La proposta di Berlinguer trova assai tiepido il suo principale destinatario

Nel 1969 Berlinguer era stato appena nominato vicesegretario del partito e fra i comunisti erano vive le dispute circa la possibilità o meno che il partito entrasse nel governo. Naturalmente essi protestavano contro la conventio ad excludendum perpetuata nei loro confronti, e naturalmente si ponevano il problema delle alleanze, ma non per questo parevano disponibili per i compromessi. Il più brusco a respingerli era stato Terracini, allora presidente del gruppo al senato: “Noi rifiutiamo la confusione, e in quanto comunisti non possiamo dimenticare che la strategia delle alleanze deve essere ancorata sul terreno della lotta di classe. Purtroppo forse c’è qualcuno fra noi che una volta magari si entusiasma per un rivoluzionario dello stampo di Ugo La Malfa, e un’altra volta per Flaminio Piccoli o per Aldo Moro. Basta che nel contesto di un loro lunghissimo discorso ci sia una paroletta che ci riguarda, ed ecco subito che qualcuno si sdilinquisce. Ma il partito – il partito! – deve essere sordo ai canti di sirene” <10.
Pessimista era anche l’allora presidente del gruppo parlamentare comunista di Montecitorio, Pietro Ingrao: “Saremmo stupidi a pretendere di sanare l’attuale gravissima crisi delle istituzioni e della società inserendoci in una politica che a nostro giudizio è tra le cause indirette del marasma in cui ci troviamo. Noi non vogliamo che si continui a fare come prima, e per di più col nostro aiuto. Vogliamo che le cose cambino, e al più presto. Certo, è difficile, ma noi vediamo anche possibile un comportamento per i tempi brevi, cioè per affrontare la congiuntura immediata” <11.
Identica la posizione di Napolitano, considerato allora quasi un luogotenente di Amendola.
Come strategia delle alleanze i dirigenti pensavano di riallacciare in sede locale i rapporti con il PSIUP, per costituire giunte unitarie di sinistra in un certo numero di comuni, provincie e regioni. In questo senso si muoveva Ingrao e ci pensava anche Longo: “Io credo che già oggi, subito proprio in vista delle elezioni regionali e comunali, dobbiamo lavorare insieme con i compagni del PSIUP, con i compagni socialisti, insieme a tutte le altre forze democratiche e di sinistra, per affrontare le elezioni su basi largamente unitarie, sia dal punto di vista delle elaborazione dei programmi sia degli accordi per la presentazione dei candidati. In tutto il paese c’è una forte spinta unitaria, che ha già portato o che comunque tende alla formazione e alla ricostruzione di amministrazioni di sinistra” <12.
Secondo Longo, certe forze socialiste e cattoliche erano entrate in crisi: “È entrato in crisi il loro anticomunismo tradizionale, e sono venute in luce nuove disposizioni al confronto, al dialogo, alla collaborazione con i comunisti” <13. Longo si riferiva anche alle encicliche di papa Giovanni e di papa Paolo VI, la ‘Pacem in terris’ e la ‘Populorum Progressio’, ma precisando: “Naturalmente non pensiamo né ai Piccoli né ai Rumor, né a Moro né a Nenni, né ai dirigenti socialdemocratici o dorotei responsabili della politica di centro-sinistra. Ci mancherebbe altro” <14. Affermando inoltre che il problema del rapporto con i comunisti non si risolve con i compromessi di vertice fra i partiti, ma nei confronti delle masse popolari.
È a questo punto che entra in campo Enrico Berlinguer <15, eletto da pochi mesi vicesegretario del partito, riservato in pectore da Longo alla successione nella guida del PCI: “Fino ad allora abbiamo proposto, in via sperimentale, la formazione di giunte di sinistra con i socialisti e con determinati gruppi cattolici, nei comuni, nelle provincie, nelle regioni, quando e dove ciò appaia conveniente e possibile. Sono questi i nostri piani, analoghi a quelli di altre forze di sinistra. Ci accusano perciò di aspirare per questa via alla conquista del potere totale. Certo che noi lottiamo per il potere. Che comunisti saremmo altrimenti? Ma concepiamo il potere in maniera diversa, nella fase attuale” <16. Berlinguer non credeva ad una svolta a sinistra della DC, notava solamente che in conseguenza dell’inasprirsi delle lotte sociali, almeno una parte dei democratici cristiani e dei socialisti aveva assunto un atteggiamento più aperto nei confronti del PCI.
Ma quali probabilità c’erano che il PCI avrebbe continuato ad autolimitarsi nella scelta dei propri obiettivi di potere? In una intervista rilasciata alla rivista settimanale tedesca “Der Spiegel” Berlinguer esprime chiaramente le sue opinioni affermando che il partito non si prefiggeva di ottenere la maggioranza assoluta, ma solamente di collaborare con tutte le forze sociali progressive, comprese le cattoliche: “Noi non pensiamo né ad un governo di un solo partito, né, tanto meno, ad un governo personale” <17. Di qui il nuovo concetto del potere, secondo Berlinguer: “Vogliamo una maggiore influenza, pur rimanendo all’opposizione. Vogliamo un’intesa corretta, con le forze cattoliche e socialiste. Siamo contro il sistema antidemocratico di governare in assenza di discussioni, di confronti e di contributi. Se si vuole che migliorino i rapporti fra i partiti è necessaria una dialettica più aperta” <18.
Sembra chiaro che ancora prima che Berlinguer diventasse segretario del partito e che inventasse la formula del compromesso storico, il comunismo italiano stava seguendo una strada propria che ancora non si capiva dove potesse condurre. In quelle polemiche interne, preparatorie comunque dello sbocco finale della strategia del segretario, “venivano semplicemente a confronto le due anime che sono presenti nel comunismo italiano, in tutti i tempi. Sono due anime cui corrispondono due differenti concezioni, l’una proiettata alla strategia dei tempi lunghi, l’altra più realisticamente contenuta alla tattica da usare giorno per giorno, viste le obbiettive condizioni della società del tempo in Italia” <19. Ma per imporre una svolta al governo del paese, per via democratica e senza correre il rischio di scontri precipitosi e perdenti, era necessaria la conquista di una forza elettorale tale che non si potesse governare l’Italia senza e contro il PCI. Per conquistarla, pensava Berlinguer, non bastava un ulteriore rilancio del conflitto sociale, occorreva invece spostare una parte disagiata del ceto medio e neutralizzare l’ostilità crescente della moderna borghesia scossa dalle lotte operaie. Di questo si discusse apertamente e vivacemente nella direzione del partito. Come risulta dai verbali, Berlinguer propose una novità che si esprimeva in un giudizio molto più preoccupato sulla situazione economica e sulle spinte a destra che produceva nella società. Per contrastarla occorreva frenare le rivendicazioni e le vertenze che il sindacato stava avviando sul versante dello stato sociale. Il PCI deve sancire definitivamente il suo carattere nazionale, sacrificando le proprie esigenze di partito agli interessi generali del paese, e ribadire al tempo stesso che il proprio coinvolgimento era una risorsa essenziale per uscire dalla crisi <20. Questi segnali furono recepiti e apprezzati da una parte della società <21.
Un secondo passo fu compiuto nel 1971. L’obiettivo della partecipazione del PCI alle decisioni di governo balza progressivamente in primo piano. Nell’estate del 1971 il PCI accettò senza opporsi il rinvio di alcune riforme, sia per evitare la perdita di consensi in alcuni strati sociali, sia per scongiurare una crisi di governo che avrebbe potuto favorire la destra.
Terzo passo nella definizione di una politica del PCI, per necessità più che per scelta, fu la lunga odissea della legge sul divorzio e il referendum che cercava di abrogarla. La questione del divorzio venne a porsi mentre faceva irruzione un nuovo movimento, frutto tardivo del Sessantotto, ma di straordinario valore: “il femminismo, di tipo nuovo, non più legato solo all’emancipazione, ma alla differenza di genere, come valore da riconoscere e non come ineguaglianza cui porre riparo” <22.
[…] Con l’avanzata delle forze conservatrici, il PCI aveva l’impellente necessità di uscire da una situazione di immobilismo <26. La prima risposta fu data durante il XIII Congresso del Partito, tenuto nel marzo del 1972, al termine del quale Enrico Berlinguer venne eletto segretario e Luigi Longo presidente. Nella sua relazione di apertura, Berlinguer rilevò l’acutezza della crisi politica in atto, sottolineata dallo scioglimento anticipato delle Camere, affermando che una prospettiva nuova poteva essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica. Al termine di un anno di confusione e di paralisi, caratterizzato dalle manovre di destra e dalla elezione di Leone alla presidenza della repubblica con i voti dei fascisti (MSI-Destra), la DC cercava di scaricare la sua crisi sulle istituzioni. Il congresso si svolse in giorni difficili, alla vigilia delle elezioni, nel pieno di sanguinose provocazioni fasciste.
Ma il PCI riafferma il suo impegno in una lotta “per costruire l’unità operaia e popolare, per un governo di svolta democratica, e perché l’Italia avanzi verso il socialismo” <27. Berlinguer si era pronunciato per un governo di svolta democratica che arrivasse a includere anche il PCI su basi che non fossero di semplice aggiunta al centro-sinistra; infine nel maggio del ’73 sul “Contemporaneo”, supplemento mensile di “Rinascita”, era apparso un numero interamente dedicato alla questione democristiana con articoli di vari esponenti comunisti <28.
Una nuova svolta avvenne nel 1973 all’indomani del colpo di Stato in Cile di Pinochet ai danni del Governo di sinistra di Allende. Berlinguer, temendo che anche in Italia ci potessero essere pericoli per la democrazia, rilanciò, con un intervento su “Rinascita” <29, la linea di un “compromesso storico”, alleanza in difesa delle istituzioni democratiche dei tre partiti popolari. Agli occhi del segretario comunista, la tragica sorte del paese sudamericano (dove, a suo giudizio, una linea di fronte operaio avversa ai ceti medi aveva consentito il saldarsi incontrastato delle forze della reazione <30) pareva la riprova di come la scorciatoia autoritaria non venisse mai completamente accantonata quando alcuni interessi erano messi in discussione e come quindi neppure il responso delle urne potesse essere in grado di assicurare un governo democratico. Inoltre gli squilibri strutturali di un paese come l’Italia, che acuivano già la grave crisi che attraversava tutte le nazioni industrializzate, convinsero Berlinguer che essa non fosse più risolvibile con le misure tradizionali. Solo uno “storico compromesso” fra le tre grandi forze del movimento popolare italiano – la cattolica, la socialista e la comunista – avrebbe potuto contrastare i rischi di un’involuzione autoritaria e far uscire la nazione dalle difficoltà; a un’alternativa “di sinistra” si propose allora una “alternativa democratica” che difendesse le forze del progresso dalla conservazione e fosse capace al tempo stesso di far compiere al paese un passo verso un ordinamento socialista <31. Quel saggio convinse e impegnò l’intero gruppo dirigente del partito, senza obiezioni salvo quelle di Longo <32; e la base del partito <33, dopo qualche sconcerto, lo assunse e si sforzò di sostenerlo <34.
La proposta di Berlinguer trova assai tiepido il suo principale destinatario, il partito della Democrazia Cristiana. Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, già dal principio degli anni Sessanta, nel nascente centro-sinistra, aveva posto l’esigenza di allargare la base popolare dello Stato. Il resto della DC, al contrario, era decisamente contraria a ogni forma di collaborazione col PCI e solo la sua avanzata convincerà anche i più riluttanti alla necessità di una qualche intesa.
Berlinguer vedeva la Democrazia Cristiana non come un partito monolitico e conservatore, ma come una forza in costante evoluzione, al cui interno erano presenti, oltre alle forze reazionarie, importanti elementi popolari che potevano, e dovevano, essere convinti a collaborare con il PCI <35. Negli anni successivi il leader del PCI continuò a portare avanti questa linea politica ampliandola ed arrivando a proporre un’alleanza con la DC non più soltanto difensiva, ma anche di programma e che si ponesse ambiziosi ed avanzati obiettivi, al punto di ipotizzare una maggioranza di governo che saldando il solidarismo cattolico con le lotte dei comunisti potesse puntare al superamento del sistema con l’inserimento graduale di elementi di socialismo.
Ad ogni modo nell’immediato la proposta trova cassa di risonanza nel mondo dell’informazione, dando il via ad un dibattito che si protrarrà negli anni, smuovendo le acque stagnanti della politica italiana, orientandone i successivi sviluppi e soprattutto rimettendo il partito comunista al centro della scena.
[NOTE]
10 Vittorio Gorresio, Berlinguer, Milano, 1976, pp. 73-74.
11 Ibid., p. 74.
12 Ibid., pp. 74-75.
13 Ibid., p. 75.
14 Ibid.
15 Berlinguer è un uomo nuovo, nel senso che non appartiene alla leva dell’antifascismo e dell’emigrazione (nato nel 1922, si iscrisse al partito nel 1943) ma è anche un leader che si è fatto le ossa nella FGCI (nel 1949 viene eletto segretario generale) e insegnando alla scuola di partito delle Frattocchie fra il 1956 e il 1960 (cfr. V. Gorresio, op. cit., pp. 5-20).
16 Ibid., pp. 75-76.
17 Ibid.
18 Ibid.
19 Ibid., p. 77.
20 Tutta la credibilità del PCI agli occhi della borghesia era affidata alla sua capacità di contenere l’ascesa di massa dentro gli argini della società borghese (cfr. L. Magri, Il Sarto di Ulm, Milano, 2009, p. 269; G. Crainz, Il paese mancato, Isole del Liri (Fr), 2007, p. 445).
21 Secondo Magri, contrariamente a un diffuso luogo comune, il compromesso storico, nei suoi termini reali, non fu solo una proposta del PCI alla DC, ma anche una proposta della borghesia italiana al PCI. Anzi, la forza della proposta berlingueriana stava esattamente nella sua rispondenza con la speculare apertura borghese (cfr. L. Magri, op. cit., p. 270).
22 Ibid., p. 271.
26 “L’obiettivo costantemente perseguito, di costruire un partito di massa realizzando e rafforzando la nascita di un apparato stabile di tipo statuale, sembra progressivamente essere messo in discussione sotto il duplice, convergente sviluppo dei movimenti collettivi da un lato, quelle masse che sottolineavano la loro diversità dello Stato, e dall’altro dagli stessi sviluppi elettorali, per cui la struttura del partito risultava sempre più proiettata verso la partecipazione agli organi di gestione democratica a tutti i livelli, […]”>. F. Bonini, Apogeo e crisi dell’istituzione partito, in F. Malgeri L. Paggi (a cura di), op. cit., p. 25.
27 “L’Unita”, 18 marzo 1972.
28 Cfr. L. Magri, op. cit., p. 280.
29 La sua ricetta per guarire i mali del paese fu esposta per la prima volta nell’opuscolo Riflessioni dopo i fatti del Cile (1973).
30 “In Cile si è seguita una linea di fronte operaio, non di alleanza con i ceti medi; politicamente essa si è espressa nel fronte delle sinistre: una prospettiva che non è la nostra, che abbiamo invece definita come quella dell’incontro e della collaborazione tra le tre componenti. Perciò la Dc cilena non è stata coinvolta, come era necessario e possibile, in un processo di trasformazione”. Riportata da G. Crainz, op. cit., p. 451.
31 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino, 2006, pp. 478-480.
32 Durante il XIV Congresso del PCI, Berlinguer fece piazza pulita dell’apparato preesistente, circondandosi di uomini tutti suoi. “Della Segreteria di nove membri – lui compreso – fece un governo autentico del quale lui naturalmente è il premier”. V. Gorresio, op. cit., p. 68.
33 Del PCI è cambiata anche la base: ne fanno ora parte anche i ceti medi, impiegati e professionisti; agli operai si aggiungono studenti e giovani di estrazione borghese, che hanno aderito negli anni caldi della contestazione. Questi ultimi assumeranno grande importanza a partire dalla fine degli anni Ottanta (cfr. L. Magri, op. cit., pp.217-228). 34 Il disegno del “grande abbraccio” fra socialisti, comunisti e cattolici, non dissimulava però aspetti gerarchici e autoritari, una vera contraddizione rispetto al proposito di ampliare la democrazia; non a caso la lotta contro la “repubblica conciliare” ha visto unite fazioni quanto mai lontane per posizioni politiche (cfr. P. Ginsborg, op. cit., p. 482).
35 Cfr. L. Magri, op. cit., pp. 280-282.
Vincenzo Aristotele Sei, Il partito comunista nella società italiana da Togliatti a Berlinguer, Tesi di laurea, Università della Calabria, 2010