La risposta dalla locomotiva è jawohl, jawhol

Stazione Ferroviaria Milano Greco
Fonte: MI4345 Topografia della Memoria, cit. infra

Fino al 1923 comune separato da Milano, Greco, entrato a far parte del tessuto urbano, fu noto soprattutto come snodo ferroviario, per il quale passavano tutte le ferrovie anulari che circondavano Milano con lo smistamento del traffico in ogni direzione. Durante la dominazione nazista la stazione di Greco aveva pertanto una grande importanza strategica, anche perché vi si trovavano le più importanti officine di riparazioni del Nord Italia, presidiate in permanenza dalle SS.
Da lì passarono, nell’inverno 1943-44, trecentomila tonnellate di merci dirette in Germania, segno dell’asservimento totale del sistema industriale italiano alle esigenze belliche della Wehrmacht. I nazisti cercarono anche di mimetizzare gli edifici dipingendoli di verde e giallo, per proteggerli dai bombardamenti alleati. È evidente che molte azioni di sabotaggio della Resistenza fossero concentrate sulle linee ferroviarie, sia per ridurre la spoliazione del nostro patrimonio industriale, sia per liberare i prigionieri rinchiusi nei carri diretti ai lager. Si parla di oltre 5500 azioni di sabotaggio nell’Italia settentrionale, con distruzione di centinaia di locomotive, vagoni e ponti.
Il 25 giugno 1944 a Milano Greco i partigiani attaccarono la stazione e l’officina, diverse esplosioni distrussero sette locomotive tedesche e un importante deposito di carburante. Per rappresaglia i tedeschi fecero fucilare da militi della legione Ettore Muti, tre ferrovieri, Antonio Colombi, Carlo Mariani e Siro Marzetti, che non erano responsabili dell’attentato, ma che, scrive il «Corriere della Sera» del 16 luglio 1944 su ordine del Comando tedesco, «distribuendo volantini e scritti comunisti incitanti il popolo all’assassinio e ad atti di sabotaggio… si erano messi allo stesso livello dei sabotatori, appoggiandoli e quindi condividendone le colpe».
Il 23 aprile 1945 alla stazione di Greco il magazzino di approvvigionamento fu conquistato dai partigiani, dopo il disarmo delle guardie fasciste. Il 24 i ferrovieri di Greco andarono in aiuto degli operai della vicina Pirelli, che combattevano per salvare la fabbrica dalla distruzione. Il 26 fu bloccato un treno merci in partenza per la Germania: i partigiani riuscirono a conquistarlo e a portarlo in salvo a Corsico.
Oggi la vecchia stazione di Milano Greco non esiste più ed è stata sostituita dalla nuovissima stazione Greco-Pirelli. Sopravvive, però, nel ricordo dei tanti che anche lì hanno lottato per conquistare la libertà per il nostro Paese.
Guido Lorenzetti, MI4345 Topografia della Memoria

Pagine di storia tratte dalla rivista “ancora IN MARCIA!” dell’aprile 1994.
1943: i ferrovieri escono da un ventennio particolarmente duro. Nel ’23 sono stati aboliti i vincoli sull’orario di lavoro e decurtati i salari, mentre è partito un programma che porterà a ridurre gli organici di un terzo, obiettivo, questo, raggiunto anche grazie a 47.000 licenziamenti politici. Nel ’25 viene sciolto il Sindacato (SFI), mentre una delibera del Gran Consiglio vieta lo sciopero ad alcune categorie, compresi i ferrovieri. L’anno dopo viene soppressa la rivista “In Marcia”. Subito dopo l’8 settembre 1943, il corpo specializzato del genio ferrovieri della Wehrmacht, disloca presidi in tutti i principali impianti della rete; inoltre i treni sono spesso scortati da un soldato che prende posto in cabina di guida. Il traffico ferroviario assume un’importanza strategica fondamentale: basti pensare che tra il febbraio e l’aprile ’44, diciottomila carri trasportano trecentomila tonnellate di merci dall’Italia alla Germania (con un calo a marzo, dovuto alla settimana di scioperi nelle fabbriche). Intanto vanno costituendosi i primi nuclei di partigiani e di ferrovieri, con lo scopo di sabotare le linee ed interrompere il traffico. Oltre che di fermare i treni merci ed i trasporti militari, si tratta di cercare di ostacolare il più possibile la marcia dei treni diretti ai campi di concentramento. Spesso si è detto che il coinvolgimento dei ferrovieri nella “battaglia dei binari” in Italia è stato inferiore a quello di altri paesi, della Francia in particolare. Se ciò è vero in generale, bisogna comunque tener presente, da un lato, che in alcuni casi i ferrovieri agiscono individualmente con azioni spontanee (come liberare di propria iniziativa i prigionieri dai treni, introdurre nei carri destinati al trasporto dei deportati dei gancetti per schiodare le assi, trazionare a strattoni per rompere i ganci di traino, eccetera), dall’altro che in alcune zone e situazioni l’azione e la lotta assumono un’intensità notevole. In tutto il periodo che va da giugno ’44 al marzo ’45, vengono compiute, secondo i bollettini di guerra del CVL, 5571 azioni di sabotaggio, che provocano la distruzione di 230 locomotive, 760 vagoni e 276 ponti. La maggior parte di queste è concentrata nel Veneto (Vicenza – Schio – Padova – Treviso) e in Piemonte (province di Novara e Vercelli). Sul fronte degli scioperi, agitazioni e scioperi bianchi sono segnalati in alcune località, senza alcun collegamento fra essi, come nel nodo di Bologna, subito dopo l’8 settembre ’43, e nell’Officina di Vicenza nel dicembre ’43. Alla settimana di scioperi del marzo ’44 i ferrovieri partecipano solo in poche realtà isolate. Vi partecipano compatti i tramvieri milanesi, e ciò influisce notevolmente sugli effetti dello sciopero. In un primo tempo vengono sostituiti dai fascisti della “Muti”, ma questi hanno più dimestichezza con il manganello che con il tram, e la sera vi sono numerose vetture sfasciate. Agli scioperanti verranno addebitati i danni, inoltre 60 di essi saranno deportati nei campi di concentramento, dove 38 moriranno.
Ciò che, in generale, caratterizza le lotte operaie del ’44, è l’intreccio sempre più stretto tra rivendicazioni economiche-logistiche e la presa di coscienza di farla finita con il fascismo. In questo senso, l’agitazione ferroviaria di maggior rilievo è quella che inizia l’11 settembre nel nodo di Torino, e che va avanti per alcuni giorni. Le autorità cercano, riuscendovi, di impedire che la lotta sia estenda ai compartimenti limitrofi, facendo immediatamente delle concessioni: così, ad esempio a Milano, vengono distribuiti viveri, biciclette e scarpe, adeguando alcune indennità economiche. Nel frattempo la lotta di Torino va avanti, e solo dopo una settimana, prima con lusinghe e ritocchi alle competenze, poi con la forza e con minacce di ritorsioni alle famiglie degli scioperanti, due su tre riprendono il lavoro, non prima che siano state sabotate alcune linee e la piattaforma girevole in deposito. L’adesione dei macchinisti torinesi allo sciopero è totale, ed una parte di essi non rientra più in servizio collegandosi alle formazioni partigiane. La propaganda clandestina va lentamente intensificandosi, e nel febbraio ’45 appare il primo numero del giornale “IL FERROVIERE”. […] Ma chi colpirà agirà dall’interno. Quello delle incursioni aeree rappresenta un esempio costante della barbarie di ogni guerra. Quattro ferrovieri, quattro uomini che conoscono ogni angolo delle Officine, vengono reclutati per un’azione di sabotaggio dalla 3^ brigata GAP “Rubini”. L’azione è descritta nel libro “SENZA TREGUA-LA GUERRA DEI GAP” di Pesce, Gappista [nome di battaglia Visone] che partecipa alla stesura del piano.
E’ una notte stellata, quella del 25 giugno a Greco. Un treno si ferma alla stazione, da terra viene gridato un ordine, la risposta dalla locomotiva è: “jawohl, jawhol”. Poi il treno riparte, successivamente due sentinelle si scambiano le consegne presso il fabbricato di viaggiatori. Dalla parte opposta, quattro uomini camminano curvi sull’erba di un prato, portandosi a ridosso delle Officine. Hanno con sè quasi un quintale di esplosivo, suddiviso in pacchi, ciascuno con una miccia di venti minuti. Verranno collocati nei forni di combustione delle locomotive a vapore e nel “traghetto”, il ponte mobile che corre lungo una fossa collegando tra loro i capannoni. Ora i quattro sono stesi a terra, studiano il percorso di una sentinella. Poi si dividono, su è giù dalle scalette delle locomotive. Una ha il forno acceso, ed allora il tritolo viene destinato alla cabina A.T. di un locomotore elettrico. Tutto procede, manca il ponte mobile, si sente un rumore di stivali sui binari ed improvvisamente uno grida in tedesco. I quattro devono restare immobili, forse la sentinella non si è accorta di nulla. Infatti una voce dall’altro lato dello scalo gli risponde, e la sentinella si allontana. Via, non c’è più tempo, le micce hanno quasi finito la corsa. La carica destinata al “traghetto” viene collocata tra gli assi di una locomotiva con il forno acceso, ma c’è un altro imprevisto: un ferroviere sale per riposare su un locomotore minato. E’ un attimo, uno dei quattro torna indietro, prende la carica e la deposita su un altro locomotore. Sono ancora in fuga, quando avvengono le esplosioni a distanza ravvicinata. Un momento dopo brucia il serbatorio dei lubrificanti, mentre parte il fuoco delle armi delle sentinelle. Ma i quattro sono in salvo. Dopo giorni di interrogatori e di perquisizioni, quaranta ferrovieri di Milano Greco vengono arrestati una mattina, al loro arrivo alle Officine. Sono tradotti in carcere, qualcuno viene torturato, ma il muro del silenzio tiene: nessuno parla. Non parlano neanche Antonio Colombo, Carlo Mariani e Siro Marzetti. Sono antifascisti, gli hanno trovato addosso dei volantini. In carcere non verranno torturati, non sono minimamente sospettati di essere gli autori del sabotaggio. L’ultima notte della loro vita la passano su un tavolaccio del carcere. Poi, la mattina del 15 luglio, un furgone li conduce a Greco. Ma quella mattina non riprenderanno il lavoro. Una raffica li falcia davanti agli altri operai, radunati con la forza ad assistere alla rappresaglia. Così muiono i tre martiri di Milano Greco. Ma noi pensiamo che oggi, a sessantasette anni di distanza, il modo migliore di ricordare il sacrificio di questi nostri compagni, sia quello di lottare con coscienza e dignità di classe, perché tre operai ci hanno insegnato che queste sono due cose che non vengono meno neanche di fronte alla morte. […]
Bartolomeo Fiorilla

Ai primi di giugno si apre la cosiddetta “battaglia dei binari” a Greco-Pirelli, periferia a nord di Milano. Greco ha vissuto una delle pagine più buie dell’8 settembre con la sfilata di migliaia di carri merci contenenti soldati dell’esercito in rotta, prigionieri, ebrei che disperatamente chiedevano aiuto lanciando bigliettini all’esterno dei vagoni.
L’obiettivo del Comando Volontari per la Libertà 27 è quello d’impedire gli spostamenti di truppe tedesche sui fronti orientali (di lì a poco la Waterloo tedesca si chiamerà Stalingrado) e su quelli occupati negli scontri con gli anglo-americani. La stazione di Greco è anche officina di riparazione di motrici danneggiate da bombardamenti e dalle incursioni aeree.
Entrato in contatto con i ferrovieri di Greco, Pesce riesce ad arruolarne quattro per l’operazione: Guerra, Ottoboni, Conti e Bottani tutti in collegamento con le staffette “Sandra” (Onorina Brambilla, futura moglie di Giovanni Pesce) e “Narva” (Isa De Ponti), fondamentali tasselli dell’operazione con l’importante compito del trasferimento dell’esplosivo (all’incirca un quintale) dal deposito clandestino di Rho a Milano.
Il 6 giugno una catena di esplosioni distrugge cinque locomotive, due grossi locomotori, un carrello trasportatore e un deposito di carburante.
Su mandato del feldmaresciallo Kesserling, il vero autocrate dell’Italia occupata, venti giorni dopo saranno fucilati tre antifascisti: Colombi, Mariani, Mazzelli. Sorpresi con addosso dei volantini di propaganda antifascista, sono completamente estranei all’attentato, ma nonostante ciò sono ugualmente condannati a morte perché ferrovieri, italiani e antifascisti mentre i loro compagni di lavoro sono costretti ad assistere all’esecuzione. I tedeschi, non riuscendo a rintracciare gli esecutori materiali dell’azione, invocano comunque giustizia e seppur implacabilmente sommaria applicano la feroce legge di guerra.
27 Ai primi di luglio, l’universo delle formazioni partigiane si unifica sotto un’unica sigla ed un unico comando: Corpo Volontari della libertà. Il Comando generale dei volontari della libertà delibererà a maggioranza semplice e collegialmente. E’ diviso in quattro sezioni: operativa, sabotaggio, mobilitazione e servizi.
Giorgio Vitale, L’altra Resistenza: i GAP a Milano, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, anno accademico 2008-2009

Il 24 giugno 1944 nella “battaglia dei binari” alla stazione di Greco, un bersaglio di straordinaria importanza, Sandra [Onorina Brambilla] è il collegamento tra i ferrovieri e i gappisti e con la compagna Narva porta i 14 ordigni che, piazzati nei forni di combustione delle locomotive scoppiano simultaneamente; l’azione dei Gap viene citata da Radio Londra.
Ross Rox, Onorina Brambilla Pesce “Sandra”, Anpi Corsico per il 25 Aprile, 6 novembre 2020

Con il nome di Sandra, Onorina, vent’anni compiuti nell’estate cruciale del 1943, a piedi o in bicicletta percorre instancabile le strade di Milano.
Nell’organizzazione clandestina III GAP «Egisto Rubini», il suo compito è garantire il rapido passaggio delle comunicazioni partigiane, badando alla segretezza, alla completezza, e alla puntualità di ogni messaggio. Ogni ritardo e ogni imprecisione significano la cattura o la morte di un partigiano.
Onorina non trasporta soltanto messaggi. Consegna le armi ai gappisti, le riconsegna al Comando, le nasconde dopo le azioni, porta a destinazione i pacchetti di esplosivo, e nel giugno ’44 sarà lei l’agente di collegamento tra partigiani gappisti e ferrovieri della stazione Greco, quando 14 ordigni, piazzati nei forni di combustione delle locomotive, esploderanno nella cosidetta “Battaglia dei Binari”, citata anche da Radio Londra come operazione coraggiosa e esemplare.
Redazione, Onorina Pesce Brambilla, ANPI Pavia Sezione Onorina Pesce Brambilla

 

Greco. Giugno 1944. E’ un piccolo lembo della periferia milanese, isolato dalla città da fasci di binari ferroviari che ne tagliano in due il centro. Non è un luogo attraente: il fumo delle locomotive ha annerito le case e il ponte sul quale corre la strada angusta verso Prato Centenaro, le cascine, le ville padronali. La guerra ha intristito ancor di più il luogo: un senso di desolazione grava su tutto. Le ville sono state abbandonate dai proprietari, trasferitisi in luoghi sicuri, lontano dai bombardamenti. Da più di venti anni la palazzina comunale ignora i dibattiti democratici del consiglio. Un tempo il sindaco, dopo il lavoro, andava a fare una partita a carte all’osteria o a barattare quattro chiacchiere in farmacia o sui cantieri. Ma del mondo di allora è scomparso anche il ricordo. La gente ora, è diversa. Molti di quelli che abitavano in questo angolo di Milano sono lontani e forse non rivedranno più le loro case. Sono giovani che la guerra ha trascinato in paesi sconosciuti, dove non avrebbero mai immaginato di rimanere come soldati dell’Asse. A Greco è arrivata altra gente: duri, ostili, uomini della Feldgendarmerie, del Genio ferroviario della Wehrmacht e delle SS, diffidenti, sospettosi di tutto, anche dei fascisti, sono incaricati di controllare, di sorvegliare il funzionamento delle grandi officine di riparazione ferroviaria.
Molti i ferrovieri: quando lavorano non possono fare un passo senza essere seguiti dalla sentinella, come nei campi di concentramento; conversano a bassa voce e si interrompono bruscamente allorché si avvicina un collaborazionista.
Lungo i binari che transitano da Greco, sotto il ponte grigio del cavalcavia, sono sfilate a migliaia lunghe colonne di carri merci, una parte notevole del dramma dell’8 settembre è stata recitata davanti alla palazzina grigia della stazione di Greco, sotto gli occhi dei ferrovieri e della gente di questo piccolo angolo di Milano. Dai vagoni bestiame, sprangati e sigillati, si sono levate di giorno e di notte, invocazioni di aiuto e sono stati lanciati biglietti disperati.
Quando era possibile, qualche vagone è stato forzato e il macchinista ha rallentato in curva più del necessario. Qualcuno ha potuto saltare in tempo dal treno diretto verso i campi di raccolta e i campi di sterminio. La mano di un ferroviere di Greco, aprendo uno spiraglio ha potuto lanciare nei carri-merci una borraccia d’acqua, un pezzo di pane.
Gli uomini del distaccamento della Feldgendarmerie non si fidano dei ferrovieri, non si fidano di nessuno, vivono nell’isolamento della paura, mentre la popolazione vive nell’angoscia, affamata, martellata dalle incursioni aeree, insidiata dai rastrellamenti delle brigate nere, minacciata dall’incubo delle deportazioni, dalle fucilazioni. Ma anche per la gente di Greco il tenue filo di speranza si ingrossa, mentre su tutti i fronti la situazione dei nazisti va precipitando.
La Wehrmacht subisce colpi durissimi sul fronte dell’Est e il preannuncio della catastrofe si chiama Stalingrado. I partigiani di tutta Europa passano all’offensiva, colpiscono senza pietà il nemico. Sul fronte occidentale la pressione degli anglo-americani si fa incalzante.
In Italia ha inizio “la battaglia dei binari,” l’obiettivo del comando militare del C.V.L. Azioni di sabotaggio devono impedire spostamenti di truppe tedesche sui fronti minacciati dall’offensiva sovietica o dagli attacchi anglo-americani. Greco diventa zona di operazione; e un bersaglio importante; vi transitano le linee ferroviarie verso i valichi svizzeri; le linee anulari che circondano Milano e si spingono in ogni direzione. Ma l’importanza del nodo ferroviario di Greco è accresciuta dalla presenza delle officine di riparazione, affollate di motrici sfasciate dai bombardamenti e dai sabotaggi.
Ogni giorno la direzione ferroviaria di Greco riceve sollecitazioni telegrafiche sempre più pressanti dai vari compartimenti e dai responsabili territoriali del Genio ferrovieri hitleriano. Il traffico ferroviario si svolge in ore notturne per sfuggire ai bombardamenti alleati, ma non riesce a sottrarsi all’attività dei partigiani. I mezzi colpiti dalle incursioni o dai sabotaggi non sono spesso ne trasportabili, ne recuperabili, tuttavia i locomotori danneggiati giungono continuamente a Greco. E’ qui, dunque che il sistema di comunicazione della Wehrmacht deve essere scardinato.
Il comando regionale delle formazioni garibaldine, ai primi di giugno, ordina una delle più importanti azioni di sabotaggio della Resistenza, affidandone it compito alla 3a brigata GAP “Rubini.”
La formazione ha subito gravi perdite e molti dei suoi combattenti hanno dovuto lasciare la città per evitare la cattura e trasferirsi in montagna. Il nemico aveva individuato troppe basi e colpito troppi patrioti. Al logorio degli uomini si è aggiunto il dubbio che fossero ormai facilmente individuabili dai fascisti e dalla Gestapo. Nel giugno del 1944 la brigata “Rubini” è decimata al punto che occorre, più che organizzarla, ricostruirla con forze fresche.
Riesco a reclutare quattro ferrovieri: Guerra, Ottoboni, C. e Bottani; tutti e quattro di Greco.
Due ragazze, compiono frequenti viaggi da Milano a Rho.24 Le strade che dalla città conducono in provincia sono sempre affollate. La speranza di trovare un po’ di farina per sfuggire alle insopportabili restrizioni del tesseramento spinge molte massaie a compiere pellegrinaggi annonari alle cascine e alle case dei contadini. Non è strano che due ragazze, Sandra e Narva, scendano anch’esse, assieme a molte altre donne, al capolinea del vecchio tranvai, l’ormai famoso “gamba de legn,” a Rho, con le borse vuote e che, qualche ora dopo, risalgano sullo stesso trenino per Milano, con le borse piene. Ma non sempre il viaggio col trenino è possibile, a causa dei bombardamenti, dei mitragliamenti e dei ritardi enormi. Allora Sandra e Narva salgono sulle loro biciclette e pedalano verso Rho. Pedalano vigorosamente, quelle due ragazze minute, dall’aria sbarazzina, con gli alti tacchi di sughero. I militi le conoscono per i loro frequenti viaggi in bicicletta, rispondono ai loro sorrisi, senza darsi la briga di frugare nelle loro borse o gettandovi soltanto un’occhiata distratta. Alle volte capita alle ragazze di farsi portare i loro carichi di esplosivo da qualche poliziotto galante. Tra qualche anno le soprannomineranno le “signorine tritolo.”
Nel 1944 Sandra e Narva sono tra le più attive staffette gappiste. Scarseggia l’esplosivo alla brigata “Rubini” e bisogna prelevarlo dal deposito clandestino di Rho e trasportarlo a Milano. Per l’operazione di Greco ne occorre poco meno di un quintale. La cautela necessaria, sia per eludere la vigilanza dei nazifascisti, sia per evitare incidenti nel trasferimento del pericoloso materiale suggeriscono di scegliere Sandra e Narva.
Il trasporto dell’esplosivo è effettuato in piccole quantità con successo. A Milano, il tecnico si mette subito al lavoro e dopo alcuni giorni comunica che tutto è pronto.
Visone, a sua volta, lo comunica a Guerra, capo dell’operazione. Con Guerra riesamina ogni particolare, determina con estrema precisione gli obiettivi, stende il piano nei minuti particolari. Guerra e un giovane tranquillo e cordiale. Alla vigilia sarà di una serenità sorprendente. Non lo si direbbe affatto un “novellino” che partecipa alla sua prima azione. A Greco gli vogliono bene. Lo sanno un buon lavoratore, ha molti amici fra i compagni delle officine, ed e benvoluto dalla gente della vecchia cascina dove abita. E’ a pensione presso un’anziana signora che gli ha affittato una stanzetta al piano terreno. Dalla finestra Guerra vede il via vai dei poliziotti tedeschi che escono ed entrano dal comando. La villa padronale, contigua alla cascina dove egli abita, è stata requisita dalla Kommandantur ed assegnata alla Feld-gendarmerie. Sono gli stessi uomini che Guerra incontra nell’officina ferroviaria e che sembrano volerlo perquisire con lo sguardo. Il capo dei gappisti ferrovieri di Greco è sempre a pochi metri dai poliziotti; al lavoro lo sorveglia una sentinella; a casa, oltre la finestra, il corpo di guardia del comando. Le bombe verranno consegnate a Guerra che si affretta a cercare un nascondiglio sicuro. All’esterno i passi pesanti degli uomini della polizia militare tedesca echeggiano sul selciato del cortile confusi con le risate dei militari a mensa.
Sandra è incaricata di far affluire le bombe sul luogo stabilito.
I convogli che transitano per Greco hanno un’aria furtiva. Gli edifici ferroviari, i serbatoi d’acqua in cemento sono stati sottoposti da tempo a trattamento di cosmesi. Colori gialli, verdi, olivastri, si intrecciano a tinte cupe. L’effetto della “mimetizzazione” è sconcertante.
Dall’alto dovrebbe apparire come un innocuo podere coltivato a grano e ad erba medica. Ci sono voluti laboriosi progetti e l’impiego di esperti. Per Guerra, Ottoboni, C. e Bottani la “mimetizzazione” non ha alcun senso. Le locomotive ai quattro gappisti ferrovieri sono tanto familiari quanto l’incudine a un fabbro. E le locomotive sono allineate, inconfondibili, sotto le reti mimetiche, sui binari che conducono alle varie corsie dell’ospedale “ferroviario” di Greco. Anche le sentinelle tedesche che di notte passeggiano a passi cadenzati davanti agli impianti e si fermano di colpo al primo rumore insolito fanno parte dello scenario consueto.
Ecco, il nemico è lì, si chiama Fritz o Rudolf o Heinz, qualche volta saluta e sorride. I ferrovieri di Greco rispondono al saluto, intuiscono che Rudolf ha una ragazza che lo aspetta al paese; che Fritz, più anziano e grasso, ha almeno un paio di figli e una bottega di artigiano e che Heinz, scuro in volto, deve aver più di una preoccupazione. Ma vi sono anche l’Hauptmannkommandant, responsabile degli impianti di Greco, gli squadristi, Mussolini e Hitler, i vagoni bestiame sigillati carichi di donne, di uomini, di vecchi e di bambini, diretti al Nord, verso la Germania. A questo punto che cosa ha ancora importanza? Il ricordo forse degli esami di concorso del personale ferroviario? Le pedanti do-mande degli esaminatori? L’affetto per le grandi macchine nere? Adesso tutta la conoscenza e tutta l’esperienza accumulata in anni di lavoro confluisce nella preparazione dell’azione di sabotaggio.
Se ne accorge Visone, quando nel corso di una delle ultime riunioni, alla vigilia della grande operazione, discute i dettagli del piano.
Guerra e gli altri sono operai che conoscono pezzo per pezzo le locomotive e ogni angolo delle officine. Si stabilisce di collocare i pacchi di esplosivo con micce da 20 minuti nei forni di combustione delle macchine a vapore; di distruggere l’apparato motore e di comando dell’impianto di sollevamento e spostamento delle locomotive, il ponte mobile, che scorre lungo una fossa, tra i grandi capannoni ferroviari di Greco. Bloccandone l’attività, s’impedisce l’afflusso degli altri mezzi danneggiati e si impedisce l’uscita delle locomotive riparate.
Le ore della vigilia sono interminabili. I quattro si accorgono di guardare con occhi diversi non solo i tedeschi, ma il repubblichino che dirige gli impianti, i loro compagni di lavoro che non sanno. Immaginano i volti degli operai, dei capisquadra e di tutti gli altri, “il giorno dopo.” Non è più il momento di pensare. Bisogna scacciare i ricordi che tentano di riaffiorare, i lontani echi dei giorni sereni. Sono ricordi chiari, di gente semplice: una gita con gli amici, una lontana festa in famiglia, il volto di qualcuno cui si vuol bene.
E notte, una notte di guerra. I quattro sono stesi sulla proda di un fossato, con i loro carichi micidiali guardano i profili scuri della stazione e dell’officina, i blocchi cilindrici dei serbatoi d’acqua che si stagliano nitidamente nella notte stellata. E’ passato un convoglio che ha sostato brevemente nella stazione: lo sferragliare sui binari si è interrotto, forse per una comunicazione ai sorveglianti tedeschi che viaggiano sul treno.
Si è udito gridare un ordine e dalla locomotiva rispondere:
” Jawohl, Jawohl. “
Il convoglio e ripartito. Di tanto in tanto si avverte solo il passo cadenzato delle sentinelle davanti alle officine deserte. Un sasso cade sul metallo con un lungo tintinnio. Da lontano arriva it ronzio sordo degli stabilimenti Pirelli, dove si lavora anche la notte. Ii vento cambia direzione e porta altrove quella eco di vita. Ritorna il silenzio.
Ecco, è il momento. Guerra è gia scattato in piedi, lo seguono Ottoboni, C. e Bottani: tra poco quando le due sentinelle tedesche si scambieranno le consegne presso la palazzina della stazione, i quattro partigiani entreranno dalla parte opposta nell’interno dello scalo. Percorrono un breve sentiero, camminando curvi sull’erba di un prato che finisce proprio a ridosso dei binari.
“Accidenti, forse era meglio fasciarci le scarpe con gli stracci…”
L’imprecazione è provocata dallo scricchiolio della ghiaia spostata nella “zona proibita.”
Ora è il momento di separarsi, di ricordare le proprie istruzioni e quelle degli altri per non correre il rischio di scambiare i compagni per i tedeschi. Tra poco la sentinella inizierà il suo andirivieni: è meglio affrettarsi, superare di corsa gli ultimi cento passi, che portano alle locomotive ferme in attesa dell’ispezione. Ogni metro è familiare ai quattro gappisti ferrovieri. Un passo pesante si avvicina. Bisogna nascondersi in fretta. Ci sono cespugli lungo le pareti dell’officina e ai piedi delle mura di cinta. I quattro si stendono a terra. Trattengono il respiro. Rimangono accovacciati, immobili, sentendo il battito tumultuoso del proprio cuore.
Guerra aguzza lo sguardo e strizza gli occhi. Un rumore lo fa rituffare a testa in Ottoboni stringe i denti e si getta a terra premendo il petto contro il suolo. L’eco dei passi si avvicina, poi la sagoma della sentinella spunta all’angolo esterno del capannone. E’ meglio controllare le rivoltella.
Ottoboni e C. stanno rattrappiti. Guerra sente un formicolio gelido corrergli per la schiena. Stringe forte la rivoltella. Se it tedesco si avvicina troppo, sarà facile colpirlo. Ma lo sparo darà l’allarme. La sentinella s’allontana proiettando metodicamente la luce della torcia elettrica sulle locomotive e sui binari. Non si può ancora passare all’azione. Bisogna aspettare che passi almeno tre o quattro volte, accertarsi che non cambi il suo itinerario. I quattro attendono, stesi lungo il muro di cinta. Al loro fianco si apre la fossa delle locomotive, davanti al muro si unisce al fabbricato dell’officina, alle spalle c’e un ampio passaggio tra il muro e la seconda officina. da la che potrebbe spuntare, all’improvviso, la sentinella scrupolosa.
Finalmente si odono di nuovo i passi del soldato, il rumore di stivaletti corti, la cadenza di un uomo non molto giovane.
Spunta dal medesimo angolo dell’officina, percorre lo stesso tragitto: non sembra tipo da procurare sorprese. Anzi il ritmo del suo andirivieni accorda un minuto in più sul tempo calcolato. Un minuto guadagnato. L’eco dei passi si allontana. Guerra, il primo dei quattro stesi a terra, da il segnale: “Prima le locomotive e ricordiamoci che il tempo delle micce è di venti minuti.”
Si mettono in cammino, cauti lungo i binari. Lontano brilla una fiammella, poi si spegne, la sentinella ha acceso una sigaretta.
La scaletta in ferro di una locomotiva ha una decina di pioli, che di solito si superano d’un balzo, ma di notte con un carico di tritolo a tracolla, possono fare incespicare. Uno dei quattro picchia un ginocchio contro il metallo: i denti mordono le labbra per frenare l’imprecazione.
Una locomotiva ha il forno acceso; Guerra deve scendere rapidamente dalla cabina, precipitarsi all’interno di una delle officine, salire su di un locomotore elettrico. Ha ancora tutte le cariche da innescare.
Gli è parso di vedere una fiammella, una piccola luce rossa. Uno degli altri ha già innescato una miccia e il tic tac dell’orologio ha un battito affannoso. Il corridoio del locomotore elettrico è uno stretto budello; ma permette di usare una lanterna cieca. Apre il portello del vano motori e finalmente accende anche lui la sua miccia. Ha qualche difficoltà a tener ferma la mano. È ansia? 0 l’affanno della corsa per raggiungere l’officina? Venti minuti di tempo. Quanti ne sono trascorsi? Quattro, cinque? Al massimo sei. Ecco un’altra locomotiva a vapore. Il metallo è freddo, il forno e spento. Un balzo, senza inciampare. Le mani sicure aprono il portello del forno, collocano la carica al centro. Il vano del forno si trasformerà in una potente camera di scoppio. L’ansia del rischio va attenuandosi. Si è già a buon punto e si conta di finire prima del previsto. Cinque locomotive dovrebbero essere state minate. A Guerra restano ancora due cariche. Gli altri probabilmente hanno già terminato. Gli sembra che si stiano dirigendo verso il punto di partenza. Non è cosi: camminano circospetti, uno si stacca dal gruppo e sale su una macchina, una fiammella si accende, si spegne di colpo. Rumore di passi. Quanti minuti saranno trascorsi dall’innesco della prima carica? Dieci, quindici? Chi ha acceso l’ultima miccia deve rimanere immobile accanto al filo sottile che brucia, nascondendo il lieve chiarore con la mano. Millimetro per millimetro la piccola brace rossastra avanza. Avanzano anche gli stivali sui binari, si avvicinano alle locomotive minate. Guerra deve ancora collocare una carica nel motore del “traghetto,” come chiamano familiarmente i ferrovieri l’apparato di spostamento delle locomotive da un binario all’altro. L’uomo che ha attraversato i binari improvvisamente grida in tedesco.
Guerra è come paralizzato. La voce che grida, si fa sempre più vicina. Non muovere la mano, non toccare le armi, forse il tedesco non ha visto. Un movimento, un gesto lo noterebbe. Guerra resiste; ma riusciranno anche gli altri? Ognuno si pone la stessa domanda. Tutti rimangono immobili.
Non si capisce cosa gridi la sentinella, ma dall’altro lato dello scalo, una voce gli risponde. Un uomo attraversa i binari. Poi si ferma. Lo si intravede, con un piede sul viottolo di ghiaia e l’altro su una traversina. Qualcosa gli luccica nell’occhio destro, forse un monocolo. L’uomo alza il piede, supera il binario, si avvia verso la stazione.
Ora non resta più tempo per essere prudenti. Le micce hanno quasi finito la loro corsa. Guerra è vicino ad una locomotiva con il forno acceso. Innesca la miccia e la colloca tra gli assi della macchina. Resta un’altra carica. “Ragazzi, scappiamo.”
Ad un certo momento Bottani vede un’ombra muoversi nell’oscurità che risveglia in lui, bruscamente un ricordo: si ferma allibito pieno di stupore. Mentre il gruppo si allontana Bottani scatta di corsa verso il locomotore da dove è appena sceso.
Un ferroviere ne ha aperto la porta per andarvi a riposare. Ma quel locomotore è destinato ad esplodere. Che cosa accade all’interno del locomotore? Bottani ne scende con l’ordigno la miccia accesa e si precipita verso un altro locomotore. Di corsa raggiunge il gruppo.
Gli chiedo:
“Come mai hai tardato? ” “Quello là stava per andare a dormire vicino all’ordigno. L’ho spostato su un altro locomotore. Certo il ferroviere dovrà svegliarsi bruscamente.”
Può avere importanza l’intervallo fra una deflagrazione e l’altra?
Non parrebbe a prima vista ma una esplosione unica rivelerebbe immediatamente l’attentato. Gli scoppi si susseguono tutti e quattro come un bombardamento a tappeto. I tedeschi non sparano. Non si precipitano a bloccare le strade attorno alto scalo. I quattro hanno il tempo di fuggire prima che i nazisti si rendano conto dell’assenza del rumore degli aerei. Dopo gli scoppi, si accendono le fiamme del serbatoio dei lubrificanti. Adesso crepitano le “machine-pistole,” le “machinengewehr,” persino la mitragliatrice a quattro canne; se ne scorgono le scie traccianti dei proiettili nel cielo limpido. Ma i quattro ormai sono tranquillamente sulla via di casa.
Guerra ha il suo lotto in una stanza a ridosso del corpo di guardia Feldgendarmerie. Vicino alla cascina dove abita scorge una donna anziana che si cala in una buca, rifugio antiaereo di fortuna. E una vecchia buca ad un paio di metri sotto terra, adibita a deposito di vino. Nella fossa appena illuminata da un lucignolo Guerra si scontra con un avversario imprevedibile e naturalmente imprevisto, la sua padrona di casa, la buona donna che gli ha affittato una delle stanze.
“Lo so che è stato lei a fare quegli scoppi,” urla la donna in preda al terrore. Guerra tenta di calmarla. Lo colpisce la sua intuizione.
“Lo so che è stato lei a fare tutto quel fracasso. Chissà che cosa succederà adesso…”
Un viso dolce da nonnina, senza nessuna cattiveria. Ma grida troppo forte. Qualcuno potrebbe udirla. La Feldgendarmerie si trova in linea d’aria a soli tre metri.
Guerra riflette: si tratta di provocarne un altro, innocuo choc: abbracciarla, un po’ per calcolo, un po’ con affetto, cara, buona e vecchia nonnina.
Il silenzio torna nel piccolo, incredibile rifugio scavato nel cortile della cascina. Guerra e la nonnina si guardano in silenzio. Fuori non sparano più, gridano. Il ferroviere partigiano va a letto. Davanti alla sua finestra corre via l’ultimo degli uomini disponibili della Feldgendarmerie, il cuoco, costretto a partecipare a un rastrellamento di emergenza. […]
Giovanni Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, 2013