La Rosa Bianca che si oppose a Hitler

Hans e Sophie Scholl – Fonte: Sale.Scuola Viaggi

Sophie Scholl fu ghigliottinata a 21 anni, su sentenza del Tribunale del popolo di Monaco di Baviera, il 22 febbraio 1943, per tradimento contro lo stato e il Führer. Insieme a lei vennero decapitati il fratello Hans, Christoph Probst e, due mesi dopo, Alexander Schmorell, Willi Graf e il loro professore di filosofia, Kurt Huber.
Sophie amava la danza e le buone letture. Insieme agli altri aveva dato vita a la Rosa bianca, piccolo gruppo di resistenza antinazista. I cinque giovani, insieme al professor Huber, nel corso del 1942 e nelle prime settimane del 1943 avevano sfidato il regime nazista, stampando e diffondendo clandestinamente in Germania e Austria sei volantini contro Hitler. Quei fogli raccontavano gli orrori che si stavano consumando ai danni degli ebrei, informavano delle sconfitte militari naziste, una su tutte Stalingrado, facevano appello ai grandi ideali della cultura e alle lezioni della storia, esortavano i tedeschi alla ribellione, al sabotaggio, alla diserzione. Non si fermavano alla superficie delle cose, non si rassegnavano all’acquiescenza che molti dimostravano verso il regime nazista. La loro amicizia era luogo di confronto, opportunità di andare a fondo di ogni aspetto della realtà, fino a riconoscere e smascherare il volto disumano di un’ideologia totalitaria cui pure, in un primo momento, alcuni di loro avevano aderito. La libertà con cui e a cui erano stati educata in famiglia maturò in essi una sensibilità che ben presto svelò la menzogna delle promesse di Hitler. Erano tutti cristiani, però di confessioni differenti: protestanti evangelici erano Sophie e Hans Scholl, cattolici Willi Graf e il professore Kurt Huber, ortodosso Alexander Schmorell; Christoph Probst chiese di essere battezzato prima della morte. Fu l’esperienza personale che suscitò in loro delle domande a cui non riuscivano a dare una risposta ragionevole: perché non potevano scegliere loro stessi gli autori che avrebbero voluto leggere? Perché dovevano essere proibiti i libri di autori ebrei? Perché era vietato cantare canzoni di altri popoli?
Giovedì 18 febbraio 1943, Sophie Scholl e suo fratello Hans, prima di andare all’università, riempirono una valigia con gli ultimi volantini stampati. Era una giornata di sole e i due erano soddisfatti del lavoro portato a termine: avevano trascorso le ultime notti accanto al ciclostile, nella cantina dell’atelier di un amico architetto, per stampare quante più copie potevano. Arrivati pochi minuti prima dell’apertura delle aule, distribuirono, con rapida decisione, i volantini nei corridoi, e vuotarono il resto della valigia dal secondo piano nell’atrio dell’università. Il custode però li vide, fece chiudere subito tutte le porte d’ingresso, e la Gestapo fu chiamata immediatamente.
Sophie e Hans, ormai in trappola, furono arrestati e condotti nel famigerato palazzo Wittelsbach, sede della Gestapo. Qui iniziarono gli interrogatori, durati ore e ore, giorno e notte. Privi di qualsiasi contatto col mondo esterno, non sapevano se fosse toccata la stessa sorte anche a qualcuno dei loro amici. Sophie apprese da una compagna di cella che anche Christoph Probst era stato arrestato, e quello fu l’unico momento in cui la giovane perse il controllo di sé, e fu quasi sopraffatta dalla tristezza e dallo sconforto: Probst, infatti, era padre di tre bambini piccoli, di cui uno appena nato. Era il membro del gruppo che più avevano tentato di proteggere. “Se c’è ancora un briciolo di onestà nel paese – pensò disperata Sophie – non può e non deve accadere nulla a Christl”.
Tutti quelli che ebbero occasione di vederli durante i giorni di carcere (gli altri prigionieri, il cappellano, i secondini, e perfino i funzionari della Gestapo), rimasero fortemente colpiti dal coraggio e dalla serenità del loro atteggiamento. La calma e la tranquillità che i membri della Rosa bianca trasmettevano contrastavano fortemente con la tensione febbrile che regnava nell’ufficio della Gestapo.
Il giorno dell’udienza gli imputati Sophie, Hans e Christoph sedevano eretti e silenziosi. Rispondevano con franchezza e distacco alle domande loro rivolte. Sophie, la quale per il resto parlò pochissimo, a un tratto disse: “Sono in tanti a pensare quello che noi abbiamo detto e scritto; solo che non osano esprimerlo a parole”. Il processo terminò con la condanna a morte di tutti e tre. I giovani vennero quindi trasferiti nel grande carcere di Monaco-Stadelheim, destinato alle esecuzioni capitali, situato vicino al cimitero posto al margine della foresta di Perlach. I secondini, in seguito, raccontarono che tutto il carcere rimase impressionato dal coraggio con cui i tre affrontarono la morte, dal loro sguardo mite e determinato.
La Rosa bianca non era un’organizzazione diffusa, strutturata, con collegamenti internazionali, sul modello della Resistenza italiana. Fu qualcosa forse di unico nella storia della lotta ai totalitarismi del Novecento. I giovani che ne facevano parte, infatti, non erano animati da un’ideologia, né erano iscritti a gruppi politici. Ispirati ai principi cristiani di fratellanza e di giustizia, credevano nella vita, anche a fronte della barbarie e del disprezzo per l’uomo che il regime aveva messo in atto. Erano animati dal coraggio di una fede più forte dell’odio, della repressione, della morte. Una fede che li aveva spinti ad assumersi tutta la responsabilità delle parole pronunciate e delle azioni compiute per risvegliare le coscienze del popolo tedesco cui appartenevano. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13), disse dopo la loro morte il cappellano del carcere, che nelle ultime ore li aveva assistiti con profonda compassione.
Redazione, Sophie Scholl, Monastero di Bose

«Strappate il mantello dell’indifferenza che avvolge il vostro cuore! Decidetevi prima che sia troppo tardi»
(da uno dei volantini della Rosa Bianca)
Sophie Scholl aveva meno di 12 anni quando i nazisti presero il potere; seguendo il fratello Hans, ed insieme alle sorelle Inge ed Elisabeth, entrò a far parte, contro la volontà paterna, della Hitlerjugend (Gioventù Hitleriana). Nel 1933 l’iscrizione era ancora volontaria.
Come tutti i giovani, anche i fratelli Scholl furono contagiati dall’entusiasmo e aderirono al nazionalismo; tuttavia, 4 anni dopo, già disillusi, erano uniti contro il regime nazista, trovando, ora sì, l’approvazione paterna.
Gli ultimi anni di scuola, prima dell’università, erano diventati duri per Sophie; ogni lezione era intrisa di ideologia nazionalsocialista e lei assumeva un atteggiamento “privo di partecipazione ”. Fu avvertita dal direttore della scuola: se non avesse cambiato atteggiamento non avrebbe ottenuto il diploma.
Sophie, però, non cambiò atteggiamento e nel marzo del 1940 prese l’Abitur, a dispetto di tutto.
Dopo il diploma, lo Stato chiedeva a tutte le diplomate di lavorare per il RAD per almeno 6 mesi.
Da Monaco, il fratello Hans cercò di ottenere un’esenzione per Sophie e un posto all’università, senza successo.
Sophie entrò nell’istituto per l’infanzia Fröbel di Ulm, sperando di evitare l’impegno per il RAD, ma nel marzo del 1941 fu assegnata a un castello fatiscente trasformato in un campo di lavoro per giovani donne. Erano 2000 i campi come quello in Germania, vi alloggiavano donne tra i 18 e i 25 anni. Le ragazze indossavano le uniformi e avevano sessioni di addestramento ideologico condotte da insegnanti fanatiche. I pasti consistevano per lo più in patate bollite con tanto di buccia «..viviamo come prigioniere, non solo il lavoro ma anche le pause di piacere sono doveri. Qualche volta vorrei urlare: il mio nome è Sophie Scholl. Non dimenticatelo!». Successivamente venne inviata per altri 6 mesi nei pressi di Blumberg – costretta dal Programma di Assistenza in Guerra – in un asilo a ridosso di una fabbrica di munizioni. Nel Maggio 1942 Sophie si recò a Monaco, dal fratello, per studiare all’università.
Il fratello Hans, nel frattempo, insieme all’amico Alex Schmorell, aveva deciso di impegnarsi in un’aperta opposizione al regime nazista, senza coinvolgere, però, la sorella in cospirazioni o pericoli.
Lui e i suoi amici progettavano di scrivere, stampare e distribuire volantini a Monaco per informare un pubblico selezionato di studenti, professionisti e intellettuali del male che li circondava, profetizzando che Hitler avrebbe perso la guerra. La sera in cui Sophie arrivò a Monaco, Hans e i suoi amici festeggiarono il suo compleanno senza raccontarle niente.
«..Ogni singolo deve coscientemente difendersi con ogni sua forza, opporsi in quest’ultima ora al flagello dell’umanità, al fascismo e a ogni simile sistema di stato assoluto. Fare resistenza passiva, resistenza; ovunque vi troviate; non dimenticate che ogni popolo merita il governo che tollera!…» (dal primo volantino della Rosa Bianca).
I volantini della Rosa Bianca iniziarono ad apparire a Monaco verso la metà di giugno del 1942.
Ne uscirono 4, uno dopo l’altro; vennero spediti come stampe a tutta la cittadinanza.
Alcune centinaia arrivarono anche alla Gestapo. Dopo alcune settimane di indagini, gli autori dell’iniziativa restavano ignoti.
Nel 1942 l’università appariva perfettamente integrata nel sistema nazista. Le classi erano infestate da spie dell’Associazione degli studenti nazionalsocialisti che prendevano nota di quel che si diceva, in cerca di battute inopportune durante le lezioni che i professori tenevano con non poco disagio.
Con quei 4 volantini, all’università cominciavano a circolare voci sulla comparsa di materiale antinazista. Leggere tali volantini senza avere l’autorizzazione della Gestapo era un reato.
Un giorno, durante la lezione, Sophie notò un foglietto sotto il banco, lo raccolse, lo lesse «Per un popolo civile non vi è nulla di più vergognoso che lasciarsi governare senza opporre resistenza, da una cricca di capi privi di scrupoli e dominati da torbidi istinti….»
Sophie comprese che altri, dentro l’università, la pensavano come lei. Si facevano chiamare “la Rosa Bianca” e agivano. Piegò il volantino e andò nella stanza del fratello per mostrarglielo. Hans non c’era. Cominciò a rovistare sulla scrivania e girando le pagine di un libro trovò i passaggi citati nel volantino, parola dopo parola, sottolineati. Quando Hans entrò nella stanza fu il momento della verità per Sophie.
Alla fine del semestre estivo, mentre il fratello e gli altri della Rosa Bianca erano stati chiamati in Russia, Sophie tornò a casa, a Ulm, dove la attendevano due mesi di lavoro in una fabbrica di armamenti. Non molto tempo dopo il suo arrivo, suo padre fu processato e condannato a quattro mesi di reclusione perché, in un momento d’ira, aveva urlato che Hitler era un flagello dell’umanità.
Sophie allora si affrettò a tornare a Monaco, nella stanza sua e del fratello per mettere ordine ed essere certa che la Gestapo non trovasse alcuna prova contro di loro, ora che tutta la famiglia era a rischio di arresto.
Nel mese di agosto, Sophie cominciò ad andare in fabbrica. Talvolta la sera si recava alla prigione, il più possibile vicino alle finestre sbarrate dove sperava di vedere il padre. Si portava dietro il flauto e intonava Die Gedanken sind frei (I tuoi pensieri sono liberi), una canzone rivoluzionaria del 1848, simbolo della Germania liberale e contraria al dispotismo.
In fabbrica Sophie diede inizio a una sorta di sabotaggio improvvisato: svolgeva lentamente le sue attività. Questo le attirava i rimproveri del caporeparto, ma lei rispondeva che non poteva fare diversamente, che era maldestra.
Tornati dalla Russia e reincontratisi a Monaco, i membri della Rosa Bianca sentivano che dovevano unirsi al movimento di resistenza nazionale. A Sophie fu assegnata la responsabilità della cassa: distribuiva il denaro e cercava di tenere una sorta di contabilità.
Nel giro di due mesi, dal novembre del 1942 agli inizi di gennaio del 1943, l’operazione della Rosa Bianca si era trasformata da azione isolata di alcuni studenti idealisti, in una rete in espansione che andava diffondendosi nella Germania sud-occidentale, fino alla Saarland, e fino ad arrivare al nord, verso Amburgo e, soprattutto, verso Berlino.
Le copie dei volantini venivano stampate una alla volta, notte dopo notte, con una macchina che doveva essere azionata a mano con una manovella. Per restare svegli, e lavorare durante il giorno, prendevano degli eccitanti dalle cliniche militari dove lavoravano come medici.
Sophie fece i suoi viaggi nell’area di Augusta, Ulm e Stoccarda, da dove spedì circa 800 volantini. Il 18 febbraio, a Monaco, poco dopo le 10 del mattino, Hans e Sophie lasciano il loro appartamento a Schwabing e si incamminarono verso l’università portando con sé una grossa valigia. Arrivati all’università, mentre le lezioni erano ancora in corso, cominciarono a mettere una grande quantità di volantini davanti alle porte delle aule, sui davanzali e sulle grandi scale che conducevano all’entrata principale. Distribuirono dai 700 ai 1800 volantini. Finito tutto, stavano per lasciare l’edificio quando si accorsero che erano rimasti dei volantini; risalirono le scale fino all’ultimo piano, e dalla balaustra gettarono gli ultimi fogli. Nello stesso istante le porte delle aule si spalancarono e gli studenti cominciarono a uscire. Scoperti, Hans e Sophie furono condotti nell’ufficio del rettore Wüst. Non opposero resistenza.
Arrivò Robert Mohr che comandava la squadra della Gestapo, ordinò agli agenti di raccogliere tutti i volantini; stavano perfettamente nella valigia vuota! Mohr diede ordine di portare i due al quartier generale della Gestapo.
Hans e Sophie ammanettati e condotti al quartier generale, furono interrogati per 17 ore in stanze separate. Così come prevedeva il piano del gruppo in caso di cattura, entrambi sostennero di essere loro, e soltanto loro, i responsabili delle azioni della Rosa Bianca.
I fratelli Scholl erano accusati di alto tradimento e il processo venne fissato per il giorno seguente, lunedì 22 febbraio, al Palazzo di Giustizia di Monaco. Il giudice che presiedeva il processo sarebbe stato Roland Freisler. Lunedi 22, alle 7 del mattino i detenuti furono prelevati nelle celle. Quando Else, la compagna di cella di Sophie, tornò nella cella vuota, trovò sul letto ben rifatto di Sophie un foglio di carta; era l’atto di incriminazione e sul retro Sophie aveva scritto la parola “libertà”.
L’aula del Palazzo di Giustizia era gremita di persone, tutti “invitati”, quasi tutti in uniforme. Non c’era nessun membro della famiglia; non erano stati informati ufficialmente né degli arresti né del processo.
Il giudice, Freisler, apparve con una toga scarlatta, luccicante.
Il processo iniziò alle 10: Freisler cominciò con la sua invettiva, Sophie cercò di contestarlo «qualcuno doveva farlo. Ciò che abbiamo detto e scritto è quello che pensano molte persone; solo non osano dirlo a volte alta!».
Furono condannati a morte e portati alla prigione di Stadelheim.
In prigione si era sparsa la voce su come si erano comportati i giovani studenti nella mani della Gestapo e durante quel processo infame. Il personale del carcere li ammirava, gli impiegati non erano membri delle SS o della Gestapo; si consideravano normali funzionari statali che eseguivano compiti sgradevoli. Le guardie infransero le regole; fecero uscire i fratelli Scholl dalle loro celle e li portarono nella sala visite per incontrare i genitori. Sophie accettò i dolci che la madre aveva portato, dicendo che aveva fame.
E poi la ghigliottina. […]
Irene Bertazzo, Sophie Scholl, Enciclopedia delle Donne

[…] consultando direttamente i diari allora inediti di Hans e Sophie Scholl e che vede tra i protagonisti un giovane Gabriele Lavia.
Ecco un brano del loro secondo volantino di denuncia:
«Non vogliamo scrivere, in questo foglio, della questione ebraica, né pronunciare discorsi in difesa. No, solo come esempio vogliamo ricordare brevemente il dato di fatto che, dalla occupazione della Polonia, trecentomila ebrei sono stati assassinati in quel Paese nel più bestiale dei modi. Qui noi vediamo il più orrendo delitto contro la dignità umana, un delitto che non ha confronti in tutta la storia dell’umanità. Anche gli ebrei sono uomini, qualunque sia la posizione che si vuole assumere sulla questione ebraica; e tutto questo è stato perpetrato contro degli uomini. […]
Perché il popolo tedesco è così inerte dinanzi a questi crimini, tanto orrendi e disumani? Quasi nessuno ci riflette. Il fatto viene accettato come tale e consegnato ad acta. E di nuovo il popolo tedesco cade nel suo ottuso e stupido sonno e dà a questi criminali fascisti il coraggio e l’occasione per continuare ad uccidere, ed essi lo fanno. È questo il segno che i tedeschi sono abbrutiti nei loro più intimi sentimenti umani? Che nessuna corda vibra in essi di fronte a simili azioni? Che sono ormai affondati in un sonno mortale dal quale nessun risveglio sarà più possibile, mai, giammai? Sembra così e così certamente è se i tedeschi non usciranno finalmente da questo torpore, se non protesteranno, dovunque e ogni volta che potranno, contro questa cricca di criminali, se non parteciperanno al dolore di queste centinaia di migliaia di vittime. E dovranno provare non solo compassione per questo dolore, no, ma molto di più: corresponsabilità. Infatti, anche solo con il loro inerte atteggiamento essi danno a questi uomini oscuri la possibilità di agire così; essi sopportano questo “governo” che ha assunto su di sé una colpa infinita, certo, ma, soprattutto, essi stessi sono responsabili del fatto che tale governo ha potuto avere origine! Ogni uomo vuole dirsi estraneo a questo tipo di corresponsabilità, ognuno lo fa e poi ricade nel sonno con la coscienza più serena e migliore. Ma egli non potrà dirsi estraneo: ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!»
Credo che sia giusto ricordarli.
Mario Avagliano, La Rosa Bianca che si oppose a Hitler, moked, 26 settembre 2013

David Bidussa fa un’interessante riflessione su questa pagina sul vero eroismo, citando Inge Scholl, la sorella di Hans e Sophie Scholl che proprio il 22 febbraio del 1943, 78 anni fa, furono giustiziati dai nazisti per aver dato vita al Movimento studentesco antinazista della Rosa Bianca: “Il vero eroismo consiste proprio – dice la Scholl – nel difendere con costanza le cose piccole e ovvie”. Sono molto d’accordo, ma se proprio bandissimo, estendendo il discorso, la parola eroismo? Perché in realtà è una parola ambigua. Subito ci fa venire in mente il suono delle fanfare, i militari decorati, la retorica del “fulgido eroismo”. Poi, l’Eroica di Beethoven, già va meglio, chi tira fuori i sepolti dalle macerie dopo un terremoto, chi si oppone alle dittature. E si potrebbe continuare molto a lungo, fino ad arrivare alla quotidianità.
Ma è sempre difficile misurarsi con l’eroismo, prendere ad esempio gli eroi. Siamo davvero sicuri di volerlo fare? Finiremmo certamente sconfitti. O di volerlo proporre alle giovani generazioni? Li manderemmo nel panico, e li spingeremmo subito a rinunciare: non possiamo essere eroi, accontentiamoci della mediocrità. Io suggerisco per ora la parola “responsabilità”. Non sovrapponibile certo, ma vicina a quello che vorremmo trasmettere. Si accettano suggerimenti.
Anna Foa (storica), Responsabili più che eroi, moked, 22 febbraio 2021

Con il nome della “Rosa Bianca”, durante la seconda guerra mondiale, un gruppo di giovani tedeschi (di differente estrazione e fede religiosa) si oppose al regime nazista attraverso varie azioni clandestine. Tra il giugno 1942 e il febbraio 1943, i giovani de La Rosa Bianca (quasi tutti studenti universitari a Monaco), attraverso la distribuzione dei volantini e le scritte sui muri di frasi contro il Führer e il suo regime disumano, incitarono il popolo tedesco a liberarsi dalle catene del nazismo e a “strappare il manto dell’indifferenza”. Il 18 febbraio 1943, due di essi – i fratelli Hans e Sophie Scholl – furono arrestati all’università mentre distribuivano volantini. Insieme all’amico e sodale Christoph Probst, furono processati, condannati a morte e giustiziati il 22 febbraio. Davanti all’ingresso dell’università Ludwig-Maximilian, oggi intitolata ai fratelli Scholl, si possono vedere le riproduzioni in porcellana dei volantini, come delle pietre d’inciampo.
Sophie Scholl partecipò in prima persona alle azioni del gruppo, nel gennaio e febbraio 1943. Ma è proprio lei a diventare il simbolo della Rosa Bianca e della resistenza tedesca. Come mai? Forse perché era l’unica donna, forse perché così giovane (appena 21 anni), forse per il carattere libero e anticonformista, il temperamento artistico e la personalità spiccata. Sono moltissime, specie in lingua tedesca, le biografie e i libri che le sono stati. specificamente dedicati. Alla fine degli anni ’90 un referendum di un importante settimanale tedesco ha proclamato Sophie Scholl “la donna tedesca del XX secolo”. Il suo busto si trova nel “Walhalla” di Regensburg, insieme a Lutero, Einstein, Beethoven e ai personaggi tedeschi più rappresentativi. […]
(Appunti per le scuole a cura di Giuseppe Assandri), Sophie Scholl, la ragazza della Rosa Bianca, Rosa Bianca

“Per favore fai il maggior numero di copie di questo volantino e distribuiscile”: si chiudono con questo appello i sei volantini del movimento di resistenza clandestino tedesco La Rosa Bianca. Dietro la scrittura dei non brevi testi di ogni singolo volantino, c’è anche una ragazza a nome Sophie Scholl che, arrestata e processata, viene ghigliottinata il 22 febbraio 1943, nel cortile della prigione di Stadelheim.
In questo Paese sbandato in cui leggiamo tutti i segnali che sembrano preludere ad una nuova imminente barbarie, ci è difficile non tornare alla storia della ragazza, che, nata nel 1921 ed iscritta alla facoltà di filosofia della Università di Monaco, troppo giovane per avere una biografia, ci lascia in memoria di sé solo la sua determinazione, fortemente illuminata da un sentimento di fede, la sua fatica, poiché le copie di ogni volantino vengono stampate ad una ad una da una macchina azionata a mano da una manovella, e il suo coraggio, poiché Sophie sale al patibolo per prima, precedendo di poco il fratello Hans e l’altro componente del movimento clandestino.
In uno dei sei volantini per cui Sophie è condannata per tradimento allo Stato c’è scritto “strappate il mantello dell’indifferenza che avvolge il vostro cuore. Decidetevi prima che sia troppo tardi… Noi non taceremo, noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza; la Rosa Bianca non vi darà pace”.
[…]
Annalisa Alessio e Mario Albrigoni, Strappate il mantello dell’indifferenza, Patria Indipendente, 28 marzo 2019

Romano Guardini

[…]
Uno dei maestri: Romano Guardini
Certo il tribunale del popolo, che aveva condannato a morte i ragazzi della Rosa Bianca per le loro azioni di sabotaggio ideologico, non poteva certo analizzare né tanto meno supporre il retroterra etico e culturale dove la decisione della resistenza era cresciuta. Si trattava di un territorio miracolosamente sopravvissuto all’alluvione della follia nazionalsocialista e coltivato da maestri, letti sui libri o ascoltati di persona: un territorio davvero inimmaginabile ed incomprensibile a chi considerava il Mein Kampf di Hitler il libro per eccellenza, anzi l’unico libro che valesse la pena di leggere.
Tra i molti maestri, trovandoci qui a Brescia, vorrei ricordare soltanto Romano Guardini con cui in particolare Willi Graf aveva un legame personale indiretto (oltre alle frequenti letture dei testi guardiniani) attraverso Hans Eckert (1914-1941), un amico dell’“Ordine Grigio”, che era stato processato con lui nel 1938, davanti al tribunale speciale di Mannheim, per attività illegali nelle associazioni giovanili proibite dal nazionalsocialismo. Eckert fu assistente di Guardini fra il ’39 e il ’40 nella comunità studentesca di Berlino, proprio nel momento in cui lo stesso Guardini si vedrà togliere dai nazisti la sua cattedra di visione cattolica del mondo (1939). Eckert riferì spesso a Graf le tesi di Guardini e, a sua volta, Graf ne parlava a Scholl ed agli altri amici della Rosa Bianca. Di Graf si può addirittura dire che sia stato formato dall’insegnamento guardiniano. Basta citare una sua annotazione sul diario scritta mentre si trovava sul fronte russo: «18. 9. 1942. Smette di piovere. Eppure mi riesce oggi, nelle tranquille ore del mezzogiorno, di leggere Guardini». E il 24 novembre a Monaco, in casa di amici: «La sera ne arrivano altri, leggiamo Guardini…»; o il primo dicembre in una lettera ad un amico: «Leggo e rileggo spesso Guardini, che ha così tanto da spiegarci e da dirci. Questo in effetti è il lavoro che in questo momento mi sembra importante». Leggere Guardini per Graf e per gli amici della Rosa Bianca diventerà un antidoto e un supporto immunitario dinanzi alla disumanità ed all’ubriacatura dell’ideologia hitleriana.
Vorrei in particolare considerare due punti del pensiero di Guardini, importanti allora per i ragazzi della Rosa Bianca, ma importanti anche per noi, oggi.
Parola e politica
I ragazzi della Rosa Bianca diffondevano volantini, cioè parole. Ma può la parola avere importanza decisiva in politica?
Uno dei temi fondamentali di Guardini è il silenzio, o meglio il rapporto tra il silenzio e la parola. È indubbio che a fondamento della politica sta la comunicazione, che anche allora disponeva di potentissimi mezzi di espressione. Ma la comunicazione è la possibilità di pronunciare e di ascoltare parole che siano autentiche e che possano essere comprese senza decadere a parole rituali, a slogan, quindi a parole che occultano e creano insuperabili muri di separatezza. C’è una parola autentica e c’è una parola inautentica. Questa è una dialettica esistenziale, strutturale per l’uomo che sempre può parlare con verità o con intenzione menzognera, sempre può prostituire la parola o elevarla. Ma al di là di questo dilemma umano perenne, il dilemma diventa epocale perché la nostra età, il tempo che Guardini tra i primi chiama “post-moderno”, non solo ha smarrito il silenzio nel trionfo ossessivo del rumore, ma rischia la morte della parola sapida, verace. Di questa situazione, la politica è una testimonianza emblematica. La politica, che è povera di silenzi, è invece ricca di parole stupide e menzognere.
La politica, dice Guardini, ha un rapporto fondamentale con la verità, anzi con la virtù della veracità, ma può esserci una caduta tragica della parola quando si tradisce la comunione nella verità con l’altro e le parole mentono, creando la deleteria e intossicata atmosfera della menzogna. La parola quindi crea la comunicazione e fonda la politica. Ma questo può avvenire in senso autentico non solo quando si evita la menzogna plateale, dice Guardini, ma positivamente quando uno dice soltanto quello di cui è personalmente convinto e se ne fa anche interiormente garante. Quando il discorso politico è di tal natura, da chi parla si esige che la sua persona si trasfonda veramente nella parola e dall’uditore, invece, che sappia di essere messo di fronte a una parola personale e che quindi egli stesso si decida ad assumere un atteggiamento personale. Proviamo ad applicare questa dimensione alla realtà politica e vediamo quanto sia difficile ad affermarsi. È ancora possibile questo in un’età davastata linguisticamente, dove ognuno parla di tutto ad ogni istante, per cui la parola sorprende, scandalizza, forse eccita, ma è qualcosa di labile, non ne sentiamo più la forza, non urla più, non colpisce più, è solo una debole struttura di suono e timbro?
Siamo, infatti, in un’età culturale e politica di parole senz’anima, di parole usa e getta, di parole gettone che trasmettiamo ad altri, come si passa una moneta da una mano all’altra, non si sa che aspetto abbia, non si sa che cosa ci sia sopra, si sa soltanto che per essa si riceve tanto.
Così il linguaggio politico è un frettoloso suonar delle “parole-monete”, quasi una macchina numeratrice che distribuisca le monete e nulla sappia di esse.
Dunque parole esangui, pallide, scarnificate, del tutto prive di forza figurativa. Se le parole che pronunciamo nella dialettica politica fossero per noi qualcosa di più di un suono, che significa genericamente qualcosa, come potremmo sentirne e assorbirne tante? In realtà si tratta di larve di parole, che «godono per breve tempo di una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine, ma ben presto sono ridotte ad un paio di luoghi comuni e nulla più».
L’insegnamento di Guardini è che in un tempo povero di verità testimoniata, anche se ricco di parolai, occorre una vera e propria ascesi della parola: occorre nutrire una pregiudiziale sfiducia per tutte le parole grosse, come si nutre sfiducia per carta-moneta di dubbio valore. Bisogna riamare in politica la semplicità della parola contro gli eccessi, riconciliare parola e persona, parola e cosa.
«Basta con le larve di parole, rimettiamoci di fronte alle cose, evadiamo dalle sabbie infide delle idee abusate ed indeterminate, riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale, deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte».
Certo, questo in un primo momento ci sconcerterà, ci costringerà al silenzio, perché troppe parole non sembrano più utilizzabili, tanto sono devastate e prostituite dal prolungato abuso. La crisi della politica è allora, per Guardini, essenzialmente la crisi della parola. L’esodo da tale crisi è solo l’ascesi della parola.
«Uno può tenere splendidi discorsi politici, ma se dà informazioni false, se giudica alla leggera, se trascura lo stato reale dei fatti, enfatizzando o ridimensionando con la parola, è un pirata dell’opinione pubblica ed è anche un distruttore dello Stato».
Far politica, dunque, significa ridare valore alle parole, essere fedeli alle parole, rispettare la verità delle cose e delle persone, sentire dentro sé l’autorità della coscienza.
Politica e salvezza
C’è una singolare vicinanza tra uno dei più celebri scritti di Guardini, quello su Il Salvatore, sul portatore della salvezza nella politica, chiaro riferimento a Hitler, e l’importante introduzione di don Giuseppe Dossetti al volume di Luciano Gherardi Le querce di Montesole. C’è la stessa analisi che anticipava Guardini: il totalitarismo come esito di una dinamica religiosa, anche se artificiale. Nella realtà dello Stato, è sempre presente il pericolo di esorbitare dalle proprie funzioni, un rischio totalizzante. Questo Guardini lo avverte fino dagli anni ’20. Nel famoso saggio filosofico sull’Opposizione polare, Guardini critica chi vuole sottomettere lo Stato in maniera rigida al benessere dei cittadini. Lo Stato ha vita propria e non può ridursi a semplice strumento degli individui. Ma è proprio questa autonomia della Stato, questa consistenza propria, che può portare lo Stato a privilegiare il bene del tutto e ad occuparsi del singolo cittadino solo per garantirsi la propria sopravvivenza. Di fronte a questa permanente tendenza totalizzante, per Guardini ciò che solo può porre un limite allo Stato è la fede. La fede, affermando l’extraterritorialità della persona rispetto alla Storia, sottrae e salva l’individuo da un totale assorbimento nello Stato e quindi limita i poteri di ogni ordine costituito. La fede è la forza che relativizza ogni ordine temporale, è l’elemento decisivo che è in grado di mantenere in tensione e di non risolvere mai in una pericolosa sintesi la polarità fra individuo e Stato. Scrive Guardini:
«Solo la fede che innalza i diritti di Dio sull’anima dell’uomo, al di sopra di tutti i diritti di Cesare, può vincere l’egoismo superiore, di sua natura cieco, della collettività».
Il cattolicesimo dunque per Guardini non è una forza che legittima, che sacralizza l’ordine politico, ma è invece la forza che ne afferma e ne rafforza la piena secolarità, è la vera garanzia della laicità dell’ordine pubblico. Questo radicamento teologico della concezione guardiniana della politica costituisce la premessa dell’atteggiamento riguardo al totalitarismo nazista degli anni ’30. Il giudizio di Guardini sul nazismo è chiaro. Durante la guerra, quando il regime aveva gettato completamente la maschera, in occasione della visita di un amico in uniforme, Guardini indicando la pistola d’ordinanza disse: «Se uno la puntasse contro Hitler, chi potrebbe condannarlo?». In quanto totalitario, infatti il regime nazista non poteva più considerarsi un regime di diritto, ma era un regime che aveva sconvolto l’ordine ontologico, l’ordine dell’essere. Nel bellissimo scritto uscito a stampa nel ’46, ma concepito negli anni del regime, intitolato Il Salvatore, il portatore di salvezza attraverso il mito, la rivelazione e la politica, Guardini inserisce il nazismo nell’ambito dei miti soteriologici, portatori di salvezza come Osiride, Apollo, Dioniso, Baltur. Quei miti esprimevano il ritmo del ciclo naturale della vita, il succedersi di vita e morte, di salute e malattia e il disperato bisogno di salvezza che afferra l’individuo di fronte a questa alternanza che sempre incombe e lo inquieta. Sono, dunque, anche miti pacificanti. Ma la salvezza che offrono non è mai quella dell’individuo singolo, è la salvezza della specie, della collettività. La morte si può esorcizzare solo negando la propria individualità, abbandonandosi all’eterna vita della natura che vince la morte e sconfigge la malattia. All’interno di questo orizzonte mitico, il detentore del potere politico, il re, il duce, non è solo il vertice dell’organizzazione statale e l’espressione dell’autorità politica, ma l’incarnazione di un potere, numinoso e sacro, di un salvatore.
La venuta di Cristo spezza la catena dei miti pagani e offre al singolo una possibilità personale di salvezza. L’individuo non è più obbligato a dissolvere se stesso nel ritmo cosmico della natura, ma al contrario sollecitato ad approfondire la propria personalità impegnandola in una decisione per Dio. Cristo distrugge ogni identificazione del portatore di Salvezza, con il sovrano, con il capo politico.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 15.5.1995 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
Silvano Zucal, Romano Guardini, uno dei maestri della Rosa Bianca, Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura