Squadra Azzurra otteneva i successi, era stato influenzato moltissimo da cose di oltre i confini d’Italia. Pozzo non è stato mai punito per questo metodo di lavoro. È vero il contrario, perché alla fine Pozzo è stato l’allenatore della Squadra Azzurra per quasi 7000 giorni, una cosa che dopo l’epoca di Pozzo non è mai stata uguagliata. Da questo risulta di nuovo che lo scopo, cioè pubblicità positiva per il regime, veniva considerato più importante che i mezzi, con cui si tentava di raggiungere quest’obiettivo.
La vittoria finale della Squadra Azzurra era la prova della progressione, la quale il paese aveva fatto in campo dello sport. Nello stesso anno Gino Bartali vinceva infatti il Giro di Francia, la gara ciclistica più importante del mondo. Gli sportivi erano un buon mezzo di propaganda per i fascisti. Questo risulta anche da un articolo di Bruno Roghi nella Gazzetta dello Sport. Dopo la seconda conquista del titolo di campione del mondo dalla parte della Squadra Azzurra nel 1938 Roghi scriveva che <<la vittoria della razza splende sopra la vittoria atletica .>> L’italiano nuovo, rappresentato dai giocatori della Squadra Azzurra, era diventato una sorta di superuomo.
4.2 Il rovescio della medaglia
Però, è necessario fare alcune considerazioni sulla vittoria finale della Squadra Azzurra nel 1934. Primo, la squadra nazionale inglese non partecipò al torneo. A quel momento gli inglesi, che si considerano gli inventori del calcio moderno, furono in dissidio con l’associazione calcistica mondiale FIFA, per cui si boicottò i mondiali di calcio del 1934 . La squadra nazionale inglese veniva allora considerata la vera squadra più forte del mondo. Questa supposizione veniva rafforzata dalla vittoria, la quale gli inglesi ottennero a danno del campione del mondo Italia nel 1934. Questa partita è anche nota come “la battaglia di Highbury.” Gli inglesi riuscirono a chiudere la partita in una fase precoce. Malgrado questa sconfitta il regime riservò un’accoglienza trionfale alla Squadra Azzurra. La Gazzetta dello Sport comunicò in un modo lirico sulla squadra. Ci si domandò <<quale altra squadra e quali altri campioni, che non erano stati educati dal fascismo, sarebbero stati in grado di scrivere una pagina così ricca di imprese e così piena di lezioni come i dieci giocatori della Squadra Azzurra .>> Malgrado la sconfitta la Squadra Azzurra era stata un degno rappresentante dell’Italia fascista. La squadra aveva ottenuto una vittoria morale sui brutti inglesi, che avevano ferito gravemente il giocatore italiano Monti.
4.3 Conclusione
Tutto sommato si può concludere che i mondiali di calcio del 1934 e la vittoria finale d’Italia erano buoni mezzi di propaganda per i fascisti. Si tentava di realizzare un’organizzazione eccellente del torneo, con cui non si poteva notare una nota fuori posto. La stampa doveva innalzare il potere organisatorio del regime. Inoltre, la stessa stampa doveva descrivere le vittorie della Squadra Azzura in un modo mitico. Soprattutto il doppio incontro con la Spagna nei quarti di finale è stato passato alla storia come una vittoria eroica. Martin dice di questo evento che questa partita <<assomigliava più a un combattimento che una partita di calcio, proprio il tipo di confronto, per cui l’italiano nuovo era stato allenato .>> Per la seconda partita Italia era costretta di sostituire quattro giocatori. Questa seconda partita era diventata necessaria, perché il risultato della prima partita fu un pareggio. Però, gli spagnoli dovevano perfino sostituire sette giocatori a causa di infortuni. Moralmente, la situazione era a favore degli italiani. Grazie al sostegno molto fanatico dei tifosi fiorentini, alla fine la Squadra Azzurra fu in grado di battere la squadra spagnola. Phil Ball dice di questa partita che <<gli italiani calciarono gli spagnoli rimasti nell’oblio .>>
Però, la vittoria finale degli italiani era abbastanza controversa. In primo luogo il difensore del titolo Uruguay non partecipò ai mondiali. Inoltre, abbiamo già potuto vedere che anche i forti inglesi non assistettero al torneo. Così, la vittoria italiana perde più o meno lo smalto. Poi, gli appassionati di calcio non-italiani criticarono la partita contro la Spagna nei quarti di finale. Durante la partita l’arbitro aveva preso alcune decisioni discutibili a beneficio degli italiani , per cui alla fine la Squadra Azzurra arrivò in semifinale. Adesso Italia doveva giocare contro la Wunderteam di Austria. Anche questa partita puzzava. Già prima della partita Hugo Meisl, l’allenatore dei forti austriachi, temé che l’Italia sarebbe stata favorita dall’arbitro. La frase “Temo l’Italia, ma temo molto di più l’arbitro” fece sospettare che Meisl già conoscesse il risultato della partita. L’Italia vinse questa partita con 1-0 grazie a un gol dell’argentino-italiano Guaita. Segnò il gol vincente, mentre il portiere austriaco si trovò infortunato sulla terra. Però, l’arbitro Ivan Eklind convalidò il gol. ‘Per caso’ questo signore Eklind era poi anche l’arbitro nella finale . Anche se non è mai venuta a galla la verità su questa decisione, il dubbio sull’onestà di questa decisione continuerà a esistere per sempre.
Alla fine la Squadra Azzurra aveva ottenuto la vittoria finale richiesta dal regime. Però, tutto sommato questa vittoria non era tanto eroica quanto i fascisti affermavano.
[…] 9 George L. Mosse, The Fascist Revolution (New York: Howard Fertig Inc., [1999]), 9-14
10 Simonetta Falasca-Zamponi, Fascist Spectacle (Los Angeles: University of California Press, [1997]), 6-9
16 Giuseppe Iannacone, Il fascismo “sintetico”, Letteratura e ideologia negli anni Trenta (Milano: Greco & Greco Editori s.r.l., [1999]), 76
17 Simon Martin, Football and Fascism, The national game under Mussolini (Oxford: Berg, [2004]), 31
18 Ibidem, 31
19 Ibidem, 80
Tommy van Eldik, Lo sport come elemento della politica fascista in Italia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Utrecht, 2007

Durante il Ventennio, propaganda e consenso si ressero sul delicato equilibrio fra strumenti coercitivi e strumenti persuasivi. Se dal 1922 al 1926 fu l’uso prevalente dei meccanismi coercitivi a consentire al regime la distruzione di ogni opposizione organizzata e l’occupazione dei gangli fondamentali dello Stato, la fase dal 1926 ai primi anni Trenta fu destinata alla costruzione di quella “macchina del consenso” pronta a essere lanciata a piena accelerazione. In questa seconda fase si collocò anche il cuore della politica sportiva del fascismo.
Si partì da un assunto. Il mercato dello sport mostrava un’evidente disparità fra domanda (crescente) e offerta (piuttosto modesta). Una mancanza di opportunità che si era palesata mentre i vantaggi della modernità iniziavano a garantire agli italiani buone opportunità di svago: si pensi all’entrata in vigore della legge n. 473 del 17 aprile 1925 – promossa dal regime – che garantiva alla popolazione una maggiore quantità di tempo libero. Differentemente dai vari governi liberali, dalla Chiesa cattolica e dai movimenti socialisti – piuttosto tiepidi nei confronti dello sport – il fascismo comprese il contributo che esso poteva offrire alla socializzazione di massa, di cui la giovane e frammentata popolazione italiana aveva grande bisogno.
La politica sportiva del fascismo conobbe sostanzialmente due fasi. Negli anni Venti si occupò di disegnare una solida identità all’attività sportiva, intendendo estirpare anche in questo campo i suoi antagonisti (rappresentati soprattutto dall’associazionismo cattolico e dai centri sportivi afferenti alle organizzazioni operaie); negli anni Trenta, invece, lo sport costituì elemento di propaganda domestica e internazionale, divenendo efficacissimo strumento a uso del regime per la creazione di una cultura popolare e di un senso di comunità condivisa, favorito dalla nascita di rituali, miti e luoghi sportivi. Una volta acquisito il potere, Mussolini si pose tre obiettivi: appropriarsi dello sport giovanile; assorbire e rimodellare secondo i propri scopi le prime associazioni sportive che agivano nel panorama del dopolavoro industriale; ottenere il controllo delle società ginniche già aderenti alle federazioni sportive nazionali.
Questi obiettivi furono perseguiti mediante la creazione, nella seconda metà degli anni Venti, dell’Opera Nazionale Balilla e dell’Opera Nazionale Dopolavoro nonché, soprattutto, attraverso l’egemonizzazione del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano), sorto nel giugno del 1914 da una precedente delegazione italiana del CIO (Comitato Olimpico Internazionale). Il CONI divenne ben presto strumento appannaggio del Partito Nazionale Fascista, che nominava i dirigenti delle singole federazioni sportive, imponendo il fascio littorio su tutte le insegne sportive nazionali. Dal 1925, alla guida del CONI fu posto il giovane squadrista toscano Lando Ferretti, teorico di punta dello sport fascista <1.
Già co–direttore della «Gazzetta dello Sport» e caporedattore del «Secolo» e dello «Sport fascista», Ferretti aveva un’idea ben chiara dello sport e delle sue enormi potenzialità propagandistiche. L’obiettivo doveva essere la diffusione della pratica sportiva fra le masse. Lo sport, osservava Ferretti, serviva a «riflettere, penetrare ed elevare le masse. La massa è il suo unico obiettivo, non l’individuo» <2. Il fascismo, coerentemente con le sue mire, puntò dunque in maniera gradualmente inferiore sulle imprese del singolo atleta – pur con importanti eccezioni: si pensi al caso del pugile Primo Carnera, “eroe” dello sport fascista negli anni Trenta – prediligendo il gioco di squadra, in particolare il calcio, la disciplina che meglio si prestava a una simile strategia.
2. Il calcio «giuoco fascista»
Come in gran parte dell’Europa, anche in Italia il calcio aveva conosciuto una crescita esponenziale nel primo dopoguerra. Le sessantasette compagini inquadrate nella FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) – sorta nel 1909 come evoluzione della FIF (Federazione Italiana del Football), prima organizzazione di governo del calcio italiano, nata nel 1898 – divennero ottantotto in soli due anni, fra il 1919 e il 1921 <3. La crescita di popolarità del calcio, e le folle al seguito di esso, iniziarono a costituire elemento costante, tanto che le società presero a finanziare delegazioni delle tifoserie affinché potessero essere al fianco della loro squadra nelle trasferte <4.
L’obiettivo di unificare il Paese dal punto di vista sociale e culturale spinse Mussolini, nel 1926, a ordinare una ristrutturazione del calcio, lo sport scelto dal fascismo, data la sua popolarità, per diffondere l’identità del regime fra le masse. «Sebbene il fascismo preferisse sport più tradizionalmente accademici come la scherma, o più moderni come l’automobilismo […] comprese immediatamente la presa che poteva esercitare sulle masse uno sport come il calcio», pur pratica di matrice britannica <5 e dunque non esattamente graditissima al duce. Sotto la supervisione di Ferretti, fu nominata una commissione composta dal futuro prefetto romano Italo Foschi, dall’ingegner Paolo Graziani e dall’arbitro e avvocato Giovanni Mauro. Il loro lavoro confluì in quella nota come “Carta di Viareggio”, pubblicata il 2 agosto 1926 e celebrata dalle penne di regime come «una concezione generale e rivoluzionaria di governo» <6.
Essa, fra le sue principali innovazioni, sostituì il precedente Consiglio federale della FIGC con un Direttorio federale, i cui componenti sarebbero stati nominati dal presidente del CONI. Il presidente della FIGC e il Direttorio federale, insieme al presidente del CONI cui risultavano subordinati, avevano così l’autorità assoluta su tutte le questioni legate al calcio, la cui trasformazione definitiva in «giuoco fascista» era sancita agli occhi degli italiani dall’aggiunta del fascio allo scudo sabaudo nello stemma impresso sulla divisa dei membri del CONI e dunque anche delle squadre di calcio. Si procedette, inoltre, alla riorganizzazione dei campionati nazionali che avrebbe compreso tre Divisioni – Prima, Seconda e Terza – suddivise in gironi da criteri geografici ed economici. Ad ogni modo, nelle fasi finali si sarebbero scontrate le migliori squadre di tutte le singole Divisioni, indipendentemente dalla loro provenienza territoriale: quest’aspetto, coerentemente con quanto voluto da Ferretti e dai membri della commissione della Carta di Viareggio, avrebbe garantito la formazione di un unico quadro nazionale in linea con gli obiettivi identitari del regime. Inoltre, in conformità con l’obiettivo di proteggere sia le grandi che le piccole compagini calcistiche – e dunque di garantire la massima partecipazione a quello che si stava delineando come lo sport di massa – fu creata la Coppa d’Oro, riservata alle squadre che non si sarebbero riuscite a qualificare per le fasi finali delle rispettive Divisioni e che, in tal modo, non sarebbero rimaste inattive.
Tre ulteriori aspetti veicolavano agli italiani, mediante il calcio, idee cardine dell’apparato ideologico del fascismo: la creazione della condizione di «non dilettantismo», che garantiva ai calciatori un «rimborso spese» <7 – in linea con l’art. 113 della FIFA (Fédération Internationale de Football Association, la federazione internazionale che già dal 1904 governava lo sport del calcio) – ma non li definiva professionisti, temendo che una professionalizzazione dell’attività avrebbe potuto minare la moralità della pratica calcistica <8; il divieto assoluto per le squadre di tesserare stranieri (con la sola eccezione degli allenatori), in linea con la volontà di “italianizzare” il calcio; la necessità che ogni atleta FIGC possedesse una «fedina penale pulita e fosse un esempio irreprensibile di strenua attività nella sua vita privata e professionale» <9.
Una logica conseguenza della rivoluzione sportiva – e in particolare della rivoluzione calcistica messa in atto – eco e prolungamento della rivoluzione politica del totalitarismo fascista, fu la progettazione di impianti senza precedenti nella storia.
3. La realizzazione dei progetti di massa: dalla legge 1580 alla nascita della Commissione Impianti Sportivi
La prima normativa italiana volta a regolare la costruzione e il restauro degli impianti sportivi giunse nel 1928, anno in cui le cariche di segretario del PNF e di presidente del CONI confluirono nelle mani del gerarca Augusto Turati, che raccolse l’eredità di Ferretti. Si trattava della legge n. 1580 del 21 giugno 1928, firmata da Mussolini e dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi.
Essa subordinava al parere del CONI il via libera prefettizio per la costruzione o l’acquisto, l’adattamento e il restauro di qualsiasi impianto sportivo <10.
Alla luce di un simile snellimento burocratico, accompagnato da importanti agevolazioni fiscali11, non deve stupire che già alla fine del 1928 gli impianti sportivi realizzati, nella tipologia dei cosiddetti Campi del Littorio, risultavano essere 441 (339 al Nord, 63 al Centro e 39 al Sud), secondo il periodico ufficiale del CONI <12.
Nel 1930 sarebbero stati pari a 3280 distribuiti su più di duemila comuni <13. Per comprendere la portata di questo investimento sullo sport si può prendere in esame proprio il 1928: in quell’anno ben il 15% della spesa complessiva riservata dai comuni italiani alle opere pubbliche fu destinata all’implementazione dell’impiantistica sportiva <14.
In questa fase il Paese si trasformò in un “cantiere sonante”, cercando di mostrare il dinamismo economico del regime e di sopperire alle difficoltà del momento mediante l’aumento dei posti di lavoro nei cantieri destinati alle opere pubbliche. Quello sugli impianti sportivi fu, infatti, un investimento anticongiunturale, intrapreso in una fase – almeno negli anni fra il 1928 e il 1933 – di costante decrescita del PIL.
[NOTE]
1 Sull’attività di Ferretti come presidente del CONI, cfr. E. LANDONI, Gli atleti del duce. La politica sportiva del fascismo 1919-939, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 76-94.
2 La cultura e lo sport in un discorso di Lando Ferretti, «Il Littoriale», 22 gennaio 1929, pp. 1-2.
3 Cfr. G. PANICO, A. PAPA, Storia sociale del calcio in Italia dai club dei pionieri alla nazione sportiva (1887-1945), Il Mulino, Bologna 1993, p. 116.
4 Già nell’aprile del 1925, a seguito di una sconfitta in trasferta del Bologna contro il Verona, il giornale del capoluogo emiliano, «La Voce sportiva», attribuiva l’esito negativo alla scarsa affluenza di tifosi bolognesi, calcolando che un investimento di circa tremila lire da parte della società felsinea avrebbe garantito la presenza di quattrocento supporters al seguito pronti ad aiutare la squadra. Cfr. Football, «La Voce sportiva», 9 aprile 1925, p. 1.
5 S. MARTIN, Calcio e fascismo. Lo sport nazionale sotto Mussolini, Mondadori, Milano 2006, p. 4.
6 G. ZANETTI, G. TORNABUONI, Il giuoco del calcio. Commento alla legislazione della FIGC, Ceschina, Milano 1933, p. 24.
7 Il riassetto della FIGC, “La Gazzetta dello Sport”, 3 agosto 1926, p. 1.
8 Guido Beer, capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio, nel 1928 così si esprimeva in merito al pericolo della professionalizzazione dei calciatori: «Il problema capitale della vita sportiva italiana è quello di rallentare l’enorme sviluppo del professionismo, che è pericolosissimo per la nazione. Il professionista deve avere questo nome perché […] lo diventa quando ci si dice dilettanti mentre si ricevono regolarmente forti somme […] oppure si risiede tutto l’anno a spese della direzione dei grandi alberghi». ACS, Presidenza del Consiglio dei Ministri 1928-1930, f. 3.2.5, n. 403, Pro-memoria, 15 settembre 1928, p. 1.
9 Federazione Italiana Giuoco Calcio, Annuario italiano del giuoco del calcio, Tipografia Modenese, Modena 1928, p. 145.
10 Cfr. Provvedimenti per la costruzione dei campi sportivi, «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», a. LXIX, n. 166, 18 luglio 1928.
11 Cfr. D. BOLZ, Les arènes totalitaires. Hitler, Mussolini et le jeux du stade, CNRS, Parigi, 2008, pp. 81-83.
12 I campi sportivi comunali costruiti durante l’Anno VI, «Il CONI», a. I, n. 9, 12 settembre 1929.
13 Cfr. I campi sportivi in Italia e la necessità di vigilarne la costruzione, “La Gazzetta dello Sport”, 18 aprile 1930, p. 3.
14 Cfr. E. LANDONI, op. cit., p. 100.
Matteo Anastasi, Fascismo, sport e identità nazionale. Gli stadi di calcio come veicolo di propaganda e strumento di consenso popolare in (a cura di) Novella di Nunzio e Francesca Zantedeschi, Il passato nel presente. Memorializzazione e usi pubblici della storia, Culture Territori Linguaggi CTL 17, Università degli Studi di Perugia, 2020