La Repubblica sociale italiana e la persecuzione degli ebrei

A partire dalla fine della seconda guerra mondiale uno dei maggiori meriti rivendicati a favore dagli italiani fu l’aiuto da loro prestato agli ebrei <1.
Attraverso i canali diplomatici e attraverso la stampa, tra la proclamazione dell’armistizio nel settembre 1943 e il primo dopoguerra (fino al 1947) una tenace azione governativa mirò a valorizzare il comportamento italiano in guerra, non solo nel proprio paese ma anche nei territori occupati (dai Balcani alla Francia), in contrapposizione alla brutale “soluzione finale” tedesca. Il tentativo di oscurare le responsabilità italiane, a svantaggio dell’alleato tedesco, rispondeva – come ha recentemente spiegato Filippo Focardi – alle intenzioni dell’establishment monarchico e dell’élite politica antifascista, tese ad evitare una pace punitiva per il Paese.
Fu questa un’azione che portò alla creazione nel lungo periodo di una zona d’ombra nella memoria pubblica nazionale sul secondo conflitto mondiale, finendo per diffondere un’immagine auto-assolutoria della tragica esperienza fascista <2. In particolare, comportò un pesante ridimensionamento dell’opera svolta fra il 1938 e il 1943 dal regime nella persecuzione dei diritti degli ebrei, nonché un oscuramento del peggioramento della politica antiebraica nella seconda parte della guerra, perseguito dall’occupante nazista, coadiuvato in questo dagli apparati della Repubblica sociale italiana.
Un lascito di questa interpretazione ampiamente assolutoria, che dunque spiegava l’antisemitismo fascista come mera ipoteca dell’influenza tedesca, è rimasto a lungo e si è manifestato in più sfere: non solo quella politica, individuale e collettiva, ma anche nella storiografia italiana sul fascismo.
Renzo De Felice, lo storico italiano che all’inizio degli anni Sessanta aprì la strada alle ricerche sull’antisemitismo fascista, nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo ha rimarcato la lontananza dei provvedimenti fascisti rispetto a un’impostazione razzista. Nel suo libro è possibile, ad esempio, imbattersi in affermazioni come questa: “La persecuzione antisemita non fu che uno – anche se il più mostruosamente evidente – degli aspetti della tragedia. Dire che sino al 25 aprile 1943 essa fu una persecuzione all’“acqua di rose”, almeno in confronto a ciò che avveniva in altri paesi, dire che lo stesso governo della RSI cercò di impedire che essa degenerasse, dire che le violenze e gli stermini furono fatti o almeno ordinati dai tedeschi, dire che la stragrande maggioranza degli italiani deprecò sempre queste violenze e questi stermini è vero. Queste verità non rendono però la persecuzione meno mostruosa” <3.
A quasi trent’anni di distanza, De Felice ha ribadito questa sua linea interpretativa, affermando in una famosa intervista rilasciata al “Corriere della Sera” che «il fascismo italiano è al riparo dall’accusa di genocidio, è fuori dal cono d’ombra dell’Olocausto <4».
Tale lettura defeliciana è stata pesantemente messa in discussione da un ampio settore della storiografia italiana degli ultimi decenni <5. Il più autorevole esperto italiano della Germania contemporanea, Enzo Collotti, l’ha ad esempio definita “insostenibile” nel suo tentativo di attenuare i caratteri totalitari del regime e di rimarcare – enfatizzandola – la lontananza del regime fascista da quello nazista proprio nel comportamento assunto nei confronti degli ebrei <6. Inoltre, la storiografia anche internazionale sulla Shoah in Italia ha confutato, sempre negli ultimi decenni, la linea che scarica meramente sulla Germania nazista la responsabilità della persecuzione ebraica, ribadendo la natura autoctona dell’antisemitismo fascista in un quadro più ampio della politica della razza inaugurata da Mussolini con la proclamazione dell’Impero. Ha inoltre sottolineato <7 la corresponsabilità italiana nella deportazione ebraica, cercando di spiegare i motivi di una politica della memoria sempre più attenta alle vittime e ai “giusti” piuttosto che ai carnefici <8.
La mia ricerca si propone di inserirsi all’interno di quest’ultimo filone di studi relativi alla persecuzione ebraica ad opera del fascismo italiano, andando a ricostruire la politica della razza nello specifico contesto dell’estremo biennio fascista, quello della Repubblica sociale italiana.
A metà del novembre 1943 il Partito fascista repubblicano si riunì a Verona con l’intenzione di redigere un piano programmatico per il governo della nuova Repubblica fascista. Tra i punti del Manifesto approvato chiara era l’iniziativa di un pesante inasprimento dei provvedimenti antiebraici: gli ebrei furono dichiarati nemici di guerra; non protetti dalle norme del diritto internazionale e requisiti dei loro beni, in molti vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento ad opera non solo dell’esercito nazista occupante, ma anche e soprattutto della linea politica repubblichina.
Il mio lavoro è quindi volto a ricostruire la centralità del fascismo di Salò quale protagonista attivo (e non mero alleato passivo dei nazisti) nella persecuzione ebraica.
La decisione di focalizzare l’attenzione sull’epilogo fascista nasce dal fatto che il tema della violenza e delle politiche repressive attuate dalla RSI è stato – come ha rimarcato Toni Rovatti – “volutamente disconociut[o]” per lungo tempo quale oggetto meritevole di analisi <9.
Per rispondere a questi obiettivi si è lavorato sulle seguenti fonti.
Le carte del Carteggio Riservato della Segreteria particolare di Mussolini e della Presidenza del Consiglio dei Ministri del periodo del biennio repubblichino (conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato, fondo RSI) hanno rappresentato un punto di partenza fondamentale in quanto hanno permesso di ricostruire i progetti legislativi antiebraici nati in seno alla RSI, i programmi e le aspettative dell’Ispettorato generale della razza. A questo “laboratorio legislativo” si è affiancata l’analisi di riviste e quotidiani di ambito cronologico e geografico salodino, nonché della produzione figurativa e visuale della RSI, al fine di verificare se e come l’antiebraismo dichiarato programmaticamente alla nascita della Repubblica sociale trovasse poi espressione nella propaganda retorica e (in termini più limitati) iconografica.
[…]
1 Esiste un’abbondante letteratura storiografica che ha studiato il ruolo italiano nel salvataggio degli ebrei; a titolo d’esempio si veda: S.Zuccotti, L’Olocausto in Italia, TEA, Milano 1995, M. Shelah, Un debito di gratitudine. Storia dei rapporti tra l’Esercito italiano e gli ebrei in Dalmazia (1941-1943), USSME, Roma 1991, L. Poliakov e J. Sabille, Gli ebrei sotto l’occupazione italiana, Edizioni di Comunità, Milano 1956.
2 F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano
3 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1993 (1961), p. 462.
4 Intervista di G. Ferrara a R. De Felice, “Corriere della sera”, 27 dicembre 1987.
5 Per una panoramica sulla formulazione e diffusione della visione riduzionista del fascismo come regime autoritario e non dittatoriale nonché sulle sue implicazioni politiche, e anche sulle posizioni critiche nei suoi confronti si rimanda a N. Tranfaglia, Il ventennio del fascismo, in A. Del Boca (a cura di), La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, Neri Pozzi, Vicenza 2009, pp. 107-147.
6 E. Collotti, Il razzismo negato, in “Italia contemporanea”, n. 212, settembre 1998, p. 581-582.
7 Un esempio di questo filone di ricerca è lo studio di M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli ebrei, Il Mulino, Bologna 2008.
S. Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene del genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015. 8 Interessante in merito è anche lo studio di G. De Luna, La repubblica del dolore: le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011.
9 T. Rovatti, Linee di ricerca sulla Repubblica sociale italiana, in “Studi Storici”, n. 55, Roma 2014, p. 287
Sara Garbarino, La Repubblica sociale italiana e la persecuzione degli ebrei, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, anno accademico 2016/2017

In una statistica dell’Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, elaborata per la Direzione Generale per la Demografia e la Razza (Demorazza), viene indicato il numero degli ebrei italiani e stranieri “puri”, “misti” e “imprecisati” in tutte le regioni d’Italia. Archivio centrale dello Stato, Roma.

La RSI esercitò la propria sovranità solo sulle province non soggette all’avanzata alleata e all’occupazione tedesca diretta. Inizialmente la sua attività amministrativa si estendeva fino alle province del Lazio e dell’Abruzzo, ritirandosi progressivamente sempre più a nord, in concomitanza con l’avanzata degli eserciti angloamericani. A nord, inoltre, i tedeschi istituirono due “Zone di operazioni” comprendenti dei territori che erano state parti dell’Impero austro-ungarico: le province di Trento, Bolzano e Belluno (Zona d’operazione delle prealpi) e le provincie di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana (Zona d’azione d’operazioni del litorale adriatico), sottoposte direttamente ai Gauleiter tedeschi del Tirolo e della Carinzia, de facto anche se non legalmente governate dal Terzo Reich.
Le aspettative di un riconoscimento internazionale del nuovo governo restarono deluse: a parte la Germania, alcuni stati sotto la sua influenza e il Giappone, la RSI non riuscì a conquistare uno spazio sullo scenario internazionale.
[…] Riconquistare il consenso degli italiani fu al centro degli interessi di Mussolini ed è volto a questo scopo il fondamento ideologico e propagandistico della piccola repubblica: il recupero di un fascismo delle origini, dei lavoratori, epurato dai grandi capitali, collusi con la monarchia.
Non sono pochi coloro che scelgono di aderire a questo fascismo redivivo, confidando nella volontà di rinnovamento: emerge un quadro di fermento propositivo che coinvolge i fascismi locali, caratterizzato nei primi mesi della RSI da un ampio spettro di posizioni in merito alla gestione del partito e dell’economia, ma anche da proposte di collaborazione con gli antifascisti per mantenere l’unità del paese, presto piegate al prevalere della linea autoritaria del governo.
Prevarrà comunque la tendenza squadrista: l’ostilità manifestata della popolazione nei confronti del regime nei quarantacinque giorni precedenti l’armistizio ha polarizzato nei fascisti la demarcazione dei ruoli tra i traditori e i traditi, e ciò che muove molti fascisti della RSI è la volontà di rivalsa, in aggiunta al sentimento di rappresentare l’unica parte onorevole della nazione.
Fu così che mentre si organizzava il nuovo stato, il congresso del PFR tenutosi a Verona nel novembre del 1943, gettò le basi del RSI e approvò il manifesto di Verona che può essere considerato come atto fondante della Repubblica Sociale.
[…] Era evidente in una scelta del genere la volontà del fascismo repubblicano di staccarsi dalla posizione filo borghese che aveva tenuto nel corso del ventennio. <34
Sul piano materiale la socializzazione avrà nell’alleato tedesco un oppositore scettico; e nonostante una prolifica opera normativa sulla materia, i risultati della RSI non saranno quelli millantati dalla propaganda. Resta il fatto che l’aspirazione alla socializzazione ha una parte fondamentale nel sistema di valori della repubblica e parla ai fascisti, ma anche a tutti gli italiani delusi dalla “fellonia” del re.
La politica antiebraica occupò il punto sette di tale Manifesto: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono alla nazionalità nemica”. <35.
Si trattava di un notevole salto di qualità rispetto a quella che era stata sino a quel momento la politica antiebraica del fascismo e la cosa deve essere vista alla luce della situazione italiana di quel convulso periodo: ricostruito in fretta e furia e con l’aiuto e la super visione germanica il partito repubblicano non aveva altra scelta se non quella di dimostrarsi più zelante dei suoi padroni, al fine di dimostrare la chiarezza dei suoi intenti e la sua purezza ideologica che ne avrebbero favorito la legittimazione e l’accettazione da parte nazista.
Non a caso, già il 30 novembre 1943 il ministro dell’Interno della RSI diramò l’Ordine di polizia n. 5, che disponeva l’arresto e l’internamento di tutti gli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati, oltre al loro sequestro (trasformato poi in confisca nel gennaio del 1944) di tutti i beni.
I capi delle province della RSI iniziarono ad allestire campi di internamento provinciale e i questori iniziarono ad effettuare gli arresti, sulla base di una linea politica che si traducesse essenzialmente in scelte di polizia, che almeno in parte contribuirono a sostituirsi alle attività di repressione antiebraica dei tedeschi, le cui retate diminuirono di numero e di intensità, ma solo perché sostituite da quelle delle forze di sicurezza della RSI.
La maggior parte degli ebrei arrestati dai fascisti o dai nazisti venne raggruppata in carcere o campi di raccolta presenti sul territorio nazionale e poi deportata principalmente nel campo di sterminio di Auschwitz.
Quel che è certo e non fa onore al fascismo repubblicano, è che esso svolse, nel breve periodo della vita della Repubblica Sociale, un semplice ruolo strumentale e subalterno in favore delle esigenze tedesche, e utilizzò le sue strutture di polizia per arrestare ebrei e consegnarli ai nazisti <36.
La persecuzione antiebraica fu una macchia indelebile che si impresse sul fascismo repubblicano <37, ma non meno sanguinoso e tragico risultò il suo coinvolgimento nella guerra civile e nella repressione antipartigiana.
Oltre ai traditori della vecchia Italia monarchica e badogliana, i fascisti dovettero affrontare un nemico insidioso e concreto, la guerra partigiana <38.
[NOTE]
34 Giorgio Bocca, op.cit.
35 Congresso di Verona, 14 novembre 1943, punto 7.
36 Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2007.
37 Andrea Chiarini, op.cit.
38 Amedeo Osti Guerrazzi, op.cit.
Marco Bardi, La Repubblica Sociale Italiana alla Spezia tra pratiche repressive e punizione dei crimini, Tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, 2019

Mussolini fu affiancato dal plenipotenziario del Reich Rudolf Rahn, quale responsabile politico per il Reich. Gli ebrei rimasti intrappolati nel territorio della Repubblica sociale italiana agli inizi di settembre 1943 erano 32.307, tra nativi e profughi. Gli arrestati furono tra gli 8.000 e i 9.000. Una circolare dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich diretta il 23 settembre 1943 a tutti i suoi uffici territoriali dichiarava che gli ebrei di nazionalità italiana che si trovavano all’estero non erano più esentati come in precedenza dalla deportazione. Questo è il primo documento che testimonia l’estensione agli ebrei italiani della politica di sterminio già in atto fin dalla primavera del 1942 nei paesi occidentali. Come comandante supremo delle SS e della Polizia fu insediato a Gardone Karl Wolff; a Verona come capo della Polizia di sicurezza SD, Wilhelm Harster. Quest’ultimo organizzò la rete degli uffici territoriali della Polizia di sicurezza in Italia. Primi eccidi e retate messi in atto dalle forze di occupazione nel mese di settembre. In ottobre l’organizzazione delle retate fu affidata ad uno staff volante, che fu operativo dagli inizi di ottobre fino alla vigilia di Natale. Era formato da una decina di uomini, capeggiati dall’uomo di fiducia di Eichmann, capitano delle SS Theodoe Dannecker, incaricato di programmare ed effettuare retate di ebrei nelle principali città italiane procedendo da sud verso nord. Retata di Roma del 16 ottobre 1943. Documento ritrovato negli archivi di Stato americani: 6 ottobre 1943, spedito dal capo della polizia tedesca Herbert Kappler a Roma al suo capo Wolff: la prima retata doveva verificarsi a Napoli, inoltre la destinazione doveva essere “la Germania” (Probabilmente Mauthausen) Motivazioni per cui le cose andarono diversamente. Narrazione delle modalità di arresto e deportazione. Lo staff volante di dannecker si spostò verso il nord: Genova, Montecatini, Siena, Firenze, Bologna… Convoglio dopo la retata di Firenze: 9 novembre 1943 Primo convoglio da Milano: 6 dicembre 1943 (arresti sul confine italo-svizzero). Alla fine di dicembre Dannecker fu trasferito in Ungheria e il suo staff continuò la sua opera sotto il comando di Friedrich Bosshammer, destinato ad una postazione fissa nell’ambito della sede della Gestapo a Verona. Primi giorni della Repubblica sociale italiana: problemi da affrontare; questione ebraica per ora secondaria. 14 novembre 1943, assemblea del Partito fascista repubblicano con delegati giunti da tutte le parti d’Italia. 18 punti elaborati con l’assistenza del plenipotenziario tedesco Rudolf Rahn. Il punto 7 riguardava la questione ebraica: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. 30 novembre: il ministero dell’Interno dispose con l’ordinanza di Polizia n. 5 l’arresto, l’internamento e il sequestro dei beni degli ebrei. Dal primo dicembre si mise in moto la macchina degli arresti e delle deportazioni. Coinvolgimento di diversi apparati statali: ministero dell’Interno, Direzione generale per la demografia e la razza; prefetti e questori; commissari di pubblica sicurezza; carabinieri; ministero delle Finanze, ministero di Grazia e Giustizia, il ministero dell’Educazione nazionale, il ministero della cultura popolare. Incertezza per quanto riguarda l’arresto e la deportazione di ebrei anziani o malati che venivano esclusi dall’autorità italiana e non da quella tedesca e dei coniugi di matrimoni misti, inclusi dagli italiani ma esclusi dai tedeschi. Ebrei con passaporto inglese e turco furono inviati a Bargen Belsen.
Campi provinciali provvisori (31) e carceri. Convoglio del 30 gennaio 1944 partito da Milano. Dopo il primo dicembre l’apparato statale italiano si mise in moto: centinaia di mandati di arresto furono emanati dai questori; es. a Venezia il questore organizzò una retata il 5-6 dicembre del 1943. Il campo di Fossoli fu aperto il 5 dicembre. Requisizioni dei beni ebraici. Legge del 4 gennaio 1944: “Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica. Qualsiasi tipo di proprietà divenne oggetto di confisca (aziende, conti bancari, crediti, beni mobili e immobili fino ai più piccoli oggetti). L’Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare, creato fin dal 1939, aveva nella RSI la funzione di “sequestratario”, di “sindacatore”, di “liquidatore” dei beni appartenenti ai “sudditi nemici”. La confisca prevedeva il trasferimento definitivo dei beni allo stato. Questione relativa alla spartizione dei compiti tra forze di polizia italiana e tedesca. L’ispettorato generale della razza Con il decreto del 18 aprile 1944 Mussolini istituiva l’Ispettorato generale per la razza. La nomina di Giovanni Preziosi è da mettere in relazione al fatto che Preziosi aveva dei legami consolidati con la Germania, dove si era rifugiato dopo il 25 luglio del 1943, dove era rimasto fino al 15 marzo 1944. Giovanni Preziosi era un giornalista di idee nazionaliste passato poi al fascismo; anticomunista, antimassone, antisemita. Direttore della rivista “La Vita italiana” dal 1915. Conosceva l’inglese, il francese e il tedesco e questa conoscenza delle lingue gli permise di entrare in contatto con le correnti antisemite europee degli anni Venti e Trenta. In Italia promosse la pubblicazione nel 1921 dei Protocolli dei savi di Sion, e ne curò le ristampe dal 1937 al 1945. Preziosi aveva coltivato contatti diretti con le istituzioni ideologiche antisemite del partito nazista (come avevano fatto Giulio Cogni e Julius Evola) Ad esempio l’11 giugno 1941 Preziosi scrisse al direttore dell’Istituto per le ricerche sulla questione ebraica di Francoforte per avere notizie più dettagliate sullo statuto, l’organizzazione e l’attività dell’Istituto da poco inaugurato perché pensava di fondare un istituto analogo in Italia. Preziosi a causa della sua attività di studio e raccolta di materiale sulla cosiddetta questione ebraica entrò in rapporto con diverse autorità tedesche. La sua attività aveva delle affinità con quella svolta in Germania da Alfred Rosenberg. Trafugamento di biblioteche e opere d’arte di proprietà ebraica da parte dell’ERR (Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg) con la complicità di autorità militari tedesche e del ministero degli Esteri. I contatti di Preziosi con Rosemberg e le concordanze ideologiche sono evidenti. Preziosi collaborò con l’organizzazione di Rosemberg in Italia; inoltre dava informazioni alle autorità germaniche circa la scarsa affidabilità di ministri e personaggi chiave dello stato fascista repubblicano che circondavano Mussolini e che erano ritenuti tutti affiliati alla massoneria. Tra gennaio e aprile del 1944, Preziosi consegnò il suo archivio (probabilmente relativo all’attività della rivista da lui diretta) nelle mani dei tedeschi. I suoi rapporti con le autorità naziste erano strettissimi, tanto da avere una sua sede a Monaco. Funzioni dell’Ispettorato Accertamento delle posizioni razziali dei singoli; controllo delle applicazioni razziali;elaborazione di statistiche; gestione del servizio di informazione sulla massoneria, sulla plutocrazia e sulle forze occulte. L’Ispettorato cercò di estendere la sua autorità sulle confische dei beni ebraici operate dall’Egeli. L’Ispettorato promuoveva studi razziali e antiebraici, anche in collegamento con gli istituti in Germania. Nell’ottobre del 1944, Preziosi rivendicò nei confronti del ministero dell’Interno l’archivio sequestrato alla comunità di Roma e alle sinagoghe. Alla fine il ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi sollecitò i prefetti ad inviare il materiale degli archivi delle comunità e delle sinagoghe all’Ispettorato diretto da Preziosi. Inoltre il ministro, il 1° dicembre 1944, firmò un accordo che stabiliva l’immediato trasferimento dei documenti che si trovavano ancora custoditi dalla “Demorazza” e che Preziosi aveva richiesto.
Pare che l’esito positivo delle richieste di Preziosi fu determinato dall’intervento tedesco nei confronti del ministro dell’Interno. Preziosi e i suoi collaboratori dell’Ispettorato aveva intenzione di rivedere la legislazione antiebraica per un suo ulteriore inasprimento. Pare che il ministro dell’Interno fosse contrario alla faccenda. Concorrenza tra i due che non migliorò la situazione degli ebrei. La legislazione non fu rivista ma venne aggravata con l’allargamento della categoria dei perseguitabili. Es. deportazione degli ebrei convertiti al cattolicesimo e sposati con ariani da Fossoli il 2 agosto del 1944.
Presentazione del libro: “La Repubblica sociale italiana a Desenzano: Giovanni Preziosi e l’Ispettorato generale della razza. A cura di Michele Sarfatti”, Atti del Convegno organizzato a Desenzano del Garda il 24 gennaio 2007 dal Comune di Desenzano del Garda e dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Editrice Giuntina, Firenze, 2008, Sintesi a cura di Elisabetta Lombi

[…] 1. 30 novembre 1943: la macchina amministrativa si (ri)mette in moto
Il 14 novembre 1943, nel discorso che aprì il congresso del nuovo Partito fascista repubblicano (Pfr) il segretario Alessandro Pavolini dichiarò davanti alla folla dei fedelissimi riuniti a Verona: «Per quel che riguarda gli ebrei la direzione del partito propone che in questa materia si adotti una formula che non lasci campo ad equivoci e che dica che gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri che durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Tra applausi e voci di entusiasta approvazione, continuava: «Con tutte le conseguenze, per chi ha studiato questo problema, che questa dichiarazione comporta, perché è la dichiarazione che taglia la testa al toro […]; niente discriminazioni» [1] [D’Angeli 2016].
Passarono poche settimane e con l’ordinanza di polizia n. 5 del 30 novembre 1943, firmata dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, la Repubblica sociale italiana intervenne ufficialmente nella cosiddetta “questione ebraica”, disponendo il sequestro (e più avanti la confisca) dei beni posseduti dagli ebrei a favore delle popolazioni danneggiate dalla guerra e l’arresto e l’invio di tutti gli ebrei in campo di concentramento: italiani e stranieri, uomini, donne o bambini, giovani e vecchi. Insomma «niente discriminazioni», diversamente da quanto avvenuto dal 1938 in poi.
L’ordinanza ministeriale era molto chiara riguardo la sorte delle persone di origine ebraica: andavano aperti dei campi di concentramento in ogni provincia dove rinchiudere chi veniva progressivamente arrestato, in attesa che fossero realizzati uno o più campi definiti «speciali», attrezzati cioè per contenere le migliaia di individui da fermare. Nell’Italia centro-settentrionale, corrispondente al territorio della Rsi, in base ai più recenti censimenti erano presenti infatti tra i 30 e i 40 mila ebrei, italiani e stranieri [Picciotto 2011; Sarfatti 2018].
La disposizione intendeva inoltre regolare una questione che sembrava essere finita dopo l’8 settembre nelle mani delle autorità tedesche scese ad occupare l’Italia: gli uomini della sezione IV-B4 agli ordini di Eichmann, dipendente dalla Direzione generale per la sicurezza del Reich (RSHA) e responsabili della “soluzione finale” nell’Europa occupata, avevano organizzato tra settembre e novembre retate di ebrei in molte città, arrestando e deportando migliaia di persone – solo a Roma, il 16 ottobre 1943, ne furono prese e deportate più di mille. Ciò avvenne non senza la collaborazione di agenti italiani, delle Prefetture e delle Questure, che comunicarono, o almeno non distrussero, gli elenchi degli ebrei censiti o schedati negli anni precedenti.
Già dal giorno successivo alla diramazione dell’ordinanza n. 5, la macchina amministrativa di Salò si mise, o piuttosto, si rimise in moto: le autorità italiane non erano certo nuove a misure di internamento che colpivano anche individui di origine ebraica. Il compito di arrestare e internare gli ebrei fu affidato alle Prefetture e alle Questure e agli uomini ai loro ordini, che si attennero alle disposizioni contenute nella circolare di fine novembre e in altre comunicazioni ricevute nel corso di dicembre. Quasi subito, infatti, fu necessario un chiarimento riguardo la tipologia delle persone da fermare: il capo della polizia Tullio Tamburini, il 10 dicembre, precisò che andavano rinchiusi in campo di concentramento tutti gli ebrei stranieri e quelli “puri” italiani; i malati gravi e gli anziani, «salvo adeguate misure di vigilanza», dovevano invece essere esonerati, almeno «per ora», così come coloro che facevano parte di una famiglia mista [2]. Considerazioni di carattere organizzativo avevano convinto il capo della polizia a rendere più graduale le pratiche di arresto e di internamento. Fu lo stesso ministro dell’Interno, tuttavia, che alla fine di dicembre ci tenne a ribadire, esprimendosi con un linguaggio molto duro, quanto stabilito inizialmente: «Disposizioni emanate con ordinanza di polizia in data primo corrente numero 5 nei confronti degli ebrei non hanno dico non hanno subito alcuna modificazione a seguito delle disposizioni emanate con telegramma dal capo della polizia». Queste ultime erano solo di carattere esecutivo «attesa la necessità di approntare gli alloggiamenti secondo ogni norma igienica e funzionale alt» [3].
Le circolari inviate nel mese di dicembre diedero il via ufficialmente alla persecuzione fisica degli ebrei da parte dell’amministrazione di Salò, portata avanti con zelo da agenti di polizia e carabinieri. Appoggiandosi agli elenchi degli ebrei schedati negli anni precedenti e durante la guerra, nonché approfittando di denunce e delazioni, le questure cominciarono la ricerca delle persone da fermare, casa per casa, ma ovunque gli stessi perseguitati si presentarono spesso spontaneamente alla polizia dopo aver appreso la notizia delle nuove misure antisemite: il testo dell’ordinanza venne infatti trasmesso via radio e pubblicato in prima pagina su tutti i principali quotidiani dell’epoca, accompagnato da commenti e articoli che appoggiavano e motivavano questa iniziativa del governo [4].
Quanto disposto nell’ordinanza di fine novembre prevedeva dunque la creazione di appositi campi di concentramento provinciali. Nelle grandi città, generalmente, gli ebrei furono rinchiusi nelle prigioni, prima di essere trasferiti in un campo speciale o direttamente deportati, come avvenne dal carcere milanese di San Vittore [Picciotto 2011]. In alcune province le autorità provarono ad aprire dei campi ma si scontrarono con problemi logistici o vi rinunciarono in accordo con i comandi germanici presenti in zona. Altrove ci si appoggiò a campi già in funzione durante la guerra, creati negli anni precedenti per internare prigionieri militari e stranieri nemici, ebrei inclusi, [Capogreco 2004] oppure si decise di aprire nuove strutture denominate dalle stesse autorità “campi provinciali”: fu questo il caso di circa venti province dell’Italia centro-settentrionale [5] [Stefanori 2017].
[…] 3. La collaborazione con i tedeschi
Pur in presenza di ordini e disposizioni emanati dai vertici della Rsi, gli amministratori di Salò dovettero continuamente fare i conti con le insistenti pressioni provenienti dalle autorità tedesche di occupazione, che chiedevano una più stretta collaborazione ai loro piani di deportazione e sterminio e di applicare misure più rigide di quelle adottate dal governo repubblicano: nello specifico, arrestare e inviare nei campi anche i malati, i bambini, gli anziani e i cosiddetti “misti”, esclusi temporaneamente dal provvedimento, e consegnare nelle loro mani gli ebrei fermati dalla polizia italiana.
Dalla fine di dicembre ‘43, gli ebrei arrestati e internati in ogni provincia iniziarono ad essere trasferiti, secondo quanto stabilito dall’ordinanza n. 5, verso l’unico campo di concentramento speciale aperto sul territorio: l’ex campo per prigionieri di guerra vicino Modena, a Fossoli di Carpi. Alla fine di febbraio 1944 i comandi della polizia germanica assunsero la direzione della parte di campo dove confluivano gli ebrei e gli arrestati per motivi politici, destinati alla deportazione nei lager nazisti. Di fatto, da quella data in poi, inviare gli ebrei a Fossoli voleva dire consegnarli nelle mani dei tedeschi. Proprio dal campo modenese partirono dodici convogli di ebrei diretti ai campi di concentramento e sterminio dell’Europa orientale: il primo con destinazione Auschwitz lasciò Fossoli il 22 febbraio 1944 ed era formato da più di 500 ebrei italiani e stranieri, provenienti dai campi provinciali e dalle prigioni di molte città [Picciotto 2010; D’Amico 2015]. Nell’estate del ‘44, di fronte all’avanzata degli Alleati, Fossoli fu evacuato e le deportazioni vennero organizzate in strutture in funzione nelle regioni nordorientali della penisola, sotto il diretto controllo delle autorità del Reich: il campo di Bolzano-Gries e quello allestito nei locali della ex Risiera di San Sabba a Trieste [Picciotto 2011].
Di fronte alle continue pressioni tedesche, che contrastavano con le disposizioni ufficiali ricevute dal governo, le autorità provinciali della Rsi domandarono ai vertici ministeriali se dovessero aderire alle richieste dell’alleato germanico o continuare a seguire gli ordini repubblicani. In risposta, il capo della polizia Tamburini trasmise, a distanza di poche ore l’uno dall’altro, due telegrammi il 21 e il 22 gennaio 1944, nei quali chiedeva di spedire nei campi tutti gli ebrei puri di qualsiasi nazionalità, anche quelli definiti “discriminati”, ma di attenersi comunque alle disposizioni italiane, spiegandone i contenuti ai comandi tedeschi di zona: nel frattempo il Ministero si sarebbe impegnato ad accordarsi con le autorità centrali germaniche affinché fossero ordinate «direttive intese assicurare permanenza ebrei campi italiani» [8]. In realtà, nella confusione di quel periodo di guerra, i due telegrammi arrivarono in ritardo in alcune province, nonché sovrapposti. A distanza di un mese e mezzo, il capo della polizia riprese la questione in una nuova circolare [9].
La soluzione di lasciare alle autorità locali il compito di gestire i rapporti di collaborazione con le forze alleate tedesche non era nuova, ma si poneva in continuità con quanto già iniziato a fare nei mesi precedenti e, soprattutto, nelle settimane successive all’occupazione nazista della penisola. Per esempio, l’11 settembre 1943 il prefetto di Lucca, quando ancora la Rsi non era nata, propose agli organi centrali del Ministero dell’Interno di rinchiudere in un campo di concentramento gli ebrei presenti nella provincia, onde evitare che questi potessero scappare, spaventati dalla presenza dei tedeschi e dal pericolo di essere trasferiti in Germania. Il Ministero rispose a inizio novembre di intensificare la vigilanza su di essi e di prendere accordi con le locali autorità germaniche [Sarfatti 2018] [10]
Provare a stabilire se sia esistito o meno un accordo segreto ai vertici tra autorità italiane e tedesche per collaborare alla deportazione degli ebrei, come fatto da Michele Sarfatti [Sarfatti 1997 e 2018], è sicuramente utile per riflettere sui caratteri della politica antisemita di Salò e sulle responsabilità che ebbero i principali esponenti governativi nel prendere decisioni che favorirono i piani di sterminio. Tuttavia, per capire meglio le modalità di questa collaborazione occorre concentrare l’attenzione su quello che accadde in ogni provincia: tenute all’oscuro, almeno da quanto emerge dalla documentazione, di un’intesa ai vertici, le autorità locali provarono infatti a muoversi sulla base della normativa emanata dal governo repubblicano e da loro ricevuta, che non prevedeva nessun ordine di deportazione dall’Italia.
L’applicazione delle misure decise ai vertici ministeriali determinò situazioni molto diverse. In alcuni casi, la sorte degli ebrei dipese esclusivamente dalle intenzioni dell’alleato germanico, che non tenne conto del parere di Questure e Prefetture italiane. Ma i dati relativi alla tipologia degli internati nei campi provinciali indicano che, nonostante le pressioni germaniche, le autorità italiane riuscirono a ritagliarsi un certo spazio di autonomia nell’esecuzione degli arresti: collaborarono cioè solo in maniera parziale ai piani nazisti, continuando a mettere in pratica le disposizioni governative e a escludere dalle misure d’internamento gli anziani, i malati e, in molti casi, i cosiddetti misti. Molti ebrei rinchiusi nei campi provinciali, almeno un centinaio [Stefanori 2017], furono fatti uscire in osservanza delle norme italiane e non vennero trasferiti a Fossoli: alcuni scamparono alla deportazione, altri invece finirono in successive retate, furono vittime di ulteriori delazioni oppure caddero nelle mani degli uomini delle bande autonome nazifasciste operanti sul territorio. Diverso invece il discorso relativo alla consegna degli ebrei ai tedeschi, sulla quale l’amministrazione italiana non sembrò avere troppa libertà di azione, considerato anche lo squilibrio delle forze favorevoli all’alleato “occupante” [Klinkhammer 2007].
Sebbene le direttive ministeriali lasciassero ampia discrezionalità agli amministratori locali, nella maggior parte dei casi non si assiste a una piena e automatica collaborazione ai piani tedeschi: salvo eccezioni, capi provincia e questori comunicarono al Ministero i tentativi di ingerenza negli affari italiani e a volte sembrarono stupirsi di fronte a richieste che scavalcavano la normativa di Salò, segnalando le loro perplessità agli uffici centrali e attendendo chiarimenti e autorizzazioni prima di procedere. Emblematico è il caso di Verona e del capo di quella provincia, Piero Cosmin, sulla cui fedeltà al fascismo repubblicano e all’alleanza con i tedeschi non vi sono dubbi [Cifelli 1999, 60] [11]: in quei mesi aveva collaborato con le forze germaniche presenti in zona, gestendo con fermezza l’ordine pubblico e occupandosi del processo di Verona contro i “traditori” del 25 luglio. Ricevuta l’ordinanza di arresto degli ebrei si impegnò ad applicare, in accordo sempre con i tedeschi, quanto stabilito da Salò. Apparve però spiazzato nel leggere, a fine febbraio ‘44, la missiva del comandante di zona della Gnr, il quale segnalava che la polizia germanica intendeva chiudere il campo provinciale per ebrei da lui aperto e deportare gli internati «fuori Italia». Mise infatti un evidente punto interrogativo a matita rossa proprio vicino questo passaggio della lettera, rimarcando qualcosa che in realtà non avrebbe dovuto suscitare in lui troppi dubbi: da gennaio, proprio a Verona, si era insediato l’ufficio della RSHA di Friedrich Bosshammer responsabile della questione ebraica e le deportazioni di ebrei dall’Italia erano iniziate già da tempo [Berger 2016, 126-129, 137].
In alcune occasioni non è escluso che intervennero considerazioni di carattere umanitario a influenzare le scelte di singoli funzionari o agenti. Tuttavia, furono soprattutto motivazioni politiche che sembrano guidare l’atteggiamento dell’amministrazione italiana. A dirigere le Prefetture e, spesso, le Questure della Rsi erano stati chiamati uomini di comprovata e antica fede fascista (fascisti della “prima ora” e attivi nel movimento fin dalla marcia su Roma), che condividevano di certo l’opportunità di applicare una radicale politica antisemita e di collaborare con gli alleati di Berlino: allo stesso tempo, però, non consideravano affatto il loro governo un “fantoccio” in balia dei comandi tedeschi, ma un regime che governava l’Italia da più di vent’anni e che si era rinnovato eliminando i “traditori” del 25 luglio [Borghi 2001; Cassese 2010; Melis 2018]. Continuare ad applicare la normativa italiana senza cedere alle richieste tedesche serviva quindi a dimostrare l’esistenza amministrativa dello Stato di Salò [12].
Nel successivo paragrafo verranno ripercorsi brevemente tre casi locali (Grosseto, Padova e Perugia), che mostrano la complessa e variegata interpretazione che le autorità locali della Rsi diedero alla normativa decisa dal governo e le modalità con cui questa venne applicata nelle province in cui entrarono in funzione dei campi di concentramento provinciali. […]
1. Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Segreteria Particolare del Duce (d’ora in poi SPD), Carteggio Riservato (d’ora in poi CR), RSI, b. 61, f. 630.
2. ACS, Ministero dell’Interno (d’ora in poi MI), Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora in poi DGPS), A5G II guerra mondiale, b. 151, f. 230.
3. ACS, MI, DGPS, Massime R9 Razzismo, b. 183, f. 19.
4. Si veda ad esempio: L’arresto degli ebrei, in “Corriere della Sera”, 1 dicembre 1943, 1; Tutti gli ebrei inviati ai campi di concentramento, in “La Stampa”, 1 dicembre 1943, 1; Fino in fondo. Gli ebrei residenti n Italia avviati in campi di concentramento. Confisca di tutti i beni mobili e immobili – Vigilanza di polizia per gli arianizzati, in “Il Resto del Carlino”, 2 dicembre 1943, 1.
5. È possibile consultare on-line alcune mappe che riproducono questo fitto sistema di campi: http://campifascisti.it/; http://www.cdec.it/public/campi-conc.pdf.
8. ACS, MI, DGPS, A5G II Guerra Mondiale, b. 151, fasc. 230; ACS, MI, DGPS, Massime R9 Razzismo, b. 183, f. 19.
9. Ivi.
10. ACS, MI, DGPS, Massime M4, b. 142, f. 18.
11. ACS, MI, Direzione generale affari generali e del personale (d’ora in poi DGAGP), Divisione del personale 1861-1952, Versamento 1952, fascicoli riservati, b. 50 (bis), f. Cosmin Piero.
12. A. Pajno, 1938, la “vera” legalità, relazione letta durante il 900fest – Festival di Storia del Novecento, V edizione (Forlì, 24-27 ottobre 2018)
Matteo Stefanori, “Niente discriminazioni”: Salò e la persecuzione degli ebrei, E-Review

Già dall’aprile del 1941, una disposizione del Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, alle Prefetture e alle Questure, estendeva anche agli ebrei discriminati e alle famiglie miste il sequestro delle radio e non ammetteva eccezioni e revocava tutte le concessioni anche per gli apparecchi atti a ricevere le sole stazioni locali. <346 Ma a Venezia era il federale Macola che spingeva affinché la disposizione diventasse immediatamente operativa.
Vi sarei grato, Eccellenza, se voleste compiacerVi di far ritirare gli apparecchi radio ai cittadini di razza ebraica residenti in Venezia, come si dice sia già stato fatto in alcune Città d’Italia e come viene richiesto a gran voce dall’opinione pubblica, la quale sottolineerebbe molto favorevolmente un provvedimento del genere, inteso soprattutto a impedire l’ascoltazione e la diffusione di notizie provenienti dalla propaganda nemica. Vincere! <347. (Nota a penna del 26 aprile: Il signor questore assicura che è già stato provveduto in conformità delle superiori istruzioni a ritirare gli apparecchi anche agli ebrei discriminati).
Anche l’ordinanza per la requisizione delle radio fu l’occasione di un nuova prova di forza tra il Prefetto e il Federale, non solo per il rigore e la rapidità nell’adempimento delle disposizioni di legge ma per la dimostrazione di fede capace di interpretare il disegno fascista al di là delle disposizioni di legge. Questo pretendeva Macola, con i suoi continui interventi. <348
Il Prefetto fu costretto a giustificare la sua posizione con una lunga relazione che inviò il 16 marzo 1942 al Ministro Buffarini Guidi, ricordando che in Provincia di Venezia era stato consentito l’uso di apparecchi radio alle famiglie miste, e a solo sedici persone che vantavano particolari benemerenze, dimostrando che l’applicazione delle disposizioni era stata restrittiva. Aveva assunto lo stesso atteggiamento di rigidità nell’applicazione delle norme anche per le autorizzazioni per i domestici ariani.
[NOTE]
346 ASVe, Fondo Gabinetto della Prefettura, b. 4, f. 2158, Ritiro apparecchi radio. Verbale di sequestro: “il 9 marzo 1942 nel Commissariato di P.S. di S. Marco in Venezia.
347 Ibidem, Ritiro apparecchi radio. Il Segretario federale, dott. Mario Macola il 23 aprile 1941, con una lettera riservata personale al prefetto Vaccari.
348 Sulla critica della federazione fascista a Vaccari, prefetto di Venezia, vedi anche R. Segre, Gli ebrei a Venezia 1938-1945, cit., p. 87-88. “Riecheggiano nelle denunce dei settori più oltranzisti del fascismo locale le stesse accuse da cui doveva difendersi il prefetto Vaccari, ritenuto dal segretario federale Macola troppo tiepido verso gli ebrei della città.”
Emilia Peatini, Olga Blumenthal (1873 -1945). Storie di una famiglia e di una vita, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2018/2019

Da questo insieme di proposte di legge emerge tutta l’articolata visione di Giovanni Preziosi, finalizzata a concentrare nell’Ispettorato ogni aspetto amministrativo inerente alla questione razziale, «esautorando in specifici ambiti i ministeri dell’Interno e delle Finanze e intromettendosi in molte linee gerarchiche del governo e della burocrazia <190». Una tale concentrazione di prerogative non avrebbe mai potuto incontrare il favore degli altri membri del governo, non intenzionati a cedere i propri ambiti di competenza. Pur se fosse riuscito ad appianare i conflitti con i titolari dei ministeri citati poc’anzi, la Repubblica sociale sarebbe stata comunque priva delle facoltà di realizzare una struttura così complessa e pervasiva. La situazione politica di mancato governo del territorio, con un alleato ingombrante a cui dover rispondere, e l’avversione della popolazione, rendono impossibile la realizzazione di un disegno così ambizioso, avente «come obiettivo principale, sempre più chiaro nel corso del tempo, l’arianizzazione completa della cultura e della società italiana, la sua de-giudaizzazione e la sua de-massonizzazione, operazione vista come premessa indispensabile per la costruzione dell’Europa ariana del nuovo ordine europeo <191».
L’accanimento con cui Giovanni Preziosi elabora nei mesi i suoi progetti legislativi sembra non tenere conto della situazione in cui versano gli ebrei sul territorio della Repubblica sociale, con gli arresti e le deportazioni dovuti all’opera congiunta di nazisti e fascisti: si può pensare che rediga norme senza uno scopo, accecato dal fanatismo <192. Ciò di cui bisogna tener conto è che l’antisemitismo nella visione di Preziosi è pietra fondante del nuovo fascismo, il solo modo per epurarlo dagli elementi di corruzione che hanno portato al fallimento del colpo di stato contro Mussolini. Francesco Geminario sottolinea come “Quello del Preziosi della RSI è forse un caso secondario, ma non meno significativo di un antisemitismo che agiva in assenza totale di ebrei, e che anzi traeva la sua propulsione totalitaria da quest’assenza: proprio perché mancavano ormai gli ebrei «visibili», molti erano sospettati di essere ebreizzati, e dunque era necessario inaugurare una fase politica di radicalizzazione in senso antisemita, che scoprisse gli ebrei invisibili e marranizzanti, ovvero tutti coloro che avevano assimilato una cultura e una mentalità ebraiche” <193.
190 Sarfatti, Le leggi antiebraiche proposte nel 1944 da Giovanni Preziosi, cit., p. 169.
191 Raspanti, L’Ispettorato generale per la razza, in La Repubblica sociale italiana a Desenzano, cit., p. 110.
192 F. Germinario, Antisemitismo senza ebrei. I temi dell’attività pubblicistica dell’ultimo Giovanni Preziosi (1943-1945), in La Repubblica sociale a Desenzano, cit., pp. 77-107.
193 Ivi., p. 100.
Sara Garbarino, Op. cit.

Lasceremo qui da parte gli ultimi due punti, riguardanti il sequestro dei beni, in quanto il governo di Salò si occupò nello specifico della questione con il decreto legge n. 2 del 4 gennaio 1944 <126. Ci interesseremo invece alla sorte delle persone, ovvero al loro arresto e al loro invio nei campi di concentramento. Innanzitutto va detto che l’ufficio della Demorazza non diede una risposta immediata, ma aspettò fino al mese di febbraio per inviare il proprio parere a proposito dei quesiti provenienti dalle prefetture della RSI <127. La questione fu dunque affrontata e risolta, sul momento, dal Gabinetto del ministero dell’Interno, dal capo della polizia e dalla direzione generale di PS. Le due circolari del 10 e del 28 dicembre, come abbiamo già visto, furono diramate per ottimizzare l’esecuzione dell’ordinanza n.5: stabilirono l’esenzione dall’arresto degli anziani e dei malati e la permanenza degli internati nei campi di concentramento italiani <128. Nelle settimane successive, tuttavia, il ministero dell’Interno fu chiamato a intervenire su questioni per le quali, sulla carta, vi erano già delle indicazioni cui attenersi, ma che le autorità tedesche non erano intenzionate a osservare: <129 le due circolari integrative dell’ordinanza n. 5 non sembravano, infatti, aver risolto i punti più controversi del problema, ovvero il sequestro dei beni, poi affrontato in maniera specifica da un decreto legge, e la sorte riservata alle famiglie “miste”. Come venne fatto notare al capo della polizia, mentre l’ordinanza del ministro Buffarini Guidi escludeva dall’internamento solo i figli nati da matrimonio misto, il suo telegramma del 10 dicembre esentava dall’invio al campo tutta una famiglia mista, onde evitare di rompere l’unità dei nuclei familiari con l’arresto, ad esempio, di un componente ebreo <130. L’appunto indirizzato a Tamburini si concludeva con una efficace descrizione di ciò che accadeva a livello locale: “D’altra parte pervengono dagli organi periferici numerosi quesiti che, ai fini della perequazione di trattamento, debbono essere risolti non in sede esecutiva di polizia ma in sede interpretativa, e praticamente le autorità germaniche non fanno differenziazioni in materia di età, salute, matrimonio misto e continuano, ad iniziativa dei vari comandi e anche elementi isolati delle forze armate, ad impossessarsi dei beni mobili degli ebrei” <131.
Quest’ultima considerazione non concerneva soltanto l’appropriazione dei beni degli ebrei, ma anche la richiesta di consegna delle persone, destinate in realtà ai campi di concentramento aperti dall’autorità italiana. Era quindi soprattutto di fronte a questa forte ingerenza tedesca che gli organi provinciali continuavano a richiedere al ministero istruzioni precise su come comportarsi.
“Il capo della provincia di Genova ha oggi telegrafato che il Comando locale germanico delle SS ha richiesto la consegna degli ebrei internati in campi di concentramento e chiede istruzioni. Analoghe segnalazioni sono pervenute dalle Autorità di Sondrio, Varese, Piacenza e altre Prefetture della Lombardia e dell’Emilia. In proposito sono già state domandate istruzioni a Maderno [capo della polizia] ma non è ancora pervenuta alcuna risposta. Si segnala l’urgenza di una determinazione, dovendosi corrispondere al più presto alla richiesta, anche ai fini di una direttiva unica sulla soluzione dei quesiti preposti” <132.
Una prima soluzione fu adottata per le province di Sondrio e Varese. Il 14 gennaio, come detto, sia il capo provincia di Varese che la questura di Sondrio chiesero al ministero se corrispondere o meno alla richiesta tedesca di consegna degli ebrei al comando germanico di Milano. Il capo della polizia appuntò a mano sui telegrammi ricevuti: «15/1/44 XXII Telegrafato di prendere accordi con competente comando germanico. Il Capo della Pol. Tamburini» <133.
Questo aspetto è da sottolineare, perché il capo della polizia poté calcolare, prima ancora di prendere provvedimenti che riguardassero l’intero territorio nazionale, gli effetti di una simile decisione a livello locale. Il 16 gennaio, infatti, la questura di Sondrio telegrafò:
“Seguito mio telegramma p.n. del 14 andante diretto Ecc. Capo Polizia Maderno comunico che comando superiore Polizia Germanico habet sollecitato invio tutti ebrei qui concentrati aut vigilati at carceri San Vittore Milano. D’intesa capo provincia ho stamane disposta traduzione detti ebrei at Milano disposizione polizia germanica” <134.
Nei giorni subito successivi, il capo della polizia e il ministro pervennero comunque a una soluzione da trasmettere a tutti i capi provincia: “S.E. il ministro, nell’udienza di iersera [20 gennaio 1944], esaminata la questione ebraica in relazione alla recente ordinanza ha stabilito i seguenti punti: 1- gli ebrei puri italiani o stranieri debbono essere inviati nei campi di concentramento provinciali. Si è riservato, in relazione a richieste pervenute ad alcuni Capi provincia da parte delle autorità tedesche di avere in consegna gli ebrei stessi, di interessare le autorità centrali germaniche perché in conformità del criterio enunciato siano date disposizioni adatte perché gli ebrei permangano nei campi italiani. 2- per quanto riguarda le famiglie miste, l’ecc. il Ministro ha stabilito di soprassedere ad ogni provvedimento per non rompere l’unità familiare […]” <135.
Con due telegrammi trasmessi a tutti i capi provincia della RSI il 22 gennaio 1944, Tamburini ordinò dunque di prendere accordi con i comandi germanici, ai quali andavano spiegate le misure disposte dal Duce <136. Sebbene vi venisse assicurato che le autorità centrali si sarebbero mosse per interessare del problema i vertici tedeschi, la questione della consegna degli ebrei andava risolta principalmente a livello locale. E così fu in effetti. L’esito degli accordi tra capi provincia, questori e comandi germanici non fu ovunque lo stesso e variò da provincia a provincia: non è dunque possibile stabilire una linea di condotta comune a tutto il territorio della RSI. Del resto, la decisione dipendeva ormai non soltanto dal contenuto delle disposizioni italiane, ma anche e soprattutto dalla volontà dei comandi tedeschi di zona.
126 Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Rapporto generale. Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati, Poligrafico dello Stato, Roma 2001; I. Pavan, Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze economiche delle leggi razziali in Italia (1938-1970), Le Monnier, Firenze 2004.
127 ACS MI, PS, Massime R9, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da internare”, gabinetto del ministero dell’interno a direzione generale di PS, trasmessa la risposta della Demorazza in riferimento alla nota del 17 dicembre 1943, 10 febbraio 1944.
128 ACS, MI, PS, A5G II guerra mondiale, b. 151, fasc. 230 “Ebrei”, dispaccio telegrafico del capo della Polizia alle province non occupate, al questore di Roma e p.c. al ministero dell’Interno, Demorazza, 10 dicembre 1943: «In applicazione recenti disposizioni virgola ebrei stranieri devono essere assegnati tutti at campi concentramento punto Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani virgola esclusi malati gravi et vecchi oltre anni settanta (.) Sunt per ora esclusi i misti e le famiglie miste salvo adeguate misure vigilanza»; ACS, MI, PS, Massime (R9 Razzismo), b. 183, fasc. 19 “Ebrei da internare”, il ministro dell’Interno a tutti i capi provincia, telegramma n. 123, 28 dicembre 1943: «Disposizioni emanate con ordinanza di polizia in data primo corrente numero 5 nei confronti degli ebrei non hanno dico non hanno subito alcuna modificazione a seguito delle disposizioni emanate con telegramma dal capo della polizia punto queste ultime disposizioni sono di carattere esecutivo et tendono a stabilire una gradualità nell’invio ai campi di concentramento degli ebrei attesa la necessità di approntare gli alloggiamenti secondo ogni norma igienica e funzionale alt. Ministro Interno Buffarini».
129 ACS MI, PS, Massime R9, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da internare”, appunto della direzione generale della PS, 27 dicembre 1943; Direzione generale della PS, appunto per il Marchese Rolandi Ricci, s.d.
130 ACS MI, PS, Massime R9, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da internare”, appunto per il capo della polizia, 12 gennaio 1944.
131 Ibidem.
132 Ivi, Appunto per il gabinetto dell’Ecc. Il ministro dell’Interno, 16 gennaio 1944.
133 ACS, MI, PS, Massime R9, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da internare”, telegrammi da Sondrio e Varese, 14 gennaio 1944, con appunto scritto a mano del capo della polizia: «15/1/44 XXII Telegrafato di prendere accordi con competente comando germanico. Il Capo della Pol. Tamburini».
134 Ivi, reggente della questura a Capo della Polizia, 16 gennaio 1944.
135 Ivi, promemoria del vice capo della polizia all’ecc. Pagnozzi, 21 gennaio 1944. Sembra che a questa udienza partecipasse anche Mussolini, cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei e l’Italia fascista cit., p. 278.
136 ACS, MI, PS, A5G II Guerra Mondiale, b. 151, fasc. 230 “Ebrei”, il capo della Polizia a tutti i capi provincia e p.c. al vice capo polizia di Roma, telegramma n. 316, 22 gennaio 1944: «Pregasi prendere accordi con Autorità locali germaniche alle quali vanno spiegate le disposizioni impartite per ordine del Duce alt. Conseguentemente fate affluire campo concentramento tutti gli ebrei anche se discriminati alt. Comunicate accordi raggiunti alt. Tamburini Capo Polizia»; ACS, MI, PS, Massime (R9 Razzismo), b. 183, fasc. 19 “Ebrei da internare”, il capo della polizia a tutti i capi provincia, telegramma n. 1412/442, 22 gennaio 1944: «Richiamando precedenti disposizioni informasi che ebrei puri italiani e stranieri devono essere inviati campi concentramento. Verranno interessate autorità centrali germaniche per direttive intese assicurare permanenza ebrei campi italiani. Provvedimento è per ora sospeso per famiglie miste. Circa sequestro beni mobili e immobili saranno emanate ad iniziativa Ministero Finanze opportune norme regolamentari. Capo polizia Tamburini».
Matteo Stefanori, Ordinaria Amministrazione: i campi di concentramento per ebrei nella Repubblica Sociale Italiana, Tesi di Laurea, Università degli Studi della Tuscia, Viterbo, in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, 2011

Le nuove leggi razziali
A partire dall’aprile 1944, Preziosi incarica il giudice Alliney di stendere lo schema delle diverse leggi. Nel corso di colloqui di Preziosi ed Alliney con Mussolini e Pisenti (ministro della Giustizia), le bozze vengono discusse e modificate, fino ad arrivare al 15 maggio alla definizione di un testo provvisorio che viene trasmesso il giorno dopo al Buffarini Guidi. Questi interviene nella formulazione di vari articoli del primo progetto denominato Definizione e differenziazione razziale, forte del fatto che il tema dei matrimoni era rimasto di competenza della Direzione generale per la demografia. Il 17 fa pervenire a Mussolini le sue modifiche, che in seguito vengono discusse e approvate. Le tre bozze di leggi razziali vengono approvate Il primo decreto riguarda la Definizione e differenziazione razziale; il secondo concerne la posizione giuridica degli italiani di sangue straniero o meticcio; il terzo precisa la composizione della Commissione per la razza. L’altra legge sulla massoneria non verrà mai approvata; blocco da parte di Buffarini Guidi che in passato aveva aderito alla massoneria. I testi delle due leggi sulla Definizione e differenziazione razziale Conosciuto il secondo, meno il primo. Il figlio di Buffarini Guidi cercò di evidenziare il contributo del padre per rendere meno radicali le disposizioni della prima versione. In realtà Buffarini Guidi rappresenta solo una variante diversa di razzismo rispetto a Preziosi. I suoi interventi riguardano il tema dei matrimoni e della famiglia. Caso clamoroso di Giorgio Almirante (capo di gabinetto del ministro della cultura popolare Mezzasoma) che dichiarò di aver attivamente ostacolato la pubblicazione delle nuove leggi. In realtà non solo non si oppose alle leggi, ma collaborò alla diffusione dei loro contenuti. Egli, nell’estate del 1944, compilò un progetto di propaganda razziale, per diffondere attraverso la stampa e la radio i contenuti e le finalità delle nuove leggi razziali.
Rapporti con l’Egeli e la questione dei beni ebraici I rapporti tra i due organismi trovarono una esplicita formulazione nel Nuovo Statuto e regolamento dell’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare del 31 marzo 1944, in cui si prevedeva che un componente del consiglio dell’Egeli fosse un rappresentante dell’Ispettorato. Inoltre nel maggio successivo, l’Egeli iniziò ad inviare all’Ispettorato “copia della situazione statistica dei beni ebraici confiscati”. Preziosi non si accontentò di questo, egli mirava ad ottenere il controllo diretto da parte dell’organismo che dirigeva di tutta la questione della confisca e gestione dei beni ebraici. Il tentativo di Preziosi fu bloccato, tuttavia egli continuò a tenere sotto controllo l’operato dell’Ente e dei suoi uomini (es. caso di Martelloni e Morozzi provenienti da Firenze che si sarebbero impossessati di parte dei beni sequestrati agli ebrei a Firenze)
[…] Le leggi antiebraiche proposte nel 1944 da Giovanni Preziosi
Si sottolinea la continuità di impostazione ideologica e pratica tra le posizioni di Preziosi a partire dal 1941-1942 e quelle successive al 25 luglio e 8 settembre del 1943 Rispetto alla normativa precedente, Preziosi nelle sue proposte legislative introduceva:
– Il concetto di “sangue” (già presente nella normativa tedesca);
– Il concetto di “sangue italiano” e di “sangue straniero” (di fatto corrispondente a “ariano” e “non ariano”)
– La categoria dei “meticci”, suddivisi in “di primo grado” e di “secondo grado” (anche questa distinzione era presente nella normativa tedesca);
– L’assegnazione alla categoria di “sangue straniero” di qualsiasi “meticcio” che avesse fatto una qualsiasi “manifestazione di ebraismo”;
– La scheda genealogica individuale, compilata dai comuni e con un controllo da parte del capo della provincia;
– La revisione dei cambiamenti di cognome e delle riclassificazioni razziali effettuate in base ai criteri della precedente normativa antiebraica;
– L’estensione delle norme persecutorie a tutti i “meticci” (questa è l’innovazione principale contenuta nel secondo provvedimento, contemplante anche, ma solo all’inizio, la revoca delle poche esenzioni per i “discriminati” e l’obbligo di un contrassegno);
– L’istituzione di una sezione dell’Egeli per i beni confiscati ai “cittadini italiani di sangue straniero e meticci, presieduta dallo stesso Ispettore generale della razza e dotata di piena “potestà investigativa”;
– La non confiscabilità (a differenza di quanto previsto dal decreto legislativo del gennaio 1944) degli assegni a “carattere alimentare” e delle suppellettili “indispensabili” per la “vita domestica”;
– L’assegnazione all’Ispettorato della competenza sui ricorsi contro la confisca dei beni;
– La creazione di una struttura di Delegazioni regionali e Delegazioni provinciali dell’Ispettorato, le seconde con il compito di vigilare sugli “uffici comunali della razza”.
Secondo l’autore il carattere radicale ed “estensivo” di questi punti, unito all’estrema difficoltà di attuarli nel corso di una guerra e in presenza di una progressiva ritirata, dette modo agli altri gerarchi, e forse alla fine allo stesso Mussolini, di ostacolare e posporre “a guerra vinta” la promulgazione delle leggi di Preziosi. E ciò indipendentemente dalla gradazione antisemita di ciascuno dei protagonisti.
Presentazione del libro: “La Repubblica sociale italiana a Desenzano: Giovanni Preziosi e l’Ispettorato generale della razza. A cura di Michele Sarfatti”, Atti del Convegno organizzato a Desenzano del Garda il 24 gennaio 2007 dal Comune di Desenzano del Garda e dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Editrice Giuntina, Firenze, 2008, Sintesi a cura di Elisabetta Lombi

[…] La persecuzione non cessò neppure quando era già avvenuta la deportazione della maggioranza degli ebrei catturati. Nel progetto di Costituzione della R.S.I., peraltro mai varato, era stato previsto di codificare la condizione di minorità giuridica e di inferiorità razziale degli ebrei elevandone cioè la loro discriminazione al rango costituzionale. Tra gli ultimi atti della R.S.I., in data 16 aprile 1945, un decreto legislativo disponeva lo scioglimento formale delle Comunità, di fatto peraltro già totalmente estromesse, e la confisca dei loro patrimoni, quasi a simboleggiare l’ossessione antisemita di cui si era nutrita la repubblica neofascista.
Sul suolo della penisola furono allestiti quattro campi principali destinati al concentramento degli ebrei come “campi di transito”, verso la deportazione in direzione dei campi di sterminio. Essi furono insediati nelle località di Borgo S. Dalmazzo (in provincia di Cuneo), fu questo il campo che ebbe la vita più breve tra il settembre e il novembre del 1943; di Fossoli nei pressi di Carpi, in provincia di Modena: fu questo il principale dei campi di transito per la deportazione degli ebrei (più di metà di tutti gli ebrei deportati dall’Italia transitò da Fossoli), fu in funzione dal dicembre del 1943 all’agosto del 1944.
A questa data la funzione di Fossoli fu trasferita al nuovo campo di Bolzano – Gries, che funzionò dall’estate del 1944 alla fine di aprile del 1945. Infine, la Risiera di S. Sabba, con la quale siamo arrivati a trattare del Litorale Adriatico. La Risiera di S. Sabba fu il campo che ebbe maggiore continuità operativa, dall’autunno del 1943 alla fine di aprile del 1945, alla vigilia della liberazione di Trieste.
Esso fu l’unico campo allestito in territorio italiano dotato di forno crematorio. Esso non fu prioritariamente campo di sterminio per ebrei, lo fu per alcune migliaia di partigiani e antifascisti italiani e slavi; per gli ebrei funse generalmente da campo di transito alla volta dei campi di sterminio in Germania e in Polonia.
Sebbene non si trovasse sotto la giurisdizione della Repubblica di Salò, da esso transitarono, per ragioni logistiche, i convogli di deportati provenienti oltre che dall’area del Litorale Adriatico dal Veneto e segnatamente da Venezia.
La deportazione degli ebrei dalla Venezia Giulia avvenne in un contesto caratterizzato già dal periodo anteriore all’occupazione tedesca da forti tensioni nazionali e razziali. Le manifestazioni razzistiche contro gli slavi, alimentate dalla politica di snazionalizzazione delle componenti slovena e croata, della popolazione della Venezia Giulia, crearono una atmosfera di predisposizione all’inasprimento anche della campagna contro gli ebrei, che ebbe una recrudescenza tra la primavera del 1942 e quella del 1943.
Il dilagare della guerra partigiana in questa zona dopo l’annessione della Slovenia creò le condizioni per il precipitare della guerra interetnica che era stata anticipata dalla politica fascista. La presenza nel Litorale Adriatico, dopo l’insediamento dell’amministrazione tedesca, del generale delle SS Odilo Globocnik come Capo supremo delle SS e delle forze di polizia di quest’area, non si deve probabilmente ai meriti specifici che agli occhi di Himmler e del vertice nazista egli aveva acquisito come esecutore dell’Aktion Reinhardt in Polonia ossia come esecutore della “soluzione finale” contro gli ebrei polacchi, ma alla sua esperienza militare e alla sua inflessibilità politico-razziale, contro i nemici del Terzo Reich.
Stando a quel manuale della lotta antipartigiana ma anche della politica delle nazionalità del Terzo Reich che è il Bandenkampf, Globocnik doveva essere l’uomo giusto al posto giusto, per gestire i conflitti di un’area che nel progetto geopolitico nazista di ristrutturazione dell’Europa centro-orientale e balcanica, altro non era che un “mosaico” di nazionalità. In questo contesto Globocnik con i suoi collaboratori, offriva tutte le garanzie di esperienza e di efficienza che richiedeva l’asprezza della lotta e la durezza del compito, tanto più che egli doveva riabilitarsi da accuse che ne avevano messo in dubbio la personale correttezza, nel corso dell’opera di annientamento degli ebrei in Polonia e della spoliazione dei loro beni. La radicalità con cui, anche nel Litorale Adriatico, egli realizzò la “soluzione finale”, non fu estranea alla radicalità con la quale egli trasferì metodi da campo di sterminio nella lotta antipartigiana.
Le prime deportazioni da Trieste sarebbero avvenute il 9 ottobre del 1943; il 20 gennaio del 1944 furono deportati i ricoverati all’ospizio Gentilomo. Subito dopo la liberazione la Comunità ebraica di Trieste denunciò la deportazione di oltre un “migliaio” di ebrei; oggi grazie agli studi di Silva Bon, di Liliana Picciotto e di Marco Coslovich, sappiamo che quella cifra oltre ad essere generica è comunque per difetto; da Gorizia ne furono deportati 34, da Udine 37, da altre parti del Litorale alcune altre diecine.
Come per altre aree, un censimento completo e preciso non lo avremo mai. Possiamo constatare soltanto l’impoverimento non soltanto demografico ma anche culturale, che la decimazione delle comunità ebraiche ha comportato, alla luce del livello culturale dei loro membri, della loro partecipazione ai ceti professionisti e alla vita economica delle città.
Una buona metà di tutti i convogli della deportazione, partiti dall’Italia sono partiti da Trieste: pure considerando che essi comprendevano anche deportati provenienti da fuori area Litorale Adriatico, resta il fatto che questa stessa cifra sta a indicare la posizione strategica che la Risiera di S. Sabba assunse tra i campi di transito in suolo italiano, ancorché i convogli fossero trasporti misti di ebrei e di altre categorie di perseguitati dai nazisti.
Anche nel Litorale Adriatico, la persecuzione delle vite degli ebrei fu accompagnata dalla sistematica spoliazione dei loro beni, come hanno bene documentato da ultimo i lavori della Commissione Anselmi e gli studi di Silva Bon. Anche a questo proposito, si verificò un vero e proprio conflitto di interessi tra le superstiti amministrazioni italiane e l’autorità tedesca, dipendente dal Supremo commissario per il Litorale adriatico.
I funzionari italiani che avrebbero voluto applicare il decreto del 4 gennaio 1944 citato in precedenza, si scontrarono con la realtà di una situazione nella quale valevano soltanto le disposizioni tedesche. Ogni norma relativa al sequestro e alla gestione dei beni mobili e immobili degli ebrei, fu avocata dal Supremo commissario, che procedette attraverso una sua apposita Sezione finanziaria, e gli uffici della polizia tedesca alla liquidazione dei patrimoni ebraici. I funzionari italiani, come pure gli uffici finanziari e gli istituti bancari, in quest’area divennero meri strumenti dell’amministrazione tedesca che se ne servì largamente per compiere le azioni esecutive necessarie a realizzare una colossale rapina.
Un complesso meccanismo che portò alla distruzione o alla dispersione di patrimoni privati e di preziose raccolte di interesse culturali (come la biblioteca della Sinagoga di Trieste) e che sfociò in un numero non quantificabile di saccheggi privati.
Come rilevato dalla Commissione Anselmi, le autorità tedesche, allo scopo di conferire una parvenza legale al saccheggio operato con la confisca dei beni, procedettero alla creazione di una società commerciale, la Adria-Gesellschaft, destinata a commercializzare i beni ebraici, dando luogo – sono parole della Commissione Anselmi – a un multiforme sistema affaristico che coinvolse vari settori economici cittadini.
In tale modo lo strumento di confisca assunse una forte rilevanza nella vita di tutta la città, attuando la liquidazione delle attività ebraiche (ditte, negozi, appartamenti), in forma capillare e meticolosa, rendendo assai difficile il loro camuffamento e salvataggio e quindi molto estese le perdite”. Se una conclusione è lecito trarre da queste vicende, essa non riguarda soltanto l’ingente mole di profitti che autorità e privati tedeschi, che individui ed interessi economici italiani trassero da queste ruberie.
La politica razzista del nazismo mirava, con l’estirpazione fisica degli ebrei a distruggerne anche la memoria, come memoria di una parte della nostra stessa civiltà; di cui anche il loro accanimento contro il patrimonio culturale ebraico. Di questa politica, che sfociò in una delle più spaventose stragi della storia umana e nella violazione dei più elementari diritti umani, la Repubblica sociale si fece consapevolmente corresponsabile ed è alla luce di questa corresponsabilità che dobbiamo considerarne il retaggio storico, che va conosciuto ma che non può appartenere ai valori della nostra cultura politica democratica, né ai fondamenti del nostro vivere civile.
A cura di Enzo Collotti, Università di Firenze.
Redazione, La Repubblica sociale italiana e le persecuzioni razziali negli anni 1943-45, Storie dimenticate, 26 settembre 2019

Era il caso di una decina di bande che operavano a Milano, della banda De Sanctis a Ferrara, delle bande che agivano a Roma e delle più note Legione autonoma Ettore Muti e X Mas condotta da Junio Valerio Borghese. Si trattava di una congerie di forze militari del tutto irrilevanti nella guerra contro gli Alleati, ma utili nel sostegno all’esercito tedesco e nel rastrellamento di partigiani e di ebrei. Sul piano più strettamente politico due furono le novità della Rsi. Da una parte, l’accentuazione dei temi della politica sociale permetteva di allargare, secondo Mussolini, il consenso verso il nuovo governo e il nuovo stato. I risultati furono ad ogni modo assai deludenti. Il secondo elemento era costituito da una più decisa politica antiebraica, condotta in perfetta sintonia con la ricerca tedesca della “soluzione finale”. Tra il dicembre 1943 e la fine della guerra, dai territori direttamente sotto il controllo tedesco e dalla Rsi furono deportati 7.013 ebrei, di cui solo 830 si sottrassero alla morte; a questi vanno aggiunti altri 303 trucidati in Italia. Vicino a Trieste, nella Risiera di San Sabba, in territorio controllato dai tedeschi, fu creato l’unico campo di sterminio italiano, in cui furono eliminati centinaia di ebrei e partigiani italiani e jugoslavi.
Giovanni Montroni, Scenari del mondo contemporaneo dal 1815 a oggi, Laterza, Bari, 2005

8566 ebrei ed ebree deportati
Il primo trasporto dall’Italia di deportati e deportate ebrei parte il 16 settembre 1943 da Merano con destinazione Auschwitz; il secondo, del 20 settembre, da Peschiera del Garda è di «politici» (1780 detenuti del carcere militare); del 18 ottobre è quello da Roma, con più di 1000 persone catturate nella retata al ghetto del 16 ottobre. L’ultimo (il ventitreesimo, considerando anche quelli provenienti da zone occupate dall’Italia) è del 22 marzo 1945, diretto a Dachau. Nei venti mesi della Repubblica di Salò, sono 8566 gli ebrei deportati dall’Italia e dal Dodecaneso, nella stragrande maggioranza con destinazione Auschwitz. La loro storia è fra le più tragiche. Collocati nel punto più basso della gerarchia interna, faticano a comunicare anche con i loro compagni dell’Est, mediamente molto più osservanti, portatori di una cultura diversa e abituati a usare la lingua Yiddish sconosciuta agli italiani. Non solo: la maggior parte degli ebrei (come anche dei politici) italiani sono deportati nell’ultima fase della guerra, quando i Lager sprofondano in un caos che provoca la crescita esponenziale della mortalità: delle 490 persone del trasporto per Auschwitz del 22 gennaio 1944 (249 donne e 241 uomini, 118 nati prima del 1885, 31 nati dopo il 1931, fra loro un bambino di due mesi) sopravvivono in 24.
Il ruolo italiano nella deportazione. Il nostro è uno dei Paesi dove lo sterminio, oltre a fare vittime e trovare oppositori, è organizzato e messo in atto. È vero che nelle zone occupate dagli italiani spesso le autorità militari cercano di evitare le deportazioni, sia per motivi umanitari o ideologici, sia come reazione alle intromissioni dei tedeschi. È vero che, in vari casi, singoli e istituzioni si sforzano di ostacolare la macchina repressiva o proteggono i ricercati. Ma ci sono anche delazioni e zelo burocratico; c’è l’iniziativa in prima persona della Repubblica sociale, mentre le polizie statali affiancano spesso tedeschi e corpi di Salò nelle retate e nei rastrellamenti. Non solo: sul territorio nazionale funzionano campi per ebrei stranieri, campi di concentramento e transito come Borgo San Dalmazzo, Fossoli di Carpi, Bolzano, e un campo di eliminazione come la Risiera di San Sabba presso Trieste, dove vengono uccise più di 3000 persone”.
(Anna Bravo, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, I nuovi fili della memoria. Vol. 3. Uomini e donne nella storia dal 1900 a oggi, Nuova edizione, Laterza, Bari 2003, pp.334-335)
Citazione qui ripresa da Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011

Una conferma delle finalità di appropriazione dei beni di ebrei giunge dall’iniziativa della Prefettura di Ancona del 9 maggio 1944. Il prefetto (l’avvocato Aldo Lusignoli, di nomina politica da parte della Rsi) inviò una circolare agli avvocati e notai della circoscrizione, con invito tassativo a voler denunciare depositi, denaro, oro, titoli ed oggetti rari o valori che ebrei arrestati o fuggiti non avevano potuto ritirare. Questo il testo della circolare:
“Mi viene riferito che molti cittadini italiani di razza ebraica negli ultimi anni e precisamente dopo i primi provvedimenti razziali, affidarono per motivi troppo evidenti che reputo inutile precisare, ad avvocati e notai di loro massima fiducia beni consistenti in liquidi, oro, titoli ed oggetti vari di molto valore. Comprendo che molti ebrei riusciti a scansare il campo di concentramento hanno ritirato tutto, ma so anche che molti arrestati o fuggiti immediatamente non hanno avuto la possibilità di ritirare quanto depositato. Invito, quindi, gli avvocati e notai che detengono o abbiamo detenuto beni di ebrei ad inviare dettagliata denunzia a questa Prefettura. Ad esclusivo titolo informativo faccio presente che contro gli inadempienti o reticenti adotterò rigorosamente i provvedimenti di legge”.
L’iniziativa è da ritenersi tutt’altro che sporadica se la si mette in relazione al d.lgs n. 2, del 4 gennaio 1944, che contemplava la confisca di tutti i beni di appartenenti alla “razza ebraica”.
Vi furono anche miserabili profittatori occasionali che, pur non essendo dediti al tradimento e delazione sistematica, cercarono talvolta di barcamenarsi tra l’aiuto disinteressato e l’incidente apparente, deliberatamente abbandonando gli assistiti nelle mani dei fascisti e dei tedeschi, con i quali erano alcune volte collusi. Così lucravano doppiamente, e spesso con larghi margini di guadagno, prima con il prezzo pattuito per l’accompagnamento al confine e poi con la taglia che riscuotevano denunciando i malcapitati ai loro persecutori.
Alle suaccennate spoliazioni più o meno ufficiali di beni degli ebrei se ne sono aggiunte altre sui beni restituiti. Non solo perché tali beni furono restituiti solo parzialmente (a causa della documentazione dispersa e delle appropriazioni più o meno “belliche”), ma anche per le beffe di richieste di rimborso delle spese di gestione da parte dell’ente gestore (Egeli) e delle banche depositarie, per un ammontare complessivo (al 1947) di oltre 25 milioni. In ogni caso, i beni non rivendicati dagli ebrei scomparsi furono definitivamente incamerati.
Riccardo Chieppa, Persecuzioni razziali (1939-1945): episodi di speculazione e meschini profittatori in (a cura di) Antonella Meniconi e Marcello Pezzetti, Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, Consiglio Superiore della Magistratura – Consiglio Nazionale Forense, 2018