La Resistenza in Val Sangone ed in Alta Valle Susa

Uno scorcio di Val Sangone – Fonte: Laboratorio Val Susa

Sotto la guida del Maggiore degli Alpini Luigi Milano, il 9 settembre [1943] si raccolgono nella vallata [del Sangone] i primi gruppi partigiani. Affluiscono, fra gli altri, Franco e Giulio Nicoletta, Eugenio Fassino, Sandro Magnone, Paolo Morena, Francesco Caparello, i giovani ufficiali Cantelli e Bertolani, ed ex prigionieri alleati (sovietici e inglesi). Inizia un’attiva partecipazione dei civili alla costruzione della Resistenza locale. Per Coazze la figura preminente è quella di Enrico Valobra, industriale torinese del settore dell’abbigliamento di religione ebraica, sfollato con la famiglia a Coazze. Per Giaveno il notaio Guido Teppati. Anche il clero locale fornisce un valido contributo. Il 23 settembre i tedeschi effettuano il primo rastrellamento, nei venti mesi successivi ne effettueranno 27. Le prime vittime degli attacchi tedeschi sono il pittore giavenese Maurizio Guglielmino, ucciso nella sua casa di villeggiatura al Colletto del Forno, e una giovane valligiana sordomuta, Avellina Ostorero (detta Evelina), che non si era fermata all’intimazione di alt di una pattuglia. Questi primi episodi di barbarie suscitano nella popolazione una ondata di sdegno e consolidano i sentimenti di solidarietà verso i partigiani, anche perché la guerra, prima percepita come un fatto grave ma lontano, diventa ora una realtà vicina e minacciosa. Le prime bande partigiane si dispongono al Ciargiur (Maggiore Milano), alla Dogheria (Cantelli – Bertolani), al Palè ( Nicoletta – Fassino). La cattura del Maggiore Luigi Milano (22 ottobre) non interrompe i riusciti attacchi ai presidi e depositi tedeschi.
Arriva, inviato dal CLN, un nuovo comandante, il maggiore Torchio (che prende il nome di battaglia di “Verde”) ma i partigiani, uniti in un solo gruppo guidato da Giulio Nicoletta, si sono trasferiti in Valle di Susa per sfuggire al rastrellamento del 13 novembre 1943. Dopo alcune settimane, rientrano in valle e a Ca’ Tessa si dividono in quattro gruppi. Tre giovani ufficiali degli Alpini, che erano stati chiamati dal maggiore Milano, loro comandante nell’esercito regolare, assumono il comando di tre gruppi, il quarto resta a Nicoletta. Nascono le bande “Sergio” (De Vitis), “Nino” (Criscuolo) , “Carlo” (Asteggiano) e “Nicoletta”. Si estende nella valle l’influenza delle bande, sorrette da gruppi di Resistenza civile. Il podestà di Giaveno, Giuseppe Zanolli, svolge un ruolo di mediazione volto a tutelare la popolazione.
La vallata è ormai sotto il controllo delle forze partigiane, dopo l’eliminazione di gruppi di rapinatori (che talvolta si autodefinivano partigiani) e di squadristi fascisti.
I partigiani, a cui si è nel frattempo aggregato Guido Quazza, studente universitario e futuro storico, si dislocano sulle montagne di Cumiana (Moncalarda, Verna e Morelli) ed iniziano operazioni anche nella pianura del pinerolese.
Ingrossate dall’afflusso dei renitenti alla leva fascista, le bande raggiungono la consistenza di alcune centinaia di uomini ed includono gruppi di ex prigionieri di varie nazionalità: sovietici, polacchi, cecoslovacchi nonché qualche angloamericano. Pur nell’ambito ristretto della val Sangone, si tratta di un esempio significativo di unità sovranazionale della Resistenza. Il maggiore Torchio viene sostituito dal tenente di vascello Paventi (“Argo”) nel comando ufficiale delle formazioni della valle. Ma va detto che questi graduati, che pur tengono i rapporti con il CLN di Torino, non esercitano un comando effettivo. I partigiani scelgono sul campo, e in modo autonomo, i loro comandanti, praticando una sorta di democrazia diretta. I problemi organizzativi, di alimentazione, di equipaggiamento ed armamento diventano sempre più gravi ed impongono soluzioni drastiche. L’appoggio agli scioperi del marzo 1944 da parte delle formazioni della Val Sangone è rilevante.
Ecomuseo della Resistenza di Coazze

I comandanti Ettore Serafino e Giulio Nicoletta in Val Sangone – Fonte: Partigiani d’Italia

[…] Nei primi mesi del 1944 le formazioni aumentarono di numero, le nuove reclute si distribuirono tra le varie bande. Ai fratelli Nicoletta si aggregarono le reclute provenienti da Orbassano, Beincaso, Grugliasco e Volvera. Ben presto l’assenza sul territorio di poteri pubblici capaci di garantire l’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia comportò il diffondersi di fenomeni delinquenziali. Di fronte a questa situazione le brigate partigiane cominciarono ad occuparsi di questioni relative all’ordine pubblico, accreditandosi in questa maniera agli occhi della popolazione come garanti della sicurezza, ma anche di epurare gli elementi che dentro le formazioni avevano comportamenti indegni. Il 9 febbraio 1944 i fratelli Nicoletta e alcuni uomini di Sergio De Vitis intervennero presso il Santuario di Trana per mettere fine alla mancanza di ordine causata da una cattiva amministrazione da parte del locale commissario del fascio repubblicano Marcello Martinasso. Quest’ultimo aveva addirittura assoldato un gruppo di delinquenti che commetteva violenze e furti. Alle ore 14, mentre una parte degli uomini di De Vitis erano rientrati, i partigiani, guidati dai fratelli Nicoletta, attaccarono un camion guidato da Martinasso con altri uomini a bordo. Alla fine del conflitto tutti gli occupanti del camion persero la vita e anche Giulio rimase ferito alla schiena. Tra le vittime anche un contadino che ebbe la sfortuna di aver chiesto qualche momento prima al camion un passaggio. La morte del contadino colpì i partigiani che come ricorderà lo stesso Giulio Nicoletta si recarono a spiegare alla famiglia che avevano agito pensando non ci fossero nel camion altre persone oltre agli uomini di Martinasso. Nonostante questi incidenti le formazioni godevano di un diffuso sostegno sociale. Lo stesso Nicoletta ricorderà, successivamente alla guerra, che senza l’aiuto logistico e materiale della popolazione non avrebbero potuto reggere quei lunghi mesi di resistenza […]
Giuseppe Ferraro ed Elisa Conversano, Giulio Nicoletta: resistenza-esistenza di un comandante partigiano calabrese, in «Rivista calabrese di storia del ’900», 1, 2016

Sull’onda del nuovo slancio favorito dalla situazione generale, verso la metà di giugno, giunse al Comando militare della Val di Susa dal Cmrp la disposizione di compiere una serie di attacchi per alleggerire la pressione tedesca nei confronti degli Alleati, che stavano subendo un rallentamento in Italia centrale. Il Cln sperava che la ripresa in grande stile e coordinata dell’offensiva partigiana nelle zone occupate avrebbe obbligato i nazifascisti a distogliere truppe da inviare sui diversi fronti di guerra per impegnarle nella guerra alle bande. I comandi delle brigate Garibaldi della bassa Val di Susa decisero allora di pianificare un attacco coordinato che coinvolgesse le formazioni delle valli confinanti come la Val di Lanzo, la Val Chisone e le formazioni Autonome della Val Sangone. Queste ultime dopo un terribile rastrellamento subito in maggio si erano unificate, il 12 giugno, nella brigata Autonoma Val Sangone comandata da Giulio Nicoletta <212. Una delegazione dei garibaldini della Valle di Susa contattò il comandante Nicoletta: “venne da me Maiorca, un combattente della guerra di Spagna che comandava la “Felice Cima”. Parlò a nome del comitato di Torino, dicendo che dopo la presa di Roma anche il Piemonte doveva fare qualcosa e che erano necessarie delle azioni per sostenere lo sciopero delle fabbriche torinesi. Io convocai i comandanti delle nostre formazioni e Fassino e De Vitis mi dissero che loro stavano già preparando delle azioni al dinamitificio Nobel-Allemandi e alla polveriera di Sangano, per le quali avevano fatto dei sopralluoghi. Insomma, c’erano le condizioni per coordinare le varie forze ed io, da parte mia, avevo sempre sostenuto l’importanza dell’unità d’azione” <213.
All’offensiva partigiana, sollecitata dal Cln, faceva riscontro la lotta operaia.

[NOTE]
212 Gianni Oliva, La Resistenza alla porte di Torino, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 187-203; Giulio Nicoletta: nato a Crotone (Cz) il 21.08.1921, residente a Giaveno (To) in via XX Settembre 12, professione studente. Appartenente all’Arma della Fanteria 1° Reggimento Carristi con grado di Sottotenete. Partigiano dal 11.09.1943 al 08.06.1945. Dal 11.09.1943 al 05.06.1944 nella banda Palè con grado di comandante di banda; dal 05.06.1944 al 08.06.1945 brigata Autonoma Val Sangone con grado di comandante di divisione, dal database del partigianato
213 Ivi, cit., p. 221; Eugenio Luciano Fassino: nome di battaglia “Geni”, nato a Avigliana (To) il 10.03.1923, residente a Avigliana in via Pinerolo 8, professione studente. Partigiano dal 10.09.1943 al 07.06.1945 nella brigata F. Gallo. Dal 10.09.1943 al 01.11.1944 con grado di comandante di squadra; dal 01.11.1944 al 01.03.1944 con grado di comandante di plotone; dal 01.03.1944 al 07.06.1945 con grado di comandante di brigata; Sergio De Vitis: nato a Lettopalene (Ch) il 07.04.1920, residente a frossasco (To) in via Pascarenghi 14. Appartenente all’Arma della Fanteria 3° Reggimento Alpini brigata Valle con grado di Sottotenente. Partigiano dal 08.09.1943 al 26.06.1944 nella brigata Magnoni con grado di comandante di brigata. Deceduto il 26.06.1944 in combattimento nel comune di Sangano, dal database del partigianato

Marco Pollano
, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

Cumiana fu teatro del più grave eccidio commesso contro i civili in provincia di Torino. Il 31 marzo 1944 reparti delle SS italiane arrivarono in paese: per le bande partigiane della val Sangone un presidio fascista a Cumiana significava l’interruzione della strada principale per gli approvvigionamenti e i collegamenti con la pianura. La mattina del 1° aprile i partigiani attaccarono le SS italiane nella piazza del comune. Colte di sorpresa, queste lasciarono sul campo 1 morto e 18 feriti: 32 SS italiane e 2 sottufficiali tedeschi si arresero ai partigiani che li fecero prigionieri. Alle 14 dello stesso giorno Cumiana venne occupata da tedeschi e repubblicani provenienti da Torino e Pinerolo: tutti gli uomini presenti – 150 – furono rastrellati e portati al Collegio salesiano mentre le case da cui i partigiani avevano sparato vennero incendiate. I tedeschi chiesero la restituzione dei prigionieri pena la fucilazione degli ostaggi. I partigiani fecero una controproposta: era la prima volta, infatti, che in Piemonte si proponeva uno scambio con i civili e le formazioni delle valli non ritennero fondata la minaccia di ritorsione contro gli abitanti di Cumiana. Dalle testimonianze si evince peraltro che gli stessi cumianesi rastrellati non erano particolarmente preoccupati. Il 2 aprile il tenente della Wehrmacht Anton Renninger diede l’ultimatum: entro le 18 del 3 aprile i prigionieri tedeschi dovevano essere liberati, altrimenti i civili in ostaggio sarebbero stati uccisi. Quando però gli ambasciatori tornarono a Cumiana per comunicare l’esito positivo delle trattative, l’ordine era già stato eseguito. 51 dei 58 uomini prelevati furono uccisi con un colpo alla nuca dietro la cascina Riva d’Acaia, appena fuori dal paese. Il giorno seguente i comandanti partigiani della val Sangone consegnarono i prigionieri al generale Hansen.
AA.VV., Il Piemonte nella guerra e nella Resistenza: la società civile (1942-1945), Deliberazione della Giunta Regionale del Piemonte 31 luglio 2015, n. 2-1929

Il 12 giugno 1944 si tenne alle porte di Coazze una riunione tra i capi partigiani della valle. Già da qualche tempo si era fatta strada l’esigenza di unificare le varie bande sotto un unico comando. Le bande avevano sempre agito in modo autonomo e senza coordinamento, diminuendo in taluni casi l’efficacia delle proprie azioni. Il collegamento tra il Cln di Giaveno e le forze partigiane sul campo risultava difficile a causa delle difficoltà a interfacciarsi con i vari capi banda.
In quella riunione, che durò l’intera giornata, si sancì la nuova struttura organizzativa del movimento resistenziale della valle. Le bande dei primi mesi diventavano la Brigata Autonoma Val Sangone, con un comando unico e rappresentativo, che fu affidato a Giulio Nicoletta. Le formazioni che ne facevano parte erano cinque: la banda “Sergio”, comandata da Sergio De Vitis, la “Frico”, comandata da Federico Tallarico, la “Carlo Carli”, comandata da Eugenio Fassino, la “Campana”, con a capo Felice Cordero di Pamparato, e la “Nino-Carlo”, comandata da Nino Criscuolo e Carlo Asteggiano. Il comandante Giulio Nicoletta piuttosto frequentemente si fermava a dormire nottetempo nella casa di Piero P., a Bruino, in tutta segretezza e con la complicità degli abitanti del borgo storico, i quali non tradirono mai il loro concittadino. Risultò particolarmente interessante, per Bruino, la figura di Piero P., che nei venti mesi della Resistenza svolse attività di basista e di coordinatore tra il paese e l’attività partigiana. Numerosi sono i documenti controfirmati da P. che riguardano le derrate alimentari consegnate ai partigiani della De Vitis. Fu membro del Cln di Bruino (Partito d’azione) insieme a Giuseppe T. (Partito socialista), che esercitava la carica di presidente, Luigi L. (Democrazia cristiana), Massimo R. (Partito comunista) e Piero M. (Partito liberale). 3 Confini

Comunque, seppure in queste difficili condizioni e nonostante l’arrivo di notizie sempre più negative sull’andamento della guerra, la vita dei valligiani proseguì abbastanza regolarmente fino quasi alle fine del 1942. A partire dal mese di novembre, infatti, i bombardamenti delle forze anglo-americane su Torino si fecero molto più frequenti e distruttivi (solo tra il 19 novembre ed il 9 dicembre si contarono ben cinque incursioni aeree) tanto da costringere molti abitanti del capoluogo piemontese a prendere la non facile decisione di abbandonare le proprie abitazioni per trasferirsi temporaneamente in luoghi più tranquilli, al riparo dalle bombe. Alcuni di loro scelsero di sfollare nelle campagne, altri in zone montane e, tra questi ultimi, non furono pochi coloro i quali scelsero proprio la Val Sangone. Tra questi vi erano sia quei villeggianti abituali che, benestanti, possedevano già una casa in zona sia numerosi altri sfollati che, invece, pur non avendo legami con la valle, la scelsero per le sue favorevoli caratteristiche di logistica (relativa vicinanza con Torino, buona rete di comunicazioni) […] La prima conseguenza dell’armistizio fu la dissoluzione del regio esercito e lo sbandamento dei suoi soldati, lasciati senza ordini precisi. Molti dei combattenti impegnati al fronte vengono rastrellati dai tedeschi e condotti in Germania, dove, alcuni di essi, lì trattenuti come internati militari (I.M.I.), svilupperanno importanti atteggiamenti di resistenza passiva. Coloro i quali non vengono catturati, invece, cercano – tra molte difficoltà – di raggiungere i propri luoghi di origine. Spesso molti di essi, proprio per evitare di essere catturati, cercano rifugio in zone più isolate (nelle vallate alpine o appenniniche) dove possono trovare un iniziale riparo da tedeschi e fascisti. Allo stesso modo che in altre zone montane, anche in Val Sangone, subito dopo l’8 settembre, iniziarono ad arrivare i primi soldati sbandati. Come già avvenuto con gli sfollati, anche questa volta gli abitanti della valle non esitarono a mostrare la propria solidarietà prodigandosi nell’aiutarli e nel proteggerli (donandogli cibo e vestiario oppure offrendogli ospitalità), mossi anche da una sorta di identificazione di questi giovani con i propri figli o mariti dispersi sui diversi fronti di guerra. Un abitante di Coazze così testimonia: «Rammento che dove abitavo insieme alla mia famiglia, in cinque o sei giorni arrivarono una ventina di sbandati. Fummo lieti di aiutarli, nessuno si è mai rifiutato di farlo».[12] La provenienza dei militari sbandati è varia: la maggior parte di essi sono piemontesi – e tra questi non sono pochi i nativi della Val Sangone – ma un numero consistente è originario delle altre regioni italiane, in particolare di quelle del Centro e del Sud Italia (soprattutto Sicilia e Calabria). Accanto a questi giungono in valle anche numerosi soldati stranieri – in particolare cecoslovacchi e russi – che saranno tra i primi ad entrare nelle fila della Resistenza. Tra i militari che giungono in Val Sangone dopo l’8 settembre vi anche un maggiore del corpo degli Alpini, Luigi Milano, destinato a diventare una delle più importanti figure della Resistenza locale nonché il primo comandante dei partigiani della valle. Nato nel 1909 a Lanciano (Chieti),[13] Luigi Milano è figlio di Francesco – professore e storico – e di Luigia Breber. Dopo il conseguimento del diploma di maturità classica entra come allievo ufficiale nella Reale Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena e, alla fine dei corsi propedeutici e del biennio della Scuola di Applicazione, il 7 luglio 1931 Milano è assegnato al 7^ reggimento Alpini con il grado di sottotenente. Nel 1935 parte volontario per l’Africa Orientale dove, dopo una permanenza di tre anni, viene rimpatriato e decorato con la Croce di Guerra al valor militare. Dopo lo scoppio della guerra Milano è impegnato dapprima in Francia (dove però rimarrà nelle retrovie e non prenderà parte ai combattimenti) e successivamente in Albania, dove viene ferito ed è quindi costretto a ritornare in Italia e ricoverato all’ospedale di Imola. Dopo alcuni mesi, ripresosi completamente, viene assegnato al battaglione «Val Chisone» ed inviato in Montenegro (dove avrà ai suoi ordini, come sottotenenti, Nino Criscuolo e Sergio De Vitis futuri importanti elementi della Resistenza in Val Sangone) dove rimarrà fino alla fine del 1942 ed otterrà la promozione a maggiore. Nel luglio del 1943 il maggiore Milano si trova in Liguria, dapprima a Genova (dove, con il suo battaglione, è assegnato al mantenimento dell’ordine pubblico) e successivamente nell’entroterra di La Spezia. Si trova qui anche l’8 settembre, e, nei giorni successivi all’armistizio decide di sciogliere il proprio reparto e di lasciare i suoi uomini liberi di scegliere se ritornare a casa oppure se iniziare una nuova lotta contro i tedeschi. Ai volontari indica di seguirlo in provincia di Torino, nella zona di Giaveno e ad Avigliana, dove prima della guerra aveva intessuto numerosi rapporti di amicizia (su tutti quello con Italo Allais, proprietario dell’albergo “Lago Grande” ad Avigliana). Il 12 settembre Milano, affiancato da una decina di uomini, giunge ad Avigliana, e si sistema presso l’albergo dell’amico che, da quel momento, diventerà importante riferimento per i contatti con la pianura. Due giorni dopo il maggiore ed i suoi uomini si spostano nella zona di Monterossino, sulle alture di Giaveno, dove iniziano a reclutare i primi soldati sban​dati. Sarà proprio l’esperienza militare di Milano a risultare decisiva nell’organizzazione del nascente movimento resistenziale in Val Sangone, che, in poco tempo, verrà trasformato da piccolo gruppo poco numeroso e male organizzato ad efficiente organizzazione militare guadagnandosi così fama e rispetto tra gli abitanti della valle. In questo primo periodo la politicizzazione della Resistenza locale è ancora molto debole, e lo stesso Luigi Milano – non politicamente schierato -preferisce essere autonomo rispetto ai partiti politici, al fine poter sviluppare al meglio la lotta ai nazi-fascisti sul piano militare, quello a cui è più interessato. Un aneddoto esemplifica al meglio questo atteggiamento del maggiore: secondo quanto raccontato dal partigiano Bartolomeo Romano, ad uno sconosciuto che un giorno gli si presentò davanti offrendosi come commissario politico il maggiore avrebbe risposto «non abbiamo bisogno di nessun commissario politico, qui la politica non c’entra. Abbiamo un tricolore e basta».[14] Tra settembre ed ottobre arrivarono in Val Sangone numerosissimi militari sbandati che avevano avuto notizia della formazione delle prime bande nella zona. Tra questi c’è Eugenio Fassino, uno studente universitario originario di Avigliana, che solo per un caso fortuito (la mancanza di aerei) era potuto rimanere a casa evitando l’arruolamento al corso allievi ufficiali piloti di complemento a Pescara. All’arrivo dei tedeschi in città, assieme ad alcuni compagni, decide di rifugiarsi in montagna. Fassino, come molti altri giovani intellettuali cresciuti sotto il fascismo, ha in questo periodo un’idea ancora molto vaga dell’antifascismo che maturerà gradualmente soltanto durante i venti mesi della lotta partigiana. Tra i primi ad entrare nelle fila della Resistenza locale vi sono anche degli ufficiali di carriera. Carlo Asteggiano, un cuneese classe 1921, già sottotenente nella divisione alpina «Punteria» di stanza in Francia, nonché Giovanni (Nino) Criscuolo e Sergio De Vitis, che avevano raggiunto la valle al seguito del maggiore Milano già loro comandante nel battaglione «Val Chisone». Tra gli sbandati che arrivano in valle in questo periodo c’è anche Giulio Nicoletta (che vi giunge insieme al fratello maggiore Franco), che diverrà una delle figure di maggior spicco della Resistenza locale. Nato a Crotone nel 1921 e con una cultura liceale alle spalle, è sottotenente dei carristi a Vercelli. All’inizio della guerra convinto interventista, con il passare dei mesi Nicoletta inizia a maturare dei dubbi sia sulla liceità del conflitto sia sul fascismo stesso e sulle sue imposizioni dogmatiche. Anche il fratello Franco, che come brigadiere della Guardia di Finanza si era trovato a combattere in Jugoslavia contro i partigiani di Tito ed aveva visto i brutali metodi usati dall’esercito italiano per sradicare le bande, profondamente provato da quella esperienza, iniziava a prendere le distanze dal regime. All’indomani dell’8 settembre i due, impossibilitati come moltissimi altri militari del Sud a fare ritorno a casa, decidono di continuare la guerra contro i tedeschi spostandosi verso la montagna ed aggregandosi alla formazione del maggiore Milano. Inizialmente i fratelli Nicoletta fanno sosta a Bruino dove si fermano una decina di giorni riuscendo a reclutare un gruppo di giovani del luogo disposti a seguirli in montagna. Il 23 settembre il gruppo risale la valle e, cercando di evitare i centri abitati, raggiunge la borgata di Indiritto dove – alla presenza del maggiore Milano – i fratelli Nicoletta ed i loro compagni entrano nelle fila della Resistenza. Quello stesso giorno le truppe tedesche (giunte a Giaveno il 19 settembre) compiono, sebbene il podestà Zanolli tenti di scongiurare un’azione di forza, il primo rastrellamento in valle. A sera si conteranno due morti, le prime vittime della Resistenza in Val Sangone. Sono Maurizio Guglielmino, un pittore giavenese ucciso da una raffica di mitra presso il suo villino al colletto del Forno, ed Evelina Ostorero una diciottenne sordomuta di Forno che subì la stessa sorte perché non si era fermata di fronte ad una pattuglia[15]. Si tratta di due uccisioni quasi certamente casuali (Guglielmino, nonostante avesse simpatie socialiste, non aveva alcun contatto con i partigiani) che avevano solamente l’obiettivo di spargere il terrore tra la popolazione ed indurla a non aiutare i «ribelli». Invece, contrariamente a quanto auspicato dai tedeschi, questi barbari episodi non fecero altro che confermare e consolidare quei sentimenti di solidarietà e vicinanza ai partigiani già insiti nei valligiani. La presenza delle truppe nazi-fasciste in valle (sebbene il rastrellamento del 23 settembre non avesse coinvolto direttamente i partigiani) divenne anche l’occasione per fare una prima selezione nei ranghi della Resistenza. Bisognava infatti capire quali fossero le reali intenzioni di chi era salito in montagna dopo l’8 settembre, iniziando a fare una distinzione fra quelli si erano rifugiati lì solamente per avere un riparo temporaneo che gli consentisse di sfuggire alla cattura nell’attesa di riprendere la via di casa, e gli altri che avevano scelto di intraprendere la lotta partigiana spinti da reali motivazioni. Bisognava inoltre vagliare chi di loro fosse in possesso di quelle qualità fisiche e morali (nonché di una notevole capacità di adattamento) indispensabili per sopportare la dura vita in montagna ed i combattimenti con il nemico che presto sarebbero arrivati e che, certamente, sarebbero stati differenti da quelli che molti di essi avevano sperimentato con l’esercito regolare. I primi a tornare a valle sono alcuni ufficiali che avevano seguito il maggiore Milano dopo l’8 settembre e che, pur in quella precaria situazione, avevano cercato di ricreare l’ambiente dell’esercito regio con i suoi rapporti gerarchici e le sue iniquità. Il giorno del rastrellamento, intimoriti dall’avvicinamento della colonna tedesca, avevano deciso di darsi alla fuga, invitando anche i loro uomini a fare lo stesso. Scrive Eugenio Fassino nel suo diario: «all’accampamento regna la confusione e l’orgasmo, gli ufficiali non si sono dimostrati all’altezza della situazione: uno, saputo che c’erano i tedeschi, ha detto ai ragazzi “non possiamo resistere, andiamocene via”. Il tenente Chiodi è sparito fregando il mitra a Ferruccio, qualcuno ha fregato gli zaini, le mie maglie le ha prese il tenente di prima»[16]. Sia Chiodi che un altro tenente, Colombo, non faranno più ritorno in Val Sangone. Le fila partigiane, intanto, si erano ulteriormente ingrossate accogliendo nuove leve, tra le quali numerosi giovani della valle. A seguito di questo aumento numerico (si contano circa duecento uomini ad inizio ottobre) per evitare di essere facilmente bersaglio di rappresaglie ed attacchi, il maggiore Milano decise dividere i propri uomini in tre formazioni, dislocandole rispettivamente al Ciargiour (con a comando lo stesso maggiore), al Palè (con Giulio Nicoletta ed Eugenio Fassino) e a borgata Dogheria (con gli ufficiali carristi Cantelli e Bertolani). Anche il comando viene trasferito, a borgata Indiritto. Da queste prime decisioni di Milano si evidenzia subito uno dei caratteri distintivi dell’esperienza resistenziale (non solo in Val Sangone) come esperienza di democrazia concreta e spontanea. All’obbedienza gerarchica, tratto distintivo del fascismo, si sostituiva una diversa concezione sociale dove l’autorità e l’autorevolezza del singolo non provenivano più da un grado o da un titolo bensì dalle capacità dimostrate sul campo. Ricorda un testimone: «non era come in guerra, dove c’è chi sta dietro e chi va avanti e farsi ammazzare. Lì contavamo tutti uguali, né più né meno».[17] E Giulio Nicoletta aggiunge «quando mi destinò al Palè, un paio d’ore dopo la mia presentazione, [Milano] non mi disse “vai a comandare il gruppo”, ma mi chiarì subito le idee “vai al Palè e datti da fare”, quindi non aveva chiusure da casta militare».[18] In questo stesso periodo iniziavano anche i primi contatti con personalità della società civile della zona. Occorreva infatti individuare utili punti di riferimento per il movimento partigiano nonché soggetti in grado di fornire aiuti economici al fine di garantire la sopravvivenza delle bande. Un primo incontro con il podestà di Giaveno Zanolli si conclude – secondo quanto scrive lo stesso funzionario nel suo diario – con un accordo condiviso su tutti i punti esposti dal maggiore Milano. Esito positivo ha pure un successivo abboccamento fatto con Guido Teppati, un notaio torinese antifascista che dopo l’8 settembre si era rifugiato a Giaveno, dove – pur continuando ad esercitare la sua professione – non aveva esitato ad aiutare, insieme alla moglie Mimì, gli sbandati donando loro cibo e vestiario. Figura importante è anche Enrico Valobra, un industriale torinese di religione ebraica attivo nel settore dell’abbigliamento che si trovava a Coazze come sfollato. Valobra non esiterà ad aiutare la Resistenza concedendo al maggiore Milano l’utilizzo di una baita di sua proprietà al Ciargiour (la prima sede del comando partigiano in valle). Anche alcuni esponenti del clero locale venivano contattati. Il parroco di Avigliana, don Menzio, forniva al movimento la considerevole somma di 150.000 lire. Accanto a questi contatti con importanti personalità che potessero fornire aiuti economici e logistici, Milano ed i suoi uomini si trovarono davanti ad un’altra fondamentale necessità: la mancanza di armamenti. Al momento del loro arrivo in Val Sangone come soldati sbandati, i futuri partigiani erano poco e male armati (qualche pistola, al limite dei fucili) e lo stesso maggiore era giunto ad Avigliana con un gruppo di uomini praticamente senza armi. Parziale eccezione per i tenenti carristi Umberto Cantelli ed Oliviero Bertolani giunti in valle con i loro mezzi corazzati. Proprio il possesso di questi due carri armati aveva fatto nascere leggende sul conto dei partigiani e lo stesso Giulio Nicoletta, ancora prima di entrare nei ranghi della Resistenza, aveva sentito voci riguardanti «un reparto regolare, che era attestato nella zona di Forno, al comando di un maggiore, che disponeva di mezzi corazzati e dove si raccoglievano gli sbandati».[19] Ovviamente non era così ed i due carri armati, che comunque sarebbero stati di difficile manovrabilità in un contesto di guerra partigiana in montagna, non vennero mai usati in combattimento perché, scoperti dai tedeschi nel corso del rastrellamento del 23 settembre, furono da questi disattivati e fatti scendere nel greto del Sangone rendendoli così inutilizzabili. Non è un caso, quindi, che la prima azione di una certa rilevanza compiuta dai partigiani della Val Sangone fosse destinata ad un luogo dove ci si poteva facilmente procurare delle armi: la caserma dei carabinieri di Avigliana. Il «colpo», raccontato nei particolari da Eugenio Fassino nel suo diario, fruttava dieci moschetti, otto fucili mitragliatori, giberne, caricatori, cassette di munizioni e bombe a mano. A questo punto era ormai chiaro anche ai tedeschi che il nascente movimento resistenziale ed in particolare il maggiore Milano (la figura più autorevole che, con la sua esperienza e con il suo carisma, del movimento era elemento portante) era un problema non di poco conto. La sera del 22 ottobre il maggiore Milano si trova ad Avigliana, presso l’albergo “Lago Grande” di proprietà dell’amico Italo Allais. Con lui, oltre ad Allais ed alla moglie, la sua fidanzata Elia Cargnelutti ed alcuni imprenditori sfollati lì convocati dallo stesso maggiore per discutere su eventuali finanziamenti al movimento. Verso le 21.30, si sentono dei rumori provenire dall’esterno, Milano fa appena in tempo a rifugiarsi in cantina che d’improvviso la porta si spalanca ed entrano un gruppo di tedeschi seguiti da un interprete. Quest’ultimo chiede dove si trovi il maggiore Milano e, al silenzio dei presenti, i soldati portano fuori due di loro sparando dei colpi di avvertimento e minacciando anche di uccidere la moglie ed i figli di Allais se non avessero rivelato dove si nascondesse il maggiore. Sentite queste ultime minacce Milano decide di consegnarsi e viene arrestato. Eugenio Fassino, uscito dall’albergo pochi attimi prima dell’arrivo dei tedeschi, riesce a sottrarsi alla cattura nascondendosi bocconi sulla riva del lago. Dopo un brutale pestaggio il prigioniero viene condotto in carcere a Torino dove subirà numerose torture (fra cui la compressione del torace con due piastre metalliche che gli procurerà l’introflessione di tre costole ed una cancrena ai polmoni) che lo ridurranno quasi in fin di vita. Ritenuto ormai inoffensivo viene rilasciato nell’aprile 1944 ma dopo pochi mesi, a causa di una tubercolosi polmonare, deve essere ricoverato presso il sanatorio di Cuasso al Monte, vicino a Varese. Completamente minato nel fisico Luigi Milano trascorrerà gli ultimi anni di vita accanto alla moglie Elia (sposata nel settembre 1945) senza più riuscire a riprendersi. Morirà a Roma il 4 giugno 1951 all’età di quarantuno anni. L’amico Italo Allais (arrestato qualche giorno dopo il maggiore e rilasciato nel marzo 1944) gli rimarrà sempre vicino e – nel corso degli anni – i due si scambieranno una fitta serie di missive. Nella notte tra il 22 ed il 23 ottobre, intanto, i militari tedeschi si recavano anche a Coazze per arrestare Enrico Valobra, accusato di collaborazionismo con i partigiani. Dopo alcuni mesi di detenzione a Torino, l’industriale verrà condotto nel campo di prigionia di Gusen I dove, internato come prigioniero politico, morirà il 23 marzo 1945. Entrambe le azioni (l’arresto di Milano e quello di Valobra) erano evidente frutto di delazione. Nel caso del maggiore il delatore fu identificato con un certo Fossati che, in seguito, verrà arrestato dai partigiani e fucilato come traditore. Il responsabile dell’arresto di Valobra è invece Luigi Beghetti, un finanziere che aveva fatto da staffetta per il maggiore Milano. Dopo la guerra Beghetti, sotto processo anche per crimini commessi in altre regioni, sarà condannato in contumacia a venti anni di reclusione. L’arresto del maggiore Milano costituiva un duro colpo per il nascente movimento resistenziale. Il maggiore, grazie al suo carisma ed alla sua notevole esperienza in campo militare, era riuscito in breve tempo a trasformare un eterogeneo gruppo di sbandati in bande organizzate ed efficienti. Ora bisognava trovare qualcuno che, con altrettanta sicurezza ed efficacia, riuscisse a portare avanti il lavoro iniziato da Milano. Certamente non si trattava di un compito facile anche per la scarsità di tempo a disposizione. I tedeschi, infatti, prontamente riorganizzatisi dopo l’armistizio, avevano stanziato numerosi reparti nel fondovalle (Beinasco, Orbassano) ed in Valle di Susa (Avigliana, Sant’Ambrogio, Condove) essendo il comprensorio Susa-Chisone di notevole importanza strategica per i collegamenti con la Francia attraverso i valichi del Monginevro e del Fréjus. I partigiani della Val Sangone – dove era presente un reparto tedesco a Sangano, a difesa della polveriera militare – erano quindi stretti in una tenace morsa dalle truppe nazi-fasciste. È proprio in questa difficile situazione che emergono i nuovi comandanti della vallata, coloro i quali condurranno le brigate fino all’aprile 1945: Giulio e Franco Nicoletta, Nino Criscuolo, Eugenio Fassino, Carlo Asteggiano, Sergio De Vitis. Essi erano stati tutti «nominati» dalle proprie truppe, un ulteriore atto di quel processo di democratizzazione attraverso scelte «dal basso» che fin dai primi giorni di settembre era stato elemento cardine del movimento resistenziale e che aveva segnato un netto distacco dal ventennio fascista e dalla sua ideologia. Significativamente i nuovi comandanti sono tutti elementi con una ottima preparazione militare (si tratta di ufficiali di carriera oppure, nel caso dei fratelli Nicoletta, di combattenti dalla notevole esperienza), l’unica eccezione è costituita da Eugenio Fassino. Questi, però, seppure digiuno di conoscenze militari, è dotato di un grande carisma e di una forte personalità. È proprio questo ultimo aspetto (più delle pur importanti capacità in campo militare) a risultare fondamentale nella scelta di un buon comandante. Esso, infatti, doveva possedere capacità organizzative, senso pratico, dinamismo, doveva essere in grado di farsi obbedire e seguire dai proprio uomini. Aspetto non trascurabile era poi l’istruzione: «si trattava anche di spiegare le cose, di farsi capire chiaramente, e allora l’aver studiato finiva per contare, anche se non era determinante». [20] A pochi giorni dalla cattura del maggiore Milano i nuovi comandanti della Resistenza sono subito chiamati ad un importante banco di prova. A corto di scorte alimentari e di beni di prima necessità, i partigiani progettano una serie di «colpi» a magazzini e depositi della zona. Eugenio Fassino e Nino Criscuolo prelevano un consistente quantitativo di cuoio e stoffe pesanti da un deposito in Valle di Susa, i fratelli Nicoletta asportano viveri da un magazzino tedesco ad Orbassano e ad Avigliana ci si rifornisce di farina e scarpe. L’azione più importante, però, è quella compiuta congiuntamente da tutti i comandanti (più alcuni uomini fidati, una quindicina in tutto) all’ammasso granario di Orbassano. Qui, scoperti da un gruppo di tedeschi mentre si apprestano a caricare il grano sui camion, sono da questi coinvolti in uno scontro a fuoco nel quale riusciranno ad avere la meglio. Cinque soldati tedeschi vengono uccisi mentre un solo partigiano, Remo Ruscello, viene ferito. Intanto, mentre i nuovi comandanti ben figuravano nel primo scontro con il nemico, il CLNRP aveva preso la decisione di inviare in Val Sangone un sostituto del maggiore Milano, il maggiore Torchio (che giungerà effettivamente in valle il 12 novembre prendendo il nome di battaglia di «Verde»). La decisione, ufficialmente motivata per dare continuità all’opera di coordinamento iniziata Milano, nascondeva in realtà la volontà dello stesso Comitato – ed in particolare del generale Operti cui Torchio è vicino – di imporre direttive attendiste al movimento. Il 13 novembre, giorno successivo all’arrivo del maggiore Torchio, le truppe tedesche effettuavano un nuovo rastrellamento in valle. Si attribuiva infatti alla pervicace presenza delle bande partigiane il dilagare del fenomeno della renitenza alla leva (un bando repubblicano di chiamata alle armi, scaduto ad inizio mese, era stato un insuccesso). All’alba di quel giorno una autocolonna tedesca giungeva a Coazze prendendo in ostaggio trenta civili e trattenendoli nei locali dell’oratorio parrocchiale. Si dirigevano quindi verso la montagna, nella zona di tra il Ciargiour, borgata Dogheria ed il Palè. I partigiani, provvidenzialmente avvertiti da alcuni valligiani, si danno precipitosamente alla fuga. Il maggiore Torchio si dirigeva verso la pianura non facendo ritorno in valle solo alcuni giorni dopo. Preoccupati da questo nuovo rastrellamento (il primo nel quale erano stati presi degli ostaggi) e convinti che sarebbe durato a lungo, i partigiani decidevano di dividersi: chi ne aveva la possibilità si sarebbe rifugiato in zona, chi non aveva parenti o amici a cui chiedere rifugio si sarebbe invece diretto verso la Valle di Susa. A questo proposito Giulio Nicoletta ricorda: «affrontare i tedeschi non aveva senso, bisognava ritirarsi. Però eravamo convinti che il rastrellamento durasse a lungo, non un solo giorno: pensavamo potesse essere di una settimana, forse più. In fondo i tedeschi ci avevano visti, c’era stato un conflitto a fuoco [tra i fratelli Nicoletta, Eugenio Fassino ed un gruppo di tedeschi], anche se nessuno era stato ferito. La Val Sangone era stretta, non si poteva sfuggire alle pattuglie per molto tempo. E poi vedevo che alcuni, soprattutto i più giovani, erano impauriti. Allora abbiamo deciso di dividerci (…) ».[21] Un gruppo di partigiani (fra i quali vi sono i fratelli Nicoletta) si trasferisce quindi in Valle di Susa, sistemandosi sulle alture di Montebenedetto sopra Villar Focchiardo, dove rimarranno per una ventina di giorni. Ad inizio dicembre, quando la situazione si è stabilizzata, il gruppo fa ritorno in valle ricongiungendosi con i compagni a Ca’ Tessa (sopra l’Indiritto di Coazze). Qui, anche alla luce di quanto avvenuto durante il rastrellamento del 13 novembre, vengono pianificate le strategie per il futuro. Veniva ribadita dai comandanti la necessità della divisione in piccoli gruppi, più gestibili e che sarebbero riusciti a muoversi meglio in caso di attacco. Nascono quindi la banda «Sergio» con a capo Sergio De Vitis (inizialmente con zona di influenza Ca’ Tessa, più avanti si sposterà nella zona di Forno), la «Nino-Carlo» (comandata da Nino Criscuolo, Carlo Asteggiano ed Eugenio Fassino) che è anche la più numerosa e che agisce nella zona di Moncalarda – Verna ed infine la banda «Nicoletta» guidata da Giulio e Franco Nicoletta. Da questa prima divisione in bande, che sarà mantenuta -seppur con alcuni cambiamenti di denominazione – per quasi tutta la durata dell’esperienza resistenziale, si nota la presenza di bande autonome fra loro guidate da comandanti dall’uguale potere, e, al contrario, la mancanza di una personalità così forte o con una preparazione militare così profonda da imporsi sugli altri. Il maggiore Torchio, infatti, a differenza del suo predecessore Luigi Milano, non possedeva le caratteristiche adatte a comandare una guerra di bande ed anzi, per il suo atteggiamento rinunciatario ed attendista, era inviso ai più ed era ormai solo una presenza simbolica, senza potere alcuno, tollerata solo perché inviata direttamente dal comando militare. Nei primi mesi del 1944, intanto, come anche nel resto d’Italia, le fila della Resistenza locale si ingrossavano sensibilmente. Molti giovani delle classi 1923, 1924 e 1925 (chiamati alle armi all’inizio dell’anno) avevano preferito disertare la leva, pur consapevoli di poter rischiare la pena capitale, ed unirsi alle forze partigiane. Molte di queste nuove reclute sono giovani della valle ma, come già avvenuto tra settembre ed ottobre 1943, non mancano anche numerosi elementi provenienti da altre zone (e che, spesso, hanno dei congiunti sfollati proprio in Val Sangone). Tra i nuovi arrivi vi sono anche i fratelli Quazza, Guido (classe 1922) e Giorgio (classe 1924). I due, studenti universitari torinesi e figli dello storico Romolo Quazza, sebbene quasi privi di esperienza militare, avevano aderito fin da subito alla Resistenza, combattendo nel biellese. Nel febbraio del 1944, anche a causa delle difficili condizioni venutesi a creare per i partigiani della zona (numerosi rastrellamenti ed uccisioni), decidono – su indicazione del fratello maggiore Mario – di spostarsi e continuare la lotta di liberazione in Val Sangone. Guido Quazza, nei quindici mesi di permanenza in valle, terrà un diario (pubblicato in volume nel dopoguerra) in cui giornalmente annota – con minuzioso acume – fatti ed accadimenti della vita partigiana. L’importanza di questo diario è duplice. In primo luogo esso è una rara e significativa testimonianza «diretta» del periodo resistenziale. Secondariamente, ma è questo l’aspetto più importante, vi è la possibilità di scorgere, tra le sue pagine, il processo di maturazione – umana e politica – che viene compiuto dal giovane Quazza durante i venti mesi della Resistenza.

[12] Testimonianza di Albina Lussiana, classe 1927, impiegata in pensione, raccolta da Cesare Alpignano il 30 luglio 1996 e contenuta in Alpignano, Una comunità alpina nella guerra e nella lotta di liberazione, cit., p. 39.
[13] Le notizie biografiche sul maggiore Milano sono tratte da Gianni Oliva (a cura di), Luigi Milano. Un ufficiale degli Alpini nella guerra e nella Resistenza, Torino, Servizi Finanziari Amministrativi, 1990.
[14] Testimonianza di Bartolomeo Romano, classe 1924, in Il maggiore Milano nella memoria valligiana in Oliva, Un ufficiale degli Alpini nella guerra e nella Resistenza, cit., p. 69.
[15] Nel dopoguerra verrà intitolata a Maurizio Guglielmino una via a Giaveno. Ad Evelina Ostorero, invece, è stata recentemente intitolata la Casa Alpina di borgata Ferria a Coazze.
[16] Eugenio Fassino, Diario, riportato in Roberto Cresta, La Resistenza in Val Sangone, tesi di laurea, a.a. 1969/1970, p. 65.
[17] Testimonianza di Dante Rosa, classe 1924, partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 12 marzo 1988 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 82.
[18] Giulio Nicoletta, Luigi Milano comandante partigiano in Oliva, Un ufficiale degli Alpini nella guerra e nella Resistenza, cit., p. 55.
[19] Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 3 febbraio 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 72.
[20] Testimonianza di Mario Massola, classe 1923, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 7 aprile 1988 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 93.
[21] Testimonianza di Giulio Nicoletta, classe 1921, comandante partigiano, raccolta da Gianni Oliva il 3 febbraio 1987 e contenuta in Oliva, La Resistenza alle porte di Torino, cit., p. 96.

Andrea Mortara, Guerra e Resistenza – Tra memoria e rappresentazione. Il caso di Coazze, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2011-2012, tesi qui ripresa da La Resistenza in Val Sangone

Dodici aviatori americani, costretti ad un atterraggio di fortuna presso Airasca e salvati da un partigiano della Val Chisone, vengono salvati con un incredibile viaggio clandestino da Cumiana alle Langhe, organizzato da Michele Ghio e da Pat O’Regan. Oltreché di aviolanci, la missione ZUR/4, guidata dal capitano O’Regan, si occupava dell’assistenza ai prigionieri alleati, cercando di farli espatriare. Era il caso, a fine dicembre [1944], di dodici aviatori americani, costretti ad un atterraggio di fortuna presso Airasca e salvati da un partigiano della Val Chisone, che li nascondeva in un cascinale presso Cumiana. La missione O’Regan non era l’unica presente in vallata. Presso il comando della brigata “Campana”(bande partigiane), al Mollar dei Franchi, c’era la missione POM (O.S.S.) guidata da “Silvio” (Luigi Segre), organizzata dagli americani per avere informazioni dirette sulla situazione locale. A Balangero c’era, invece il capitano “Leo” ufficiale della missione britannica FERRET, incaricato di organizzare dei campi di transito per raccogliere prigionieri alleati da tutto il Piemonte. Si trattava però di missioni minori. Quella di ‘Silvio’ non era ufficialmente accreditata, quella del capitano ‘Leo’ è durata pochi mesi perché il rastrellamento di novembre-dicembre ha tolto la possibilità dei campi di transito.
Archeologi dell’Aria Forum

Dichiarazione del comandante partigiano Felice Mautino, “Monti”, attestante l’attività di Luigi Segre di capo missione italo alleata alle dipendenze della Missione Cherokee – Fonte: 70° Resistenza

Dichiarazione rilasciata ad Ivrea il 2 maggio 1945 da Felice Mautino “Monti”, Comandante Militare delle formazioni partigiane delle Valli di Lanzo dall’ottobre 1943 alla fine di marzo 1944. In essa si attesta che Luigi Segre, nato a Napoli l’8 novembre 1919 e ora residente a Torino, ha partecipato alla guerra di liberazione con le formazioni partigiane nel periodo che va dal novembre 1943 al 10 marzo 1944. Si dichiara inoltre che, dopo quella data, è stato inviato in Svizzera dal Comando Militare del C.V.L. con l’incarico di occuparsi dei rifornimenti aviolanciati per le formazioni partigiane del Piemonte. In seguito la sua attività è proseguita nel Biellese. Si precisa, infine, che Luigi Segre, nel settembre 1944, in qualità di capo missione italo-alleata, dipendeva dalla Missione Militare Alleata “Cherokee” per l’Alto Piemonte. “Relazioni di attività partigiana” in Archivio Istoreto, fondo Segre Luigi, IT C00 FA33. 70° Resistenza

Ovunque i locali comitati di liberazione (oppure gli stessi comandi partigiani nei luoghi in cui i comitati non erano ancora stati formati) assumono i poteri prima detenuti dalla autorità municipali repubblicane. A Giaveno il CLN provvede anche alla creazione di alcuni centri di raccolta viveri da distribuire ai civili più indigenti. C’è ormai la consapevolezza diffusa di una imminente fine del conflitto. Il primo atto dell’insurrezione finale avviene nella mattinata del 18 aprile quando gli operai delle fabbriche torinesi aderiscono compatti all’appello diffuso dal CLN una settimana prima che esortava i lavoratori ad uno «sciopero generale contro la fame e il terrore». In breve tempo l’agitazione si estendeva alla provincia ed anche alla Val Sangone: a Giaveno veniva bloccata la tramvia della Satti e venivano chiusi tutti gli stabilimenti della zona. La sera del 24 aprile viene dato inizio effettivo all’insurrezione attraverso l’ordine n. 3000/5, diramato a tutti i comandi di Zona, e che iniziava con le parole: «Aldo dice 26 x 1. Nemico in crisi finale. Applicate Piano E 27 (…)». Questo piano, la cui prima stesura risaliva all’autunno 1944, prevedeva che a liberare Torino, prima dell’arrivo degli Alleati, fossero i partigiani. Perché ciò avvenisse doveva esserci una stretta collaborazione tra le formazioni cittadine e quelle della provincia. Con le prime impegnate anche difendere stabilimenti industriali e vie di comunicazione da eventuali attacchi del nemico e le altre incaricate di disturbare la ritirata dei tedeschi. Compiti precisi, e di notevole importanza, erano assegnati anche agli uomini della divisione autonoma «Sergio De Vitis». Essi dovevano eseguire azioni di rastrellamento in pianura ed occupare la zona cittadina compresa tra corso Stupinigi e Santa Rita, con l’obiettivo finale di occupare le caserme ed i presidi militari lì presen ti. Con Giulio Nicoletta al comando, gli uomini delle brigate di Nino Criscuolo, Giuseppe Falzone, Franco Nicoletta e Guido Quazza si dirigono – all’alba del 26 aprile – verso Torino (nelle vicinanze del capoluogo si aggregherà a loro anche la brigata di Guido Usseglio Mattiet). Dopo lunga attesa, però, viene loro comunicato che l’entrata in città è rimandata al giorno seguente. Finalmente, il 27 aprile, i partigiani della Val Sangone posso marciare sulla città. La prima formazione ad entrare a Torino è quella di Falzone che si dirige verso Santa Rita. Durante il tragitto, però, incontrano una colonna di autoblindo tedeschi in ritirata: il conflitto a fuoco che ne segue provoca cinque morti e cinque feriti nelle fila della «Sandro Magnone» Le altre formazioni, invece, non incontravano resistenza e penetravano agevolmente in città. Le brigate di Criscuolo e Quazza entrano negli stabilimenti FIAT di Mirafiori, quelli del Lingotto sono invece occupati da Franco Nicoletta e Ugo Giai Merlera (della «Campana»). I partigiani della «Carlo Carli», che erano rimasti fuori Torino, attaccano e conquistano l’Aeronautica di Grugliasco catturandone il presidio. Il giorno successivo la liberazione del capoluogo è completata: gli uomini di Falzone prendono possesso della caserma “Monte Grappa” mentre Guido Usseglio Mattiet ed i suoi occupano la Casa Littoria di piazza Carlo Alberto ribattezzandola «Palazzo Campana» in onore di Felice Cordero di Pamparato. In Val Sangone, intanto, venivano predisposti posti di blocco per presidiare le strade principali, ma la maggior parte dei tedeschi e dei repubblicani non ancora catturati si consegnava spontaneamente. Le truppe tedesche, con la Germania ormai sconfitta e Mussolini arrestato e poi giustiziato a Milano, si rendevano ancora responsabili di un barbaro eccidio, fucilando sessantasei civili a Grugliasco. Andrea Mortara, Op. Cit.

Il 4 giugno 1944, con il proseguire della Resistenza e con l’ingrossamento delle schiere partigiane, un primo nucleo di una ventina di Partigiani crea un nuovo Distaccamento dalla 42a Brigata Garibaldi “Walter Fontan”, di stanza tra Mocchie e Foresto guidata da Alessandro Ciamei.
Il nuovo Distaccamento si stanzia in Val Clarea agli ordini di Domenico Vottero, il Comandante “Smago”, nel luglio, raggiunge una cinquantina di uomini e a settembre un centinaio. Il distaccamento, formato da Partigiani per lo più di Giaglione, Susa, Mompantero, Gravere, Chiomonte e Ramats passa agli ordini di Smanio Natale, il Comandante “Libero”, e compie azioni di sabotaggio, prelievo materiali, armi e vettovagliamenti, oltre all’esecuzione di repubblichini, spie e collaborazionisti.
Il 12 luglio, a causa di un incidente, muore il Partigiano giaglionese Mosè Marzo. Il 26 agosto 1944 alcuni Partigiani compiono azioni punitive alle Ramats e a Chiomonte contro case ritenute di repubblichini. Tre Partigiani rimangono gravemente feriti per lo scoppio accidentale di una bomba a mano in Clarea. Nel settembre del 1944, la formazione porta a termine una serie di sabotaggi alla statale per il Moncenisio. Durante uno di questi sabotaggi, l’8 settembre, una pattuglia attacca un’autocolonna tedesca; ne segue un combattimento dove muoiono quattro tedeschi e altri due sono feriti, mentre sono catturati e fucilati sul posto i Partigiani Battista Guerra e Giovanni Sibille. Quest’ultimo è delle Ramats di Chiomonte, come il suo compaesano Giulio Sibille, anch’egli catturato, ma del quale non si avranno più notizie.
Il 28 settembre, un rastrellamento tedesco in Clarea costringe allo sbandamento i Partigiani del distaccamento che si ricompatta alla Losa e nei boschi a monte di Gravere. Qui, il 15 ottobre, il distaccamento si costituisce in Brigata e dà vita alla 115a Brigata Garibaldi intitolata al bussolenese Bruno Peirolo, primo Partigiano caduto della Valle di Susa a Usseglio, in Valle di Viù il 10 novembre 1943.
La Brigata è agli ordini del Comandante “Santo” e conta una cinquantina di effettivi. I tedeschi distruggono il magazzino armi e viveri della Brigata costringendo i Partigiani a compiere prelievi presso la popolazione.
L’8 novembre, i Partigiani fanno saltare un vagone ferroviario di munizioni alla stazione di Susa. I tedeschi non eseguono rappresaglie perché giudicano lo scoppio accidentale. Perde la vita il giovane Partigiano Paolo Mulassano al quale sarà intitolata la piazza segusina a lato della stazione ferroviaria. Tra fine novembre e i primi di dicembre del 1944, la formazione è più volte attaccata dai tedeschi che, il 26 novembre, incendiano Madonna della Losa.
La Brigata raggiunge circa centocinquanta effettivi. La popolazione stremata comincia a essere insofferente per la situazione, a causa delle ritorsioni dei tedeschi e dei prelievi alimentari forzosi dei Partigiani. Il 5 dicembre 1944, i tedeschi attaccano la formazione; gli abitanti di Gravere dimostrano aperta ostilità ai garibaldini che il 10 dicembre sono costretti ad abbandonare la zona. Molti Partigiani della 115a fanno ritorno a casa o si uniscono ad altre formazioni, mentre i pochi rimasti si trasferiscono a Borgata di Mattie e a Novalesa per superare l’inverno.
Dopo il rastrellamento tedesco del 5 marzo 1945 nel territorio di Novalesa, che costa la cattura di cinque garibaldini, i superstiti sono costretti a risalire in Clarea e alle Ramats per sfuggire al nemico. Il 14 marzo, a capo di un gruppo di sette garibaldini, Emilio Rech attacca di sorpresa con bombe a mano un reparto tedesco in transito sulla Susa-Moncenisio, dopo aver causato tre morti e catturato un prigioniero ritorna alla base. Il 19 marzo i garibaldini attaccano nuovamente le truppe tedesche sulla Susa-Moncenisio.
A seguito della delazione di qualche abitante, il 28 marzo la Val Clarea e le Ramats sono rastrellate in un’operazione congiunta della Folgore e di reparti tedeschi che, con tre colonne, attaccano dalla Clarea, da Exilles e da Chiomonte. Durante gli scontri a fuoco cadono due Partigiani ritenuti di nazionalità sovietica e il trentino Emilio Rech, mentre altri tre compagni sono catturati. I corpi dei tre caduti sono trascinati, martoriati e seppelliti sommariamente nei dintorni della Frazione Sant’Antonio. I corpi sono riesumati e traslati nel cimitero locale, dove anni dopo sono poste tre lapidi a ricordo di anonimi Caduti per la Libertà. Un Partigiano lituano, Peter Golubov, ferito nel corso del rastrellamento, trova riparo presso Luigi Augusto e Filippina Sibille in Borgata Verger, sopravvissuto alla guerra ritornerà a far visita ai figli della coppia, Ettore e Silvio, dopo più di cinquant’anni, nel 2001, quando la dissoluzione dell’U.R.S.S. glielo permetterà.
In seguito alla battaglia delle Ramats verranno fucilati per ritorsione i Partigiani catturati:
Armas A. Suzi, nato a Krasnojarsk in Siberia, nel 1924. Disertore dell’esercito tedesco, unitosi ai Partigiani della Valle di Susa il 6 giungo 1944, prima con la 106a Brigata Garibaldi “Giordano Velino”, poi con la 13a Divisione “Barata” e infine con la 115a. Catturato il 28 marzo 1945 alle Ramats e fucilato lo stesso giorno a Susa.
Alfredo Beuyr, nato in Jugoslavia il 20 settembre 1927, fucilato a Bussoleno il 28 marzo 1945.
Giuma Turducolop, nato in U.R.S.S. nel 1919, fucilato a Susa il 28 marzo 1945.
Qualche giorno più tardi viene ritrovato alla Queiero, a monte delle Ramats, il cadavere di Desiderato Sibille, di anni 62. Ricordato come Partigiano garibaldino nella lapide ai caduti sulla facciata della parrocchiale di Sant’Antonio alle di Ramats, ma secondo alcuni abitanti si tratterebbe di un civile seviziato e ucciso dai tedeschi il 28 marzo.
Dopo la battaglia delle Ramats, i Partigiani scampati al rastrellamento rimarranno nascosti in Val Clarea fino alla Liberazione quando scenderanno, in parte per partecipare alla liberazione di Torino e in parte rimarranno a difendere la centrale idroelettrica di Chiomonte e i ponti minati e minacciati di distruzione dai tedeschi in ritirata.
ANPI Sezione di Chiomonte, Alta Valle Susa “Maria Teresa Gorlier e Attilia Ronsil” e Consorzio Forestale Alta Valle Susa

Il tenente di vascello Umberto Paventi era imbarcato, quale ufficiale in seconda, sul sommergibile Argo, ai lavori a Monfalcone, ma distaccato presso la Scuola Sommergibilisti di Pola. Per un caso fortunato la mattina dell’8 settembre era a Monfalcone e partì il 9 con il sommergibile Nautilo, riuscendo a evitare la cattura. Ai primi di ottobre raggiunse la sua famiglia in Piemonte. Si presentò, quindi, a Guido Usseglio, un capo partigiano, e si mise a disposizione della lotta partigiana e, fino al febbraio 1944, fu impiegato nella lotta clandestina a Torino. Fu quindi inviato nella Val Sangone, con il compito di raggruppare e coordinare l’azione dei piccoli nuclei partigiani esistenti nella valle, in modo da porli sotto un unico comando di valle che egli assunse. L’unità al suo comando superò le varie azioni di contro guerriglia condotte nella valle e anche il grande rastrellamento del mese di maggio. Paventi fu ferito e dovette terminare la convalescenza clandestina in pianura. Mantenne il comando della valle, con il nome di Argo, fino al 1° agosto, quando divenne Commissario di guerra della 2ª brigata Langhe (incarico che mantenne fino al 1° ottobre) e collaborò a organizzare il trasferimento dalle valli in pianura per svernare e il passaggio dalla Brigata alla Divisione. Dal 13 marzo all’8 giugno 1945 ricoprì l’incarico di capo di stato maggiore della divisione Campana-Giustizia e Libertà.
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale – Anno XXIX – 2015, Editore Ministero della Difesa