La ribellione di Gaggi, esule antifascista e ormai “quasi” cittadino sovietico, finisce nei sotterranei della Lubianka

Nell’Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, pubblicata nel 1922 e ristampata dall’Edizione Avanti! nel 1963, è riportata una minuziosa relazione dei socialisti di San Giovanni Valdarno alla Federazione di Arezzo. Nella relazione sono descritti i fatti avvenuti il 23 e il 24 marzo 1921 nella cittadina toscana, dove un gruppo di fascisti fiorentini, «provvisti di elmetto, fucili e moschetti», devastarono la Casa del Popolo e la società corale «Vincenzo Bellini», uccisero il capostazione Salvagno e costrinsero «quasi tutti gli appartenenti ai partiti estremi … ad allontanarsi dal paese per le minacce contro di essi» (pp. 381-383). La descrizione dei fatti coincide con quella esposta nella relazione della regia procura di Arezzo, citata da Giorgio Sacchetti nella «nuova edizione riveduta e aumentata» del libro su Otello Gaggi, vittima del fascismo e dello stalinismo (BFS edizioni, Pisa 2015, pp. 104).
Nella relazione i socialisti valdarnesi fanno i nomi delle vittime (Giuseppe Bisi, Attilio Biddi, Elio Bronconi, Luigi Costereggi, Domenico Ermini, Giovacchino Lombardi, Raffele Nebbiai, Corinna e Iolanda Soldi, Giuseppe Terzo Forconi), ma non ricordano Otello Gaggi, presente negli scontri avvenuti nel bacino minerario di Castelnuovo dei Sabbioni. Il 23 marzo 1921, durante lo scontro con gli impiegati definiti «spie dei fascisti», è ucciso l’ingegnere Agostino Longhi, mentre rimane ferito gravemente il direttore Dario Raffo dello stabilimento Ferriera, dove Gaggi lavora come operaio saldatore. Il giovane non ha ancora compiuto venticinque anni (essendo nato il 6 maggio 1896), ma ha svolto un’intensa attività anarchica come antimilitarista durante la «settimana rossa», disertore nella guerra europea e antifascista all’apparire delle prime violenze squadriste. Basta il suo passato di sovversivo per essere ritenuto responsabile del delittuoso episodio, processato e condannato in contumacia a trent’anni di reclusione, tre anni di vigilanza e 165,50 lire di pena pecuniaria.
Nonostante le molte ombre sul delittuoso episodio, il ricorso in Cassazione e la solidarietà dei deputati socialisti Luigi Frontini e Tito Oro Nobili, Gaggi ripara nella libera Repubblica di San Marino per poi rifugiarsi a Odessa. Nella cittadina dell’Ucraina egli dovette rimanere ben poco, se nel novembre 1922 si trova a Baku, dove viene arrestato per avere partecipato alle lotte cospirative dei socialisti rivoluzionari del Caucaso e rinchiuso per tre anni nel carcere di Čeljabinsk. Secondo una versione più attendibile sembra invece che egli si trovi a Mosca, dove ha una relazione con una donna di nome Olga e una figlia, Tamara Silianteva Otellovna, ancora vivente nel 2014.
Gli anni trascorsi a Mosca sono divisi tra il lavoro come piazzista di libri e il ritrovo nel Club Internazionale, luogo d’incontro degli emigrati italiani. I nuovi arrivati devono compilare un apposito modulo (denominato Anketa) e fornire i propri dati anagrafici e la pregressa attività politica. Essi sono sorvegliati dai rappresentanti del PCd’I tramite due suoi fiduciari, Antonio Roasio e Domenico Ciufoli, che tengono aggiornato il modulo e lo trasmettono alla sezione quadri del Komintern e all’NKVD. La situazione di Gaggi sembra facilitata in quanto la moglie di Roasio, Dina Ermini (alias Miranda Boffa), è dello stesso paese, oltre ad essere cognata di un cugino dell’anarchico valdarnese. In realtà il successo della linea di Stalin mette in seria difficoltà Gaggi, che in una lettera all’amico Angelo Cardamone esprime giudizi poco lusinghieri sulla politica comunista, esprimendo il desiderio di voler rientrare in Italia. La lamentela di una vita di stenti, il dibattito sull’ingiusta detenzione di Francesco Ghezzi e le critiche alla linea ufficiale dell’Internazionale sono interpretati come una critica al potere dalle autorità sovietiche, che inseriscono il nome di Gaggi in una lista nera, insieme a quelli di Luigi Calligaris, Ezio Biondini, Aldo Gorelli, Gino Martelli, Emilio Guarnischelli.
Arrestato il 28 dicembre 1934, Gaggi è sottoposto a un interrogatorio e costretto ad ammettere le sue «terribili colpe», tra le quali quelle di essere vicino al gruppo trockista, diretto da Luigi Calligaris, e di aver condiviso l’opinione che «in Urss i lavoratori vivano male e che nel paese non ci sia libertà» (p. 70). Così, dopo alcuni interrogatori (9, 15 e 27 gennaio 1935) basati sulla «confessione» come elemento essenziale di colpevolezza, è condannato in un Paese stalinizzato, dove si assiste a un’avvicinamento con l’Italia mussoliniana per la valorizzazione di una fabbrica Fiat di cuscinetti a sfera. Il mito dell’operaio Alexsej Stachanov coincide con la condanna «a tre anni di confino a piede libero» di Gaggi, che è accusato anche di contatti con Felice Trojano, sospettato di attività antisovietica e ingegnere della fabbrica Dirižablestroj di Umberto Nobile. Con la medesina accusa è arrestato il 29 luglio 1937 per intraprendere l’ultimo viaggio dalla Lubjanka al Gulag senza ritorno.
Il 9 gennaio 1938 è condannato a cinque anni di carcere e trasferito poi nei campi di lavoro ubicati in diverse località sovietiche per la costruzione ferroviaria oppure per il disboscamento e la coltivazione agricola. Un anno prima di morire (1945), il caso di Otello Gaggi è sollevato da Victor Serge in una «lettera aperta» a Togliatti, che lascia insoluta la domanda sulla sorte «degli antifascisti italiani rifugiati in Urss» come Luigi Calligaris, Francesco Ghezzi e Otello Gaggi. L’invito dell’ex funzionario del Comintern, ora capo della dissidenza trockista e storico di fama internazionale, sarà raccolto alcuni dopo dal quotidiano «L’Umanità» che il 13 agosto 1949 rivolge una precisa domanda persino nel titolo: Togliatti, dove sono Ghezzi, Galli e Gaggi? Giusepe Saragat è tra i pochi ad interessarsi della sorte di Gaggi, recandosi a San Giovanni Valdarno per incontrare la sorella a casa di Giovanni Carbini, segretario amministrativo del Psdi e amico di Luigi Preti.
Solo, con l’apertura degli archivi sovietici, si riesce a conoscere la data precisa della morte di Gaggi, sopraggiunta a Sevželdorlag a causa della pellagra. Persino Dina Ermini, vedova di Roasio, è costretta ad ammettere che Gaggi «morì di stenti in un gulag», giustificando ancora le evidenti reticenze sull’operato di Togliatti e del marito, ignari della sorte degli antifascisti rifugiati in Unione Sovietica. Su iniziativa dei socialisti valdarnesi e del Circolo fratelli Rosselli la memoria di Gaggi e dei fuorusciti italiani è mantenuta viva, come prova nel 1992 l’iniziativa per la presentazione del libro «Dialoghi del terrore» di Francesco Bigazzi e di Giancarlo Lehner, quest’ultimo giornalista dell’«Avanti!» e uno degli storici più assidui a denunciare la morte dei rifiugiati politici nei gulag di Stalin.
Nunzio Dell’Erba, Otello Gaggi, vittima del fascismo e dello stalinismo, Avanti!, 8 febbraio 2016

Esce, a distanza di ventitré anni dalla prima edizione, notevolmente arricchita di testimonianze e documenti, una nuova biografia dedicata all’anarchico toscano (Giorgio Sacchetti, Otello Gaggi. Vittima del fascismo e dello stalinismo, BFS, Pisa, 2015, nuova edizione riveduta e aumentata, pp. 104, € 12,00). Ne pubblichiamo una breve scheda editoriale curata dall’autore.
Otello Gaggi (1896-1945) è un operaio della ferriera di San Giovanni Valdarno che, per sfuggire alle persecuzioni fasciste e ad una condanna a 30 anni inflittagli dal tribunale, ripara in modo avventuroso in Russia. Qui però è arrestato nel dicembre 1934 e inviato, in quanto “controrivoluzionario”, nel Gulag, luogo nel quale troverà la morte dopo anni di sofferenze. Dalla natia Toscana all’Ucraina, da Mosca al Kazakistan, alla Siberia: la narrazione – utilizzando fonti epistolari familiari e carte degli archivi sovietici – si dipana in un viaggio lungo quasi un quarto di secolo ed esteso a due continenti. “Parto per ignoti lidi…” scriveva l’esule valdarnese alla sorella nel 1930. C’è, a tutta prima, una dimensione psicologica di quel suo peregrinare angosciato nell’universo concentrazionario del comunismo. E sono le pagine stesse di questo agile volume a raccontarci gli orizzonti mentali e le speranze che muovono il protagonista. La sua è una generazione di braccati e di perseguitati, che ha visto la “grande Storia” irrompere con violenza nell’intimo della propria vita. Così al trauma dell’esperienza in trincea e alle conseguenze tragiche della guerra europea, si sono sommate quelle dei totalitarismi novecenteschi. La sua vicenda individuale, divenuta caso internazionale, lascia qui spazio per un’attenzione all’immaginario, alle motivazioni ideologiche delle sue fughe, alle speranze fideistiche nella Russia bolscevica, nonché alla sua disillusione ed al desiderio incontenibile di tornare in Italia. Aspirazione che si manifesta con un palese rifiuto della cittadinanza sovietica che pagherà molto caro.
Il protagonista diventa il “bersaglio” di un regime di terrore che, nella sequenza parossistica ben analizzata da Hannah Arendt, colpisce insieme ai nemici reali, quelli ritenuti potenziali, oggettivi, e poi gli “autori di delitti possibili”, non risparmiando la cerchia degli amici, dei seguaci e neppure gli “innocenti cittadini senza opinioni”. Queste pagine costituiscono il punto di arrivo sia dei contributi di testimonianza sedimentatisi a partire dal secondo dopoguerra attraverso l’impegno encomiabile dei piccoli gruppi della sinistra dissidente, sia dell’impegno preso dai promotori di questa contro-memoria operaia nel lontano 1992: “restituire l’onore politico e morale a Otello Gaggi, antimilitarista e disertore nella guerra mondiale, antifascista ed esule, ribelle e dissidente perseguitato dalla alleanza oggettiva di OVRA e OGPU”.
Operaio assassinato da uno Stato sedicente proletario: crimine tra milioni di crimini, la sua vita generosa commuove e suscita simpatie. La ribellione di Gaggi, esule antifascista e ormai “quasi” cittadino sovietico, finisce nei sotterranei della Lubianka. La sua è rabbia dell’amante tradito, ripulsa di un “comunismo” che gli appare nelle vesti del poliziotto inquisitore e non dissimile da quel fascismo che ha sperimentato sulla sua pelle all’epoca dei violenti prodromi in Italia.
Questa ricerca, condotta sulla base di una documentazione nuova e del tutto inedita, esce oggi in forma bibliograficamente aggiornata e con ulteriori importanti contributi. Così il profilo già tracciato, anche psicologico, della vita di un uomo libero, vissuta da oppositore strenuo dei fascismi di ogni colore, si delinea con ulteriore nitidezza. Le testimonianze della famiglia hanno consentito il disvelamento di uno scrigno di ricordi gelosamente conservati, hanno permesso di illuminare a pieno preziose informazioni sulla sua personalità, sulla famiglia d’origine e su quella che si era formata in URSS.
Il volume è anche una documentata denuncia contro le omertà, i silenzi e le connivenze del partito togliattiano individuando in particolare le gravi e precise responsabilità di due importanti personaggi come Antonio Roasio e Dina Ermini (alias Miranda Boffa), funzionaria del Komintern e compaesana del Gaggi, definita dall’autore “prototipo della dirigente comunista senza scrupoli”. Sì perché, rientrati in Italia, i persecutori si dimenticano delle vittime.
Non risponde Togliatti “ministro del governo antifascista” ad una lettera circostanziata di Victor Serge nel 1944. Non rispondono gli altri.
Roasio, intervistato da Miriam Mafai, esprime dalle pagine di “Repubblica” (27 ottobre 1982) tutto il suo rimorso e fa una tardiva pubblica ammissione dei suoi errori e delle sue complicità, che però passa quasi inosservata: “[…] La nostra colpa è di averli abbandonati, pur sapendo che erano innocenti. La nostra colpa è di non essere intervenuti dopo, nel 1945. Molti di loro erano ancora vivi, nei campi di concentramento”.
Queste pagine sono il risultato di una ricerca collettiva in progress, condotta con metodo scientifico ma soprattutto guidata da passione civile.
Redazione, Dal Valdarno alla Siberia (senza ritorno), A, rivista anarchica anno 45 n. 399 giugno 2015