La pregressa emergenza abitativa a Torino e Roma

Nel ventennio compreso tra i censimenti del 1951 e del 1971, all’interno del più generale processo di spopolamento dei piccoli comuni, di polarizzazione dei processi produttivi e di inurbamento nei grandi centri, la popolazione delle due città [n.d.r.: Torino e Roma] crebbe a ritmi vertiginosi.
Il capoluogo piemontese, che nel 1951 contava circa 720.000 abitanti, dieci anni dopo superò il milione di residenti, per arrivare nel 1974 a toccare il numero massimo di 1.200.000. Un incremento che non riguardava solo la città “in senso stretto”, ma che, soprattutto nel secondo decennio, coinvolse le aree circostanti. Complessivamente dal 1951 al 1971 la popolazione di Torino e delle due cinture (per un totale di 52 comuni) aumentò dell’82,7%, per un totale di 1.808.160 abitanti <373. Il fenomeno migratorio fu particolarmente intenso tra il 1959 e il 1962, anni in cui si registrarono i tassi di crescita più alti: nel 1960 arrivarono 64.745 persone, 84.426 nel 1961, 79.742 nel 1962. <374
I nuovi arrivati a Torino furono, nel secondo dei due decenni presi in esame, in gran parte meridionali, tanto che la quota degli abitanti nati al Sud e nelle isole crebbe notevolmente, dal 18,2% del 1961 al 27,1% del 1971. Come afferma Stefano Musso «nel 1971, su 1.168.750 residenti, i nati nel comune erano 397.356, pari al 34%; molti di essi erano figli di immigrati, di vecchia e recente data. Negli altri comuni della provincia di Torino erano nati 82.053, pari al 7%. Del resto del Piemonte erano originarie 160.651 persone (13,7%) […] I nati in Piemonte erano poco più della metà, il 54,7%. Nelle restanti regioni del Settentrione era nato il 10,1% degli abitanti, l’1% nel Centro, il 27,1% nel Mezzogiorno e nelle isole, il 2,9% era nato all’estero». <375
I continui aumenti di produzione perseguiti da Valletta, attiravano in città migliaia di persone: il fabbisogno di manodopera richiedeva dalle 40 alle 50.000 unità l’anno, di questi circa 12.000 posti erano coperti dai giovani torinesi, agli altri provvedeva l’arrivo di nuovi operai <376. Il Sud, privo di investimenti adeguati ad assorbire la forza lavoro locale, diventava così serbatoio di manodopera e Torino aveva ormai assunto i tratti della company town, legata alla monocoltura dell’automobile, con la continua apertura di nuovi stabilimenti: dal raddoppio di Mirafiori tra il 1961 e il 1963, alla nascita dello stabilimento Fiat di Rivalta <377, fino alla miriade di piccole imprese fornitrici e sub-fornitrici. La Fiat puntava apertamente sulla “carta dell’immigrazione”, sull’arrivo di nuova manovalanza, dequalificata e potenzialmente più duttile della vecchia classe operaia torinese, per consolidare la propria posizione egemonica nel settore e ampliare le proprie capacità produttive.
Furono le aree più periferiche a registrare una vera e propria esplosione e ad assorbire gran parte della popolazione immigrata. Nella zona nord, tra Lucento, Madonna di Campagna e Regio Parco, dove si trovavano gli stabilimenti della Fiat Grandi Motori, delle Ferrerie piemontesi, della Michelin, della Nebiolo e della Manifattura Tabacchi, la popolazione crebbe da 108.500 abitanti del 1951, a 188.000 del 1961, fino a 254.000 nel 1971. A ovest, l’area di Pozzo Strada vide quadruplicare la popolazione che passò da 22.000 a 93.600 abitanti. Lo stesso aumento avvenne a Santa Rita, mentre a Mirafiori si verificò in pratica la nascita di una nuova città, poiché gli abitanti passarono da 18.700 a 141.000 abitanti <378. Fenomeni simili si verificarono nella prima cintura. Per fare solo alcuni esempi: la popolazione di Grugliasco crebbe del 105,4% tra il 1951 e il 1961 e del 121,6% tra il 1961 e il 1971, passando da 6.900 abitanti, a 13.700, a 30.289. A Nichelino gli abitanti triplicarono: il censimento del 1961 parla di 14.900 abitanti, quello successivo di 44.500. <379
Anche la città capitolina assistette ad analoghi movimenti di popolazione. La fase di più intensa immigrazione si estese dalla metà del decennio Cinquanta agli ultimi anni Sessanta: se tra il 1948 e il 1954 raggiunsero Roma in media 40.000 persone l’anno, questo valore salì a 62.600 tra il 1955 e il 1961, ed a 78.000 tra il 1962 e il 1968, per poi scendere a 52.500 nel settennio 1969-75 <380. Il flusso toccò la punta massima nel 1961, l’anno dell’abrogazione della legge fascista contro l’urbanesimo, in cui fu registrato il numero maggiore di iscrizioni con 133.775 unità provenienti dalle sole regioni italiane. La popolazione residente passò dal 1951 al 1971 da 1.651.754 a 2.781.993, oltre 1.130.000 abitanti in più, il 68% di incremento <381. Quasi un quarto dei nuovi abitanti proveniva dallo stesso Lazio e vi era una forte preponderanza di arrivi dalle regioni più vicine, come Abruzzo, Molise e Campania. Secondo Giulia Zitelli Conti, autrice di una ricerca sul quartiere della Magliana, furono di particolare spinta e stimolo le chiamate occupazionali del settore edile e l’industrializzazione nella zona settentrionale dell’Agro Pontino <382.
A tale intenso incremento demografico non corrispose un equilibrato inserimento nelle diverse aree urbane, che possiamo distinguere tra rioni del centro storico (che anzi in venti anni persero metà della loro popolazione e finirono per avere una popolazione inferiore a quella della città del 1871), quartieri dell’immediata periferia, suburbio e Agro romano. Guardando i dati della popolazione residente nei censimenti del 1951, 1961 e 1971 secondo le suddivisioni territoriali, il fenomeno emerge in maniera macroscopica. La città all’interno della cinta aureliana nel 1961 incideva per il 26% nel comune, nel 1971 solo nella misura del 7%. All’opposto l’Agro romano, compreso il quartiere di Ostia, assunse un peso sempre più determinante: i suoi abitanti quadruplicarono e nel 1971 rappresentavano il 13% dell’intera popolazione. Per fare un esempio, tra i molti possibili, la zona di Val Melaina (dove si trovava il già citato borghetto di Prato Rotondo) passò da 2.840 abitanti nel 1951, a 5.170 nel 1961, fino a toccare dieci anni dopo i 29.350. Una crescita esponenziale, rispetto alla quale bisogna però sempre tenere bene in conto la formalità dei dati, che nascondono il sommerso e gli effetti dell’abrogazione della legge sull’urbanesimo, che porta a registrare nel periodo successivo al 1961 spostamenti già avvenuti in precedenza. Contestualmente, rione Monti dimezzò la sua popolazione, passando da 46.430 abitanti nel 1951 ai 22.424 di vent’anni dopo <383. Spopolamento del centro e crescita esponenziale delle periferie furono gli effetti più macroscopici di una politica di espulsione dei vecchi abitanti e di trasformazione dei quartieri da affittarsi a nuovi gruppi sociali.
Furono così le aree del suburbio e dell’Agro romano, su cui “insistevano” contemporaneamente i nuovi arrivati e i già cittadini che non riuscivano a sostenere le spese per vivere nei loro vecchi quartieri, ad assorbire la maggior parte dell’incremento demografico romano.
In base ai dati forniti dalla ricerca, già citata, realizzata nel 1968 dal Centro Cittadino delle Consulte popolari, 600.000 persone trovarono casa nelle borgate spontanee e abusive <384, 100.000 risiedevano nelle borgate ufficiali e 65.000 nelle nuove periferie edificate in base alla legge 167. Questi dati esprimono la realtà di una città che cresceva disordinatamente, fuori da qualsiasi piano regolatore, e a dismisura. Nacquero rapidamente quartieri molto differenti tra loro, alcuni razionalmente localizzati nel tessuto rubano, ben serviti dei trasporti e dotati dei servizi necessari, altri in estrema periferia, realizzati con tipologie «intensive e/o smaccatamente economiche», e, come scrive Bonomo, «insufficientemente dotati degli elementi che rendono un agglomerato di costruzioni un quartiere vivibile: strade, fognature e altre opere di urbanizzazione primaria, strutture scolastiche, culturali e sanitarie, verde attrezzato» <385. Particolarmente critica era invece, come si è vista la realtà di borghetti e baraccamenti. In esse risiedevano secondo l’indagine 62.531 persone, un numero in crescita visto che nel 1957 ne risultavano 54.576. Entrambi questi dati sarebbero, secondo Insolera, fortemente sottostimati: appare più verosimile, afferma l’urbanista, la cifra di 70.000 fornita dal «Times» del 17 ottobre 1969, che considerava che le baracche non rilevate fossero certamente più di un decimo del totale. <386
Furono anni, quelli del decennio 1951-1971, di forte disagio abitativo ma anche di intensa produzione edilizia. In una prima fase si registrò una forte e generale carenza di abitazioni. Il censimento del 1951 mostra che sul territorio romano il numero di famiglie residenti era superiore di più di 106.000 unità rispetto a quello delle abitazioni disponibili. Solo il 38,1% delle abitazioni occupate risultavano essere non affollate, mentre ben 600.000 persone vivevano in alloggi affollati e più di 520.000 in alloggi sovraffollati <387. Meno della metà delle abitazioni occupate disponevano di cucina, acqua potabile, latrina, bagno, elettricità e gas.
Nei decenni seguenti, grazie alle consistenti costruzioni di edilizia residenziale <388, il divario tra il numero delle famiglie e quello degli alloggi andò progressivamente assottigliandosi: al censimento del 1971 gli alloggi erano 46.812 unità in più delle famiglie presenti sul territorio. Tali dati però non implicarono, come si potrebbe suppore, il superamento delle condizioni di affollamento e l’eliminazione delle abitazioni degradate; questo per la mancata rispondenza tra una produzione edilizia orientata alla costruzione di abitazioni per famiglie medie o abbienti e l’estesa domanda proveniente invece dai ceti popolari urbani, che si delineava già nel capitolo precedente. Nonostante lo stock di abitazioni fosse cresciuto, i casi di coabitazione e le baracche abusive perdurarono ancora a lungo. Una ricerca condotta sui dati censuari – ma con criteri diversi da quelli utilizzati dall’Istat – segnala che nel 1971 il 29,1% delle famiglie romane viveva ancora in condizioni di “affollamento accentuato” ed il 21,3% di “affollamento critico” <389; le ultime baracche, come si anticipava nelle pagine precedenti, furono distrutte alla metà degli anni Ottanta. Allo stesso tempo i dati censuari mostrano il continuo incremento delle abitazioni non occupate che a Roma passarono dalle 10.248 (41.051 stanze) del 1951 alle 113.468 (404.522 stanze) del 1981 <390. Nel 1971 a fronte di 15.000 persone che ancora abitavano nelle baracche e 70.000 in coabitazione, erano, secondo il censimento, quasi 80.000 le abitazioni non occupate.
A Torino nel 1961 quasi un quarto delle abitazioni (23,1 per cento) aveva ancora la latrina esterna, e solo il 56,4 per cento disponeva di un bagno con vasca o doccia; poco meno del 20 per cento non aveva l’impianto fisso del gas e il 30 per cento non aveva un impianto di riscaldamento centrale o autonomo. Altri, e analoghi, dati emergono da un’indagine sulle condizioni abitative a Torino e nella cintura, pubblicata dall’Ires nel 1965, che sottolineava come il 33% degli alloggi risultasse assolutamente insoddisfacente, il 50% degli immigrati risiedesse in appartamenti in pessime condizioni igieniche, il 25% della popolazione di origine locale e il 57% della popolazione immigrata vivesse in case con indici di affollamento superiori a uno <391. Secondo una ricerca realizzata nell’aprile 1961 sulla popolazione immigrata, il 60,2% degli immigrati viveva in alloggi di 1 o 2 vani utili con un grado di affollamento pari a 2,57. <392
Tra il 1961 e il 1971, mentre la popolazione cresceva di 150.000 abitanti, le camere costruite furono 4 volte tante. Nonostante ciò, meno di 100.000 persone uscirono dallo stato di sovraffollamento (più di due persone per vano) in cui vivevano. Come spiegano Bedrone e Roscelli, analizzando la produzione edilizia a Torino e in Italia tra il 1969 e il 1971, e come già riportato per il caso romano, «esiste una sproporzione tra costruito e immesso nel mercato, tra produzione e fabbisogno, tra occupato e inoccupato, tra prodotto offerto in proprietà e in affitto, tra solvibilità della domanda e prezzi di mercato» <393.
In entrambe le città quindi l’offerta era prevalentemente destinata ai ceti più abbienti, nel presupposto che esistesse un meccanismo di filtering, auto-regolativo, per cui le nuove case avrebbero dovuto essere la destinazione di famiglie con discreta disponibilità economica che avrebbero così lasciato libere le vecchie abitazioni per le fasce più povere della popolazione. Questo però non avvenne: il ricambio, malgrado l’alta mobilità residenziale, tendenzialmente si arenò alle classi medie, in più la forte domanda e l’altissimo valore d’uso del bene-casa permisero il continuo impennarsi del valore di scambio, lasciando mano libera alla speculazione edilizia privata.
Il costo dei fitti in entrambe le città subì un incremento continuo, cui si è già accennato nel capitolo precedente, su cui poco incideva la periodica proroga del blocco dei fitti. Analogamente alte erano per alcune fasce di inquilinato i canoni delle stesse case popolari, soprattutto per le spese di manutenzione e di gestione dell’Istituto. Per quanto riguarda l’edilizia pubblica, inoltre, si sviluppò in entrambe le città un vasto “mercato” fatto di cessioni abusive, occupazioni individuali, scambi consensuali, raccomandazioni, rivendicazione di un diritto di precedenza sulle assegnazioni delle case nel proprio quartiere, individuazione da parte degli assegnatari di alloggi liberi dove sistemare parenti e coabitanti, con la frequente complicità degli stessi portieri degli enti. Usanze, strategie e comportamenti che raccontano bene l’emergenza abitativa e la difficile ricerca di soluzioni.
Il problema della casa rimase per molto tempo cruciale per le amministrazioni che si susseguirono in entrambe le città, rappresentò a lungo il nodo indistricabile o, meglio, non districato, della politica cittadina. «Intorno alla sua soluzione», scrive Vittorio Vidotto, «si giocarono le fortune politiche dei partiti e si misurarono le capacità progettuali dell’amministrazione» <394. Come ben riassume Stefano Musso: «preoccupati di inseguire la crescita produttiva, di favorire l’espansione industriale attraverso l’adeguamento delle infrastrutture di trasporto più che di intervenire sulle condizioni di vita e di inserimento di coloro che, arrivando per ultimi, andavano a occupare in massa i gradini più bassi di una struttura sociale ancora fortemente piramidale, i gruppi dirigenti politici ed economici credettero che gli squilibri fossero un prezzo inevitabile da pagare allo sviluppo, e che, con il tempo, la crescita del reddito prodotto avrebbe da sé sanato mali e contraddizioni attraverso una lenta ma pervasiva diffusione del benessere: i sacrifici della ferrea disciplina produttiva imposta negli stabilimenti, i disagi del sovraffollamento abitativo e della carenza dei servizi sarebbero stati ripagati, le tensioni sociali sarebbero state controllate dal progressivo miglioramento del tenore di vita. Non andò così» <395. E a partire dalla fine degli anni Sessanta ad intervenire con forza nelle vicende, a fare pressione su Amministrazioni e Governo, furono anche gli stessi senza-casa, gli abitanti delle soffitte e delle baracche, gli inquilini che non riuscivano a pagare l’affitto. Soggetti già protagonisti di proteste spontanee, ma che in quegli anni svilupparono estese forme di conflittualità sociale: mobilitazioni diffuse nei quartieri, occupazioni di stabili di edilizia pubblica e privata, scioperi, autoriduzioni dei fitti, cui si aggiungevano le crescenti pressioni sindacali.
[NOTE]
373 S. Musso, Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970), in N. Tranfaglia (a cura di), Gli anni della Repubblica, vol. 9, Storia di Torino, Einaudi, Torino, 1999, pp. 55,56. Per un quadro complessivo si veda, oltre al saggio già citato, Id., Lo sviluppo e le sue immagini. Un’analisi quantitativa. Torno 1945-1970, in F. Levi, B. Maida (a cura di), La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945-1970, FrancoAngeli, Milano, 2002.
374 M. Olagnero, La gente di Torino, in E. Marra (a cura di), Progetto Torino 3. Per un atlante sociale della città, a cura di Ezio Marra, FrancoAngeli, Milano 1985. Una discussione dei modelli interpretativi e dei problemi dell’integrazione socioculturale degli immigrati si trova in F. Barbano, F. Garelli, Struttura e cultura nell’immigrazione. Il caso di Torino, in Barbano et al. (a cura di), Strutture della trasformazione. Torino 1945- 1975, Cassa di Risparmio di Torino, Torino, 1980.
375 S. Musso, Lo sviluppo e le sue immagini. Un’analisi quantitativa. Torino 1945-1970, in F. Levi, B. Maida (a cura di), La città e lo sviluppo. Crescita e disordine a Torino 1945- 1970, FrancoAngeli, Milano, 2002, pp. 50,51.
376 Ciò che però aspetta l’immigrato appena giunto in città non è la grande fabbrica ma un primo periodo di “apprendistato” tra cooperative edili, lavoro a chiamata, boite e piccole officine, in cui inizia a conoscere la disciplina, l’uso delle macchine, i ritmi della fabbrica e della città. Tali realtà permettevano agli immigrati di trovare un’immediata fonte di reddito e di sostentamento dopo l’arrivo in città. Si veda: Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, cit.; Centro di Ricerche Industriali e Sociali di Torino, Immigrazione e industria, Edizioni di Comunità, Milano, 1962; Musso, Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970) in N. Tranfaglia (a cura di) Storia di Torino, vol. 9, Gli anni della Repubblica, Einaudi, Torino, 1999.
377 «Mentre Torino diventava la capitale industriale del paese, i confini del suo sistema produttivo tendevano sempre più a coincidere con l’universo Fiat. I dipendenti dell’intero gruppo passarono da 72.000 nel 1951 a 182.000 nel 1971. I soli operai degli stabilimenti di Torino e provincia aumentarono da 47.700 nel 1953 a 115.000 nel 1971; a quest’ultima data andavano aggiunti 30.000 impiegati e dirigenti, nonché i 7.500 dipendenti degli stabilimenti di Torino e Chivasso della Lancia, il prestigioso marchio torinese acquisito nel 1969. La Fiat, pertanto, dava direttamente lavoro a un terzo dell’intera manodopera manifatturiera della provincia». Musso, Il lungo miracolo economico, cit., p.77
378 Ivi, p. 62.
379 M. Ceppi, B. Garzena, I caratteri dello sviluppo metropolitano a Torino, in P. Ceri (a cura di), Casa, città e struttura sociale, Editori Riuniti, Roma, 1975, p. 94, tabella 3.
380 Seronde Babonaux, Roma. Dalla città alla metropoli, cit., pp. 239-241.
381 Va però sottolineata anche la presenza di ampli flussi in uscita che, a partire dal 1970, iniziarono a superare quelli in entrata, un esodo che va letto (anche, ma non solo) alla luce delle condizioni di vita che la città offriva.
382 Zitelli Conti, Magliana Nuova, cit., p. 27.
383 Dati tratti da I censimenti del 1971 nel Comune di Roma, raccolta dei fascicoli contenenti i risultati dei censimenti del 1971 a cura dell’ufficio comunale di statistica e censimento, consultabile anche online sul sito del Comune stesso (https://www.comune.roma.it/web-resources/cms/documents/Censimento_di_Roma_1971_Parte_I.pdf).
384 Analoghi dati vengono forniti da Italo Insolera che ha ricostruito l’evoluzione del fenomeno: le aree costruite abusivamente passarono dai 1300 ettari del 1951 agli 8500 del 1981, gli abitanti accolti erano circa 150.000 nel 1951, il quadruplo nel 1961, per crescere fino a 800.000 nel 1981, nel 1951 le aree costruite abusivamente occupavano 1.300 ettari ed accoglievano 150.000 persone; nel 1961 la superficie era passata a 3.500 ettari e gli abitanti a 400.000; nel 1971 si raggiunsero i 5.900 ettari per 600.000 abitanti, e nel 1981 (I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, 1870-1970, Einaudi, Torino, 1993, p. 318).
385 B. Bonomo, Il quartiere delle Valli. Una iniziativa della Società Generale Immobiliare nella Roma del secondo dopoguerra, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Tuscia, a.a. 2006, tutor prof. M. Sanfilippo, p. 19.
386 Insolera, Roma moderna, cit., pp. 282-283.
387 Sono considerate non affollate le abitazioni occupate in media da non più di una persona per stanza; affollate quelle occupate da più di una e fino a due persone per stanza; sovraffollate quelle occupate da più di due persone per stanza.
388 Tra il 1951 e il 1961 si costruirono infatti 253.016 abitazioni per 920.649 vani, «pari all’equivalente abitativo di una città più grande di Genova», mentre nel decennio seguente gli alloggi realizzati furono 301.556 per 1.047.444 vani. Nel complesso, dunque, nel ventennio 1951-1971 il patrimonio residenziale passò da 319.230 a 873.802 abitazioni, e da 1.118.560 a 3.086.653 vani (Bonomo, Il quartiere delle Valli, cit., p. 16).
389 De Grassi, Le condizioni abitative e la struttura dei redditi a Roma, in Id. (a cura di), La situazione abitativa a Roma, Dei, Roma, 1979, p. 81.
390 Insolera, Roma moderna cit., 1993, p. 61.
391 Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, cit., p. 68.
392 M. Talamo, L’inserimento socio-urbanistico degli immigrati meridionali a Torino, in CRIS, Immigrazione e industria, cit., p. 191.
393 R. Bedrone, R. Roscelli, Ciclo edilizio e ciclo produttivo, in R. Roscelli (a cura di), Edili senza lavoro, operai senza casa, Einaudi, Torino, 1975, p. 33.
394 Vidotto, Roma contemporanea, cit., p. 280.
395 Musso, Il lungo miracolo economico, cit., p. 99.
Giulia Novaro, Marisa e le altre. Storie di vita, soggettività e politicizzazione nelle lotte per la casa: Torino e Roma, 1969-1976, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze – Università di Siena 1240, 2023