La partigiana Laura ed il comandante Marco

Francesca Laura Wronowska, nasce a Milano da una famiglia benestante di origine polacca. E’ la terza figlia di Casimiro Wronowski e Nella Titta. Una donna straordinaria e forte Nella, punto di riferimento per tutta la famiglia e proprio come ricorda Laura era lei la vera antifascista di casa. Nel 1924, Laura aveva poco meno di un anno, quando dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti zio acquisito in quanto marito di Velia Titta sorella di Nella. Il padre di Laura, Casimiro, si dimise dall’ incarico per protesta. La conseguenza, fu la miseria e la perdita dello status sociale
[…] Si spostarono quindi a Finale Ligure, dove Laura scoprì la bellezza del territorio, il mare, la passione per il nuoto e l’affetto di quel paesino di pescatori. In Liguria i Wronowski passarono un periodo di vera e propria miseria: la zia Velia (vedova di Matteotti), passava loro vestiti dei figli, che venivano quindi aggiustati ed indossati da Laura e i fratelli. Tanta era la solidarietà anche da parte dei bottegai liguri, che regalavano alla famiglia sapone, riso, pane, tutto ciò di cui avevano bisogno. Dopo Finale Ligure, la famiglia si trasferì a Bordighera e poi a Lavagna. Nel 1938 morì la zia Velia e i figli di Matteotti vennero affidati alla famiglia Wronowski. La casa di Lavagna era troppo piccola per accogliere tutta la nuova famiglia e quindi decisero di trasferirsi a Chiavari. Laura amava lo sport, soprattutto il nuoto e nella piscina di Chiavari conobbe Sergio [Kasman]. Correva l’estate del 1942 e Laura era all’epoca una bella ragazza diciassettenne. Da parte sua, Sergio era un ragazzo bellissimo, atletico, e lei provò subito un forte sentimento nei suoi confronti. Il padre di Sergio, Ivan Kasman, era un musicista ebreo di origine ucraina, emigrato a Torino nel corso della Rivoluzione Russa del 1918. In Italia conobbe la moglie Maria Scala. Nel 1938/1939, a causa delle leggi razziali, emigrò negli Stati Uniti senza più fare ritorono a casa, lasciando la famiglia nella miseria.
[…] A fine estate, Sergio tornò a Torino per proseguire i suoi studi universitari ma proprio in quell’inverno del 1942 ricevette la famosa “cartolina rosa” – utilizzata dai distretti militari per richiamare i cittadini alle armi – che lo obbligava a presentarsi al fronte per difendere l’Italia. Laura ricevette la sua ultima cartolina da Roma, dove le raccontava di quello che stava vivendo e che era stato inserito con i granatieri di Sardegna. L’8 settembre del 1943, Sergio si trovava a Roma, Porta San Paolo. Quì combatté contro i fascisti, ma poi, accorgendosi che la sua squadra era in minoranza, essendo lui Tenente, prese la decisione di ritirarsi e ripartì per Chiavari. Putroppo quando arrivò non vi trovò più Laura, che pedalava già verso la montagna. Sergio aderì quindi alla Resistenza con il nome di battaglia di “Marco”
[…] Da quel momento Laura, non ebbe più nessuna notizia di Sergio in quanto l’Italia era spaccata in due dalla guerra e non c’era nessuna possibilità di avere notizie, soprattutto impegnata nella sua attività partigiana in montagna.
[…] Il 9 settembre del 1943, Laura salì per la prima volta in Valfontabuona in bicicletta. Fu lei, infatti, ad essere incaricata a salire sulle montagne per scegliere una località che garantisse un minimo di sicurezza, e verificare anche la disponibilità dei contadini del posto. Iniziò così la “sua” Resistenza, che durò 18 mesi, tra le paure di una giovane donna e il pensiero di quello che la vita le avrebbe riservato.
[…] Successivamente arrivarono Roberto Bonfiglioli, Prospero Castelletto e Nando, uno studente universitario di buona famiglia. La formazione rimase stanziata in una baracca di Serra di Moconesi per circa un mesetto e da lì iniziò una nuova vita. Con il nome di battaglia “Kiki”, Laura divenne quindi la pioniera della formazione Giustizia e Libertà, dove all’inizio svolgeva compiti di staffetta informatrice e poi anche infermiera tuttofare.
[…] Grazie ai lanci che venivano effettuati, si crearono vari distaccamenti e nacquero così le Brigate. La prima brigata, prese il nome di “Piero Borrozzo”, un ragazzo torturato e fucilato nella IV zona. Nel dicembre del 1943, Antonio Zolesio – marito della sorella Natalia e quindi cognato di Laura – venne inviato in Valfontanabuona, dove insieme a PierLorenzo Wronowski (fratello di Laura), Giulio Bertonelli (“Balbi”), i cugini genovesi Gaetano e Edoardo Basevi, Giulio Bottari (“Avvocato Rocca”), e altri azionisti, organizzò un reparto di Giustizia e Libertà, del quale divenne comandante. Ai primi di marzo del 1944, venne poi costituita la Brigata Matteotti di cui Laura ne entrò a far parte entro la formazione “Antonio Lanfranconi”.
Consuelo Simonini, Storia di Laura. Storia di Laura è un progetto del Laboratorio di Cultura Digitale, frutto del lavoro di tesi in Informatica Umanistica di Consuelo Simonini (a.a. 2016-2017), curata da Enrica Salvatori e Andrea Marchetti

Tecla e Laura hanno una cosa in comune: il compleanno. Sono nate entrambe il primo gennaio, ed è proprio quello il giorno in cui si incontrano per caso sulle scale del palazzo in cui entrambe abitano. Qui, però, finiscono le somiglianze perché Tecla ha tredici anni ed è alle prese con la tesina per l’esame di terza media, mentre Laura di anni ne ha novantacinque ed è alle prese solo con i suoi ricordi. Solo? In realtà non è poco, perché quella non è un’anziana signora come tante. È Laura Wronowski, nipote di Giacomo Matteotti, e la sua vicenda personale fa parte di una Storia più grande, che Tecla ancora non conosce: la Resistenza. Laura è una ragazza che si sentiva “nata con l’animo di traverso” e che a diciannove anni imbracciò un fucile per combattere nelle brigate Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri, di cui era giovane amica e allieva. Parlando a Tecla della sua vita e dei suoi ideali, le apre un mondo intero fatto di scelte e di pericoli, di marce nel bosco, retate fasciste, bombe su Milano, persone da salvare dai campi di concentramento. E del grande amore per un giovane combattente, da cui la separerà la guerra. Mentre la giovane protagonista ascolta il racconto della sua sorprendente vicina, prende forma in queste pagine il romanzo di un’esistenza speciale, spesa in una battaglia per la libertà e la democrazia che non si è mai interrotta e che prosegue nella forma quotidiana della testimonianza. Zita Dazzi è giornalista de “la Repubblica”. Nel 1993 ha vinto il premio giornalistico del’Associazione Interessi Metropolitani e nel 2002 il premio Cronista dell’anno dell’Associazione lombarda giornalisti. La banda dei gelsomini è il suo primo romanzo per ragazzi. Roberto Cenati è presidente dell’ANPI Provinciale di Milano. Maurizio Fabbri, figlio di Laura Wronowski, è responsabile dell’Ufficio Stampa dell’Associazione Italiana Studio Malformazioni Onlus di Milano.
Redazione, 11 febbraio 2021, ore 18. Zita Dazzi, Con l’anima di traverso. Resistenza e libertà di Laura Wronowski, con Roberto Cenati, ANPI MIlano, 4 febbraio 2021

Sergio Kasman – Fonte: ANPI Lombardia

Quest’anno ricorre il centenario della nascita del partigiano Sergio Kasman.
Sergio nasce a Genova il 2.9.1920. Figlio di Ivan Kasman, ebreo di origine russa, e di Maria Scala di Torino. Sergente allievo ufficiale di Artiglieria, era in licenza a Genova quando fu proclamato l’armistizio. Dopo l’8 settembre 1943 il giovane si rifugiò subito sulle alture sovrastanti Chiavari. Di qui cominciò la sua attività, con il nome di battaglia Marco, di organizzatore delle prime formazioni partigiane liguri. Tra i più audaci militanti del Partito d’Azione venne arrestato due volte, ma in entrambi i casi riuscì a salvarsi.
Nel marzo 1944, a soli 24 anni Kasman, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, viene nominato, su indicazione di Ferruccio Parri, Capo di Stato Maggiore del Comando Piazza di Milano. Nel luglio del 1944 Sergio si rende protagonista insieme ad altri tre temerari di un’azione memorabile: la liberazione dal carcere di san Vittore di alcuni prigionieri: Giuseppe Bacciagaluppi, Arialdo Banfi, dirigenti di Giustizia e libertà, e dell’ ufficiale canadese Patterson. Di alta statura, fisico atletico e capelli biondo rossicci il comandante Marco indossata la divisa da SS, è persona credibile agli occhi dei carcerieri. Infatti, quando si presenta in piazza Filangieri, in divisa, per chiedere la scarcerazione di quei prigionieri nessuno nutre sospetti sulla sua identità e glieli consegnano. Il 19 settembre 1944 Kasman a Chiavari compie un’ altra azione di grande coraggio. Il fratello di Sergio, Roberto, allora quindicenne racconta che gli viene chiesto di aiutare una squadra di soldati tedeschi a scaricare delle patate; fa caldo, i militari hanno sete e gli chiedono di dar loro da bere. Lui prende da un magazzino una bottiglia con scritto “moscato” sull’etichetta: i soldati la bevono interamente, e subito dopo si sentono male. La bottiglia conteneva una sostanza velenosa, ma Roberto non poteva saperlo: due di loro muoiono in pochi minuti e, mentre gli altri sono soccorsi, il ragazzo viene arrestato, condotto in carcere, massacrato di botte per più giorni perché riveli il complotto di cui, secondo i tedeschi, fa parte: sanno che è fratello di Sergio, che dopo aver combattuto in Liguria si è trasferito a Como e poi a Milano. Una notte, alcuni militari nazisti svegliano bruscamente il ragazzo e lo fanno salire in auto: solo qualche chilometro più avanti, quando teme di essere avviato alla fucilazione, Roberto si rende conto di essere ormai in salvo: sotto la divisa uno dei falsi tedeschi è suo fratello.
Attirato in un’imboscata tesagli da un infiltrato, Sergio Kasman verrà ucciso dai fascisti da una raffica sparatagli alla schiena, il 9 dicembre 1944, a Milano in piazza Lavater.
A Sergio Kasman è stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Il suo nome è iscritto sotto le volte della Loggia dei Mercanti con altri 1738 Combattenti per la Libertà. Una lapide lo ricorda in piazza Lavater.
Roberto Cenati (Presidente Anpi Provinciale di Milano), 9 dicembre 1944: ucciso dai fascisti a Milano il partigiano Sergio Kasman, ANPI Lombardia, 9 dicembre 2020

«Gli italiani non amano la memoria storica». Parola di Laura Francesca Wronowski, milanese doc, ex partigiana e combattente, con il nome di battaglia «Laura». Allora per far tornare la memoria si può provare con un film? Si può: lo ha diretto Samuele Rossi, 30 anni, con Laura, protagonista insieme con altri sei partigiani. Titolo «La memoria degli ultimi», da vedere il 25 aprile, Giorno della Liberazione, al Mic. Sarà anche l’occasione per incontrare in sala la Wronowski, che si schermisce all’idea di essere diventata una star invitata alle proiezioni… «Ma guarda che sorpresa, alla mia veneranda età». Infatti, ha 90 anni, anche se non li dimostra.
Vive nel centro di Milano, avvolta da libri e quadri, senza televisione e tablet, perché la casa la riempie lei, con l’arte del parlare. Una miniera di ricordi, un tuffo nella nostra storia, senza retorica, come emerge dal film.
[…] La sua definizione di Resistenza?
«La nostra resistenza era innanzitutto la fame di un popolo. Ho ancora in bocca il sapore delle castagne secche che masticavo per non sentire i morsi della fame. Togliere il pane alle persone è come togliere la vita».
Il suo ruolo di staffetta fu non nel Milanese, ma fra la Liguria e l’appennino emiliano, come mai?
«Mio padre era giornalista al “Corriere della Sera”, e fondatore dell’Archivio del vostro giornale. Avevamo una parentela molto scomoda, mio zio era Giacomo Matteotti, ragion per cui dovemmo sfollare, senza papà, prima a Finale, poi a Bordighera, e a Chiavari: mia madre, mio fratello di 6 anni ed io a un anno. Così son diventata ligure d’adozione, anche se c’era sempre un filo diretto con quel genitore milanese che mi mandava tanti libri, di autori francesi e russi, che divoravo».
Entrare nella Resistenza voleva dire imbracciare il fucile.
«Proprio così, avevo una buona mira, da piccola col Flobert giocavo a sparare ai barattoli. Quando entrai fra i partigiani non mi fu difficile usare le armi. In quell’atmosfera di realtà inquietanti e complicate, l’arma era un companatico necessario. Faceva parte di una tattica di guerriglia. Ricordo il silenzio delle fughe, la velocità dei piedi, il procedere senza farsi sentire, e il dover fare economia di proiettili. Lo dico: ho anche sparato, ma non ucciso. Era l’istinto a guidarmi, a puntare contro cespugli che si muovevano troppo».
Redazione, La partigiana Laura, Corriere della Sera, 23 aprile 2014

“Un film prezioso, poco conosciuto, che Chiavari non poteva esimersi dal vedere. Un’importante operazione culturale e politica”. È stato presentato così, ieri mattina in comune, in un incontro riservato alla stampa, “La memoria degli ultimi” il film documentario, che verrà proiettato sabato, alle 16, al cinema Mignon, con ingresso gratuito. «Partendo dal difficile contesto odierno del nostro Paese, questo racconto, semplice e pulito, s’immerge nella memoria della guerra e della Resistenza, attraverso le vite e gli sguardi di sette partigiani combattenti, senza retorica, senza personalismi o strumentalizzazioni» ha spiegato Roberto Kasman, deus ex machina di questa iniziativa, alla quale hanno aderito con entusiasmo, oltre naturalmente all’ANPI, anche Cgil, Società Economica e Il Secolo XIX. E davvero era destino, che questa bellissima testimonianza, firmata da un giovane regista, il trentenne fiorentino Samuele Rossi, approdasse a Chiavari. Molti, infatti, i legami, quasi inconsapevoli con la città del Tigullio: in primis la presenza fra i sette protagonisti, di Francesca “Laura” Wronowska, nipote di Matteotti, che con la sua famiglia, abitò e studiò a Chiavari, prima di ritirarsi sui monti della Val Fontanabuona a combattere e dove conobbe Sergio Kasman, suo indimenticabile e incompiuto amore. E poi la presenza, del tutto casuale e fortuita, fra i fotogrammi iniziali tratti da filmati storici di repertorio, di un giovanissimo Roberto Kasman accanto alla mamma, mentre il generale Cadorna gli appunta al petto la medaglia d’oro assegnata a Sergio, suo fratello, figura chiave della Resistenza, ucciso a tradimento in piazza Lavater a Milano. Una scelta inconsapevole fatta dal giovane regista, selezionando fra moltissimi spezzoni dell’epoca proprio quel frammento, chissà forse una predestinazione, che finalmente ha fatto approdare il film proprio qui. Anche la data scelta per la proiezione, a ridosso dell’8 marzo non è casuale: «Con questo evento vorremmo unire idealmente la festa della donna e quella della Liberazione – hanno spiegato gli organizzatori – due date significative, che simboleggiano due liberazioni, forse non ancora del tutto compiute. Fra i tanti pregi di questo film infatti c’è anche quello di mettere in luce il ruolo determinante delle donne nella guerra di liberazione.
Rappresenta inoltre un inequivocabile atto di accusa, sia pure in forma poetica, nei confronti della nostra società, che ha lasciato completamente soli quegli uomini e quelle donne, alle quali deve la sua stessa libertà». La visione del film sarà introdotta da Roberto Pettinaroli, responsabile dell’edizione Levante de Il Secolo XIX e vedrà la partecipazione in sala, oltre che del regista, di Fernanda Contri e Francesca Laura Wronoswska, che commenteranno a conclusione la pellicola.
Paola Pastorelli, “La memoria degli ultimi”: Chiavari crocevia della Resistenza in Liguria, Il Secolo XIX Levante, 3 marzo 2016

Roberto Kasman aveva poco più di 15 anni quando, per dare una mano alla madre rimasta a Chiavari, con il padre da tempo riparato in America per sfuggire alle persecuzioni anti ebraiche e i due fratelli Marcello e Sergio entrambi nella Resistenza (Marcello aderisce ai maquis francesi e di lui non si saprà più nulla), si trova a lavorare in una sorta di ospedale da campo nel grande edificio della Colonia Fara, sulla spiaggia.
Un giorno del settembre 1944 gli viene chiesto di aiutare una squadra di soldati tedeschi a scaricare delle patate; fa caldo, i militari hanno sete e gli chiedono di dar loro da bere. Lui prende da un magazzino una bottiglia con scritto ‘moscatò sull’etichetta: i soldati la bevono interamente, e subito dopo si sentono male.
La bottiglia conteneva una sostanza velenosa, ma Roberto non poteva saperlo: due di loro muoiono in pochi minuti e, mentre gli altri sono soccorsi, il ragazzo viene arrestato, condotto in carcere, massacrato di botte per più giorni perché riveli il complotto di cui, secondo i tedeschi, fa parte: sanno che è fratello di Sergio, il “Comandante Marco”, che dopo aver combattuto in Liguria si è trasferito a Como e poi a Milano dove è diventato Capo di stato maggiore del Comando Piazza, uno degli esponenti più in vista del Partito d’Azione e delle formazioni di Giustizia e Libertà, al fianco di Ferruccio Parri.
Una notte, alcuni militari nazisti svegliano bruscamente il ragazzo e lo fanno salire in auto: solo qualche chilometro più avanti, quando teme di essere avviato alla fucilazione, si rende conto di essere ormai in salvo: sotto la divisa uno dei falsi tedeschi è suo fratello. “Marco” verrà ucciso in un’imboscata il 9 dicembre 1944; Roberto e la madre, avvertiti, sono ormai nascosti nelle campagne del Chiavarese. Dove l’incubo è la fame, e anche recuperare una patata da mangiare cruda, così com’è, è un’impresa titanica. E per Roberto Kasman il ricordo del fratello, del suo sacrificio e la necessità di tramandarne la memoria sono diventati una missione di vita.
Donatella Alfonso, Roberto Kasman: “Così mio fratello, il comandante Marco, mi salvò dai nazisti”, la Repubblica, 18 aprile 2017