La sera del terzo giorno di Sukkoth venne a prendermi lo zio Carlo

La Sinagoga di Genova – Fonte: Wikipedia

La sera del terzo giorno di Sukkoth (la festa delle capanne) venne a prendermi lo zio Carlo, il fratello di mia madre. Mio padre, Riccardo Pacifici, Rabbino di Genova, non volle muoversi da Genova perché voleva dare il proprio aiuto ai pochi ebrei genovesi rimasti e ai molti profughi che affluivano da ogni parte d’Europa. Genova era uno dei maggiori centri di smistamento, tanto che era stato necessario aprire in Piazza della Vittoria un ufficio della Delasem, (organizzazione di mutuo soccorso) diretto da Lelio Valobra. In Comunità venivano soprattutto distribuiti gli aiuti economici e nel seminterrato del tempio piccolo era stata allestita una mensa giornaliera.
Per mio padre l’aiuto ai profughi era un impegno fondamentale. Oggi, a tanti anni di distanza, ancora non riesco a capire come mio padre e la maggioranza degli ebrei non abbiano compreso il pericolo che li minacciava.
I profughi che arrivavano raccontavano gli orrori che avevano visto, e ciò nonostante a Genova il 13 ottobre 1943 fu celebrata regolarmente al tempio la festa di Sukkot ed era stata costruita perfino la sukka. Tre giorni dopo, il 16 ottobre, mentre a Roma era in corso la grande razzia, a Genova il custode del tempio, Bino Polacco, ancora si ostinava a vivere con tutta la sua famiglia nell’appartamento all’interno della sede della Comunità e mio padre passava ogni giorno a trovarlo per sapere se c’erano novità.
Non riesco a capire ancora oggi l’ingenuità di tutti i maggiori responsabili delle Comunità ebraiche. Dopo l’8 settembre il potere in Italia stava soltanto in mano ai tedeschi!
Il 3 novembre le SS fecero irruzione nella sinagoga; sotto la minaccia di una pistola puntata alla tempia, costrinsero Bino Polacco a chiamare al telefono il rabbino: in caso contrario avrebbero ucciso tutta la sua famiglia.
Il custode fu costretto a rintracciare anche altri ebrei genovesi e gran parte di essi cadde nella trappola; tra questi anche mio padre.
La signora Serotti, una coraggiosa signora che abitava nel palazzo accanto alla sinagoga, aveva assistito all’arrivo delle SS. Aveva subito capito cosa stava succedendo e dalla finestra si mise a fare cenno di scappare agli ebrei che man mano arrivavano. Chi ebbe la fortuna di alzare gli occhi e di vederla capì quei gesti ed ebbe salva la vita. Le SS però si insospettirono o vennero informati e poco dopo anche la signora Serotti fu arrestata e poi rilasciata solo dopo una lunga trattativa.
Le SS avevano catturato circa 50 ebrei, in gran parte genovesi, con il loro rabbino. Alcuni testimoni raccontarono di aver visto mio padre uscire dalla porticina a sinistra del tempio con la faccia insanguinata, gli occhi tumefatti, tirato per la barba e trascinato sul camion che lo avrebbe portato al carcere di Marassi.
Tutti coloro che furono presi, dopo una seconda tappa a San Vittore, furono poi mandati ad Auschwitz-Birkenau. Arrivarono nel lager il giorno 11 dicembre 1943 con il convoglio che portava la sigla 05.
Mio padre era solito dire che con il libro della Torà sotto il braccio si poteva andare ovunque. Stando alla testimonianza di un reduce, il signor Levi di Genova, mio padre, il 12 dicembre 1943, entrò serenamente nella camera a gas con il libro della Torah sotto il braccio.
Emanuele Pacifici, Non ti voltare. Autobiografia di un ebreo, Giuntina Editore, 1993

Emanuele Pacifici, 69 anni. Suo Padre, Riccardo, era il rabbino capo di Genova nel novembre 1943. “Papà lo ricordo sul marciapiede della stazione Principe. Dovevo prendere il treno per Pisa, stavo fuggendo dai rastrellamenti dei tedeschi. Mia madre e mio fratello erano già scappati. Papà mi diede la benedizione sacerdotale. “Io devo rimanere qui” aggiunse. Non voleva abbandonare Genova, la sua responsabilità di maestro della Sinagoga, pensava di aiutare gli altri ebrei. Era fiero e generoso. Ma io, queste cose, le ho capite dopo. E’ stata l’ultima volta che l’ho visto, il nostro ultimo saluto. Avevo 12 anni”.
“Lui, il custode del tempio e una trentina di ebrei di Genova furono arrestati dalle Ss di Engel. Fu torturato nel carcere di Marassi e poi deportato ad Auschwitz. Un testimone lo ha visto entrare nella camera a gas il 12 dicembre 1943. Purtroppo sulle date non c’è certezza: neanche un certificato di morte mi è rimasto. Poi arrestarono anche mia madre, a Firenze. Io ero in un convento di Settignano e per mesi ho continuato ad aspettarla ogni sera alla finestra. Finché una suora non ha più voluto che passassi così le mie notti. In un mese sono rimasto orfano. Engel e le Ss mi hanno lasciato solo al mondo. Mamma aveva 32 anni, papà 39. Se sono sopravvissuto è grazie a un angelo”.
“Voglio giustizia, non vendetta. Un criminale nazista non può stare in mezzo alla gente indisturbato, senza una condanna. I crimini non cadono mai in prescrizione. Quel maledetto Engel deve essere portato qui in Italia, di fronte allo Stato e davanti a me. Lo voglio vedere scontare le sue colpe, anche se ha 92 anni, anche se sta su una sedia a rotelle. Non è troppo tardi per ridare un senso alla mia vita. Sono stato un poveraccio, con un destino infame. Scusatemi se piango, e se urlo. Sono sconvolto. L’aguzzino dei miei genitori è libero e io sono ancora prigioniero del mio dolore”.
“Lo Stato italiano non ha mai fatto niente per me. Ho avuto la pensione di orfano di guerra fino a 21 anni. Ho dovuto lasciare la scuola alla quinta elementare. Mio fratello non è voluto rimanere, è andato a vivere in Israele. Ora ho una famiglia, una moglie, Gioia di nome e di fatto, una figlia e un figlio che si occupa della comunità ebraica a Roma. Se guardo il mio passato, vedo una tragedia dopo l’altra. Nel 1982, ero di fronte alla Sinagoga quando ci fu l’attentato. Quasi ho perso un occhio e ho la gola squarciata”.
“Non sono un ebreo ortodosso. Durante la fuga della mia famiglia il cardinale di Genova ci diede un grande sostegno. Veramente, dovrei essere ateo, per le cose che mi sono capitate. Ma la mia fede è la forza di andare avanti. Che mi è rimasta nonostante tutto. Da tempo conservo un trafiletto di giornale con il nome di quel boia: Friedrich Engel, comandante delle Ss a Genova. Se fossi in grado di viaggiare andrei a cercarlo ad Amburgo. Lotterò per farlo catturare. Lo chiederò al governo e al presidente della Repubblica. Magari un angelo mi aiuterà a finire la mia vita in pace”.
Anais Ginori, L’intervista: “Chiedo all’Italia di catturare l’assassino di mio padre”, la Repubblica, 14 aprile 2001

 

Capo Provincia Genova
4 144 TF I 1715. Capi province libere Genova Imperia Savona Spezia
N° 5 comunicasi per immediata esecuzione la seguente ordinanza di Polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta Provincia:
1° Tutti gli ebrei anche se discriminati a qualunque nazionalità appartengano e comunque residenti nel territorio Nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili ed immobili devono essere sottoposti ad immediato sequestro in attesa di essere confiscati nello interesse della Repubblica Sociale Italiana la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2° Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana devono essere sottoposti a speciale vigilanza degli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati punto Ministro Interno Buffarini.
AS GE, Repubblica sociale italiana, 35, fasc. 10 in Archivio di Stato di Genova

Un documento Delasem – Fonte: http://giustiemiliaromagna.it

[…] Delasem: Delegazione assistenza emigranti. “Emigranti“, in quegli anni, era sinonimo di ebrei in fuga. Mussolini non voleva che in troppi arrivassero in Italia, consapevole del peso che il loro mantenimento avrebbe avuto sulle finanze pubbliche, e contemporaneamente sperava nell’afflusso di pregiata valuta estera da parte degli enti ebraici internazionali. Così autorizzò la creazione di un soggetto giuridico che aiutasse i fuggiaschi a lasciare il Paese, sostenendoli economicamente per tutto il tempo necessario: la Delasem nacque il primo dicembre 1939 e stabilì la propria sede a Genova, in piazza della Vittoria. Grazie al porto e alla vicinanza con la Francia, infatti, la città ligure fungeva da base per organizzare gli espatri. A dirigerla fu chiamato l’avvocato civilista Lelio Vittorio Valobra, ebreo genovese. L’organizzazione, alla nascita, poteva contare su 27 referenti, uno per ogni grande città: Settimio Sorani a Roma, Mario Falco a Milano, Emanuele Montalcini a Torino, Arturo Carpi a Napoli.
I volontari partivano da una ricognizione statistica: quanti erano i profughi, quali le loro necessità, verso che Stato convenisse indirizzarli. Fornivano loro abiti, cibo e medicinali, distribuiti dalla “sezione femminile” presente in ogni città. Grazie ai referenti internazionali entravano in contatto con i parenti degli assistiti all’estero, chiedendo loro di contribuire alle spese di viaggio e procurando biglietti e visti. Il più famoso “delasemita” fu il ciclista Gino Bartali, che agiva da corriere, nascondendo documenti e carte sotto la sella e nella canna della bicicletta.
Si controllava anche, però, che ai rifugiati non si mischiassero truffatori, intenzionati a sfruttare il supporto della rete senza averne il bisogno. Qualche opportunista comparve anche tra i volontari dell’ente, ma venne subito allontanato: “Il giorno in cui una donna si lamentò dicendo che uno degli incaricati della Delasem gli aveva chiesto del denaro – racconta Rosa Paini nel libro I sentieri della speranza – Constatata la verità dei fatti, si allontanò immediatamente il collaboratore poco onesto”. Nel primo anno di attività l’organizzazione riuscì a far fuggire via mare centinaia di ebrei verso la Francia, non ancora occupata dalle armate del Terzo Reich. “Queste persone hanno dato a tutti noi una irripetibile lezione di generosità”, dice a ilfattoquotidiano.it il rabbino capo di Genova, Giuseppe Momigliano. “La figura di Lelio Valobra fu indispensabile: senza il prestigio professionale e la rete di conoscenze che aveva accumulato negli anni, tutto questo sarebbe stato impossibile”.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940, arrivò l’ordine di internare tutti gli ebrei stranieri. La Delasem continuò la propria opera di assistenza, assegnando un proprio rappresentante ad ognuno dei 30 campi allestiti in Italia. L’aiuto dato agli internati divenne principalmente economico: lo Stato infatti forniva a ciascuno di loro un sussidio giornaliero di sole 6,50 lire, che l’ente integrava con le proprie risorse. A un certo punto la questura di Genova chiese all’avvocato Valobra i nomi di tutti gli assistiti dal suo ente, ma ottenne un rifiuto sdegnato. Nel frattempo i volontari continuavano a seguire le pratiche di espatrio e a tenere informando i profughi sul loro sviluppo. A Firenze fu fondata la Delasem dei piccoli, specializzata nell’assistenza agli internati minorenni.
Ma fu nei primi mesi del 1942 che l’organizzazione portò a termine la sua più spettacolare missione: Valobra fu informato da Eugenio Bolaffio, referente Delasem a Gorizia, di un gruppo di 53 giovanissimi ebrei intrappolati in un vecchio castello vicino a Lubiana. L’avvocato organizzò immediatamente una spedizione che da Genova partì per la Slovenia, mise in salvo i ragazzi e li trasferì a Nonantola, vicino Modena. Lì occuparono villa Emma, un grande edificio disabitato fuori dal paese. Dopo l’occupazione tedesca, “i ragazzi di villa Emma” furono nascosti e aiutati a fuggire in Svizzera dai cittadini di Nonantola, che gli si erano profondamente affezionati.
La Delasem cessò ufficialmente di esistere dopo l’8 settembre, quando fu sciolta e costretta a operare in clandestinità. Diversi delegati locali furono arrestati, mentre i nazisti deportavano più di 6mila ebrei dall’Italia verso i campi di sterminio. Valobra, che sapeva di dover fuggire, chiese all’arcivescovo di Genova Pietro Boetto di prendere in consegna l’intero archivio della Delasem. “Mi recai dal cardinale – ha ricordato il suo assistente, don Francesco Repetto – e in piedi di fronte al suo scrittoio, con studiata indifferenza (perché le mie incombenze erano soltanto quelle esecutive di un piccolo segretario) chiesi se si doveva accettare la domanda della Delasem oppure declinarla. Il cardinale si raccolse un poco, ma non stette molto a pensare. Disse: sono degli innocenti, sono in grave pericolo, li dobbiamo aiutare anche con nostro disagio”. Boetto affidò al sacerdote l’eredità dell’intera missione dell’ente, finanziando gli ebrei perseguitati e nascondendoli nei locali dell’arcivescovato, salvando centinaia di vite dallo sterminio. Per questo, nel 2018, entrambi sono stati inseriti nel novero dei Giusti tra le nazioni dallo Yad Vashem, l’istituzione ebraica per la memoria della Shoah.
Paolo Frosina, Giornata della Memoria, la storia della Delasem (nata grazie al fascismo) che salvò migliaia di ebrei. Con l’aiuto di Bartali, Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2019

 

Confederazione Fascista dei Professionisti e degli Artisti
Unione Provinciale di Genova
Sindacato Interprovinciale Fascista Ragionieri
Genova, 16 dicembre 1943
A S.E. Console Barone Basile
Capo della Provincia
A S.E. il Primo Presidente della
Corte d’Appello
Al Presidente del Tribunale
Al Vice Presidente del Consiglio
Provinciale delle Corporazioni
GENOVA
Avuto presente la disagiata situazione in cui sono venuti a trovarsi i ragionieri professionisti di Genova, in questo periodo di emergenza a causa della mancanza assoluta di lavoro, mi permetto richiamare la vostra attenzione sulla imminente nomina dei Sequestratori di aziende e di beni degli ebrei; tenuto conto che tali nomine potrebbero rappresentare una attività per i nostri Camerati.
I ragionieri professionisti sono particolarmente idonei per la speciale natura di tali incarichi e per la loro appartenenza all’Albo e al Sindacato offrono speciali garanzie oltre che dal punto di vista tecnico anche da quello morale e politico.
Unisco alla presente una copia aggiornata degli iscritti all’Albo nella quale sono segnati in modo particolare coloro che ricoprono cariche nel Direttorio o nelle diverse Commissioni ed i professionisti sinistrati di cui si unisce copia.
Il segretario interprovinciale
(Gustavo Besozzi di Carnisio)
AS GE, Repubblica sociale italiana, 35, fasc. 10 in Archivio di Stato di Genova già cit.

Dal consigliere comunale di Recco Gian Luca Buccilli (lista Civica) riceviamo e pubblichiamo.
La Germania nazista si dedicò con tutte le sue energie alla più criminale impresa della storia moderna: lo sterminio degli ebrei d’Europa.
La persecuzione eseguita dal Terzo Reich fu contrastata anche attraverso iniziative di soccorso che ne mitigarono i tragici effetti. Una di queste ebbe l’epicentro a Genova.
Delasem è l’acronimo di Delegazione per l’assistenza degli emigrati ebrei, costretti a lasciare la Germania ovvero a fuggire dai territori invasi dall’esercito nazista.
Fondata il primo dicembre del 1939, stabilì la propria sede a Genova, in Piazza della Vittoria.
La direzione della Delasem fu affidata all’avvocato civilista Lelio Vittorio Valobria, ebreo genovese e figura apicale dell’Unione delle comunità israelitiche in Italia.
Ai profughi ebrei la Delasem forniva cibo, medicinali, abiti, documenti, biglietti e visti per l’espatrio.
L’organizzazione, finanziata in buona parte con valuta estera proveniente da enti ebraici internazionali, poteva contare su ventisette referenti (uno per ogni città dove era presente una comunità ebraica) e su una solida rete di volontari.
Le leggi razziali promulgate nel 1938 privarono gli ebrei dei più elementari diritti civili ma fino al 1943 la loro vita non era in pericolo.
Chi dall’estero riusciva a trovare rifugio in Italia poteva poi raggiungere un paese sicuro.
La Delasem aiutò 5 mila profughi ebrei a espatriare.
Grazie al porto e alla vicinanza con il confine francese, Genova era la base logistica ideale per organizzare gli espatri e condurli a buon esito.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, fu impartito l’ordine di internare gli ebrei stranieri.
La Delasem proseguì l’opera di assistenza, assegnando un proprio rappresentante a ognuno dei trenta campi allestiti in Italia.
L’aiuto fornito agli internati divenne principalmente economico: lo Stato erogava a ciascuno di loro un modesto sussidio (6 lire al giorno) che l’ente integrava con risorse proprie.
Nel frattempo i volontari della Delasem continuarono a seguire le pratiche di espatrio.
Le cronache di allora raccontano come nei primi mesi del 1942 l’organizzazione portò a termine una missione esemplare.
Lelio Vittorio Valobria fu informato che a Lubiana i nazisti tenevano in ostaggio 53 giovanissimi ebrei, ai quali le SS avevano assassinato i genitori.
L’avvocato genovese organizzò una spedizione che mise in salvo i ragazzi e li trasferì a Nonantola (vicino a Modena), dove trovarono ospitalità presso un grande edificio denominato Villa Emma.
A seguito dell’occupazione tedesca “i ragazzi di Villa Emma” furono prima nascosti e poi aiutati a fuggire in Svizzera grazie alla collaborazione degli abitanti di Nonantola.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e gli avvenimenti che ne seguirono, tutti gli ebrei italiani e stranieri vennero fatti oggetto di un’implacabile persecuzione.
La Delasem fu sciolta e costretta a operare in clandestinità.
Diversi delegati locali furono arrestati, mentre i nazisti deportavano gli ebrei dall’Italia verso i campi di sterminio oltre confine.
La Delasem continuò a distribuire aiuti materiali e documenti falsi utili per la fuga nonché a trovare luoghi di asilo.
I collegamenti e il flusso di denaro tra la Svizzera e la sede di Genova rimasero sempre attivi anche grazie al Nunzio apostolico a Berna, Monsignor Filippo Bernardini.
Lelio Vittorio Valobria, prima di riparare in Svizzera, chiese all’Arcivescovo di Genova, Cardinale Pietro Boetto, di prendere in consegna l’intero archivio della Delasem.
Sua Eminenza non esitò un attimo: affidò a Monsignor Francesco Repetto, suo segretario particolare, l’eredità dell’intera missione dell’ente di soccorso ebraico.
La Curia genovese assicurò sostegno economico agli ebrei perseguitati e in fuga, li nascose nei locali dell’arcivescovato per sottrarli alla cattura e a una sicura deportazione, funzionò come centrale operativa per la distribuzione degli aiuti internazionali agli ebrei presenti nei territori della Repubblica di Salò.
Nel luglio del 1944 Monsignor Francesco Repetto, braccato dalla Gestapo, fu costretto a rifugiarsi in montagna.
Don Carlo Salvi ne continuò l’opera fino alla Liberazione.
Il Cardinale Pietro Boetto e Monsignor Francesco Repetto sono stati inseriti nel novero dei Giusti tra le nazioni dallo Yad Vashem, l’istituzione ebraica per la memoria della Shoah.
Dopo la Liberazione e fino al 1947, il compito dei nuclei dei Delasem fu quello di favorire i ricongiungimenti familiari e il viaggio verso la terra di Israele (Eretz Yisrael), “promessa da Dio ai discendenti di Abramo attraverso suo figlio Isacco e agli israeliti, discendenti di Giacobbe, nipote di Abramo”.
Gian Luca Buccilli, Capogruppo di Civica – Recco
Redazione, Delasem, Gian Luca Buccilli: “Genova luogo della memoria”, Genova3000, 26 gennaio 2021

 

Ministero dell’Interno
Direzione generale della P.S.
Roma, 13 dicembre 1943 – XXII
Capi provincie non occupate
Questore Roma
E p.c. Ministero Interno
Direzione Gen. Demorazza SEDE
Oggetto: Ebrei
Si ripete per lettera il telegramma circolare n. 442/57460 in data 10 corrente:
“In applicazione recenti disposizioni, ebrei stranieri devono essere assegnati tutti at campi concentramento. Uguale provvedimento deve essere adottato per ebrei puri italiani, esclusi malati gravi et vecchi oltre anni settanta. Sunt per ora esclusi i misti et le famiglie miste salvo adeguate misure vigilanza”.
Pel capo della Polizia
AS GE, Repubblica sociale italiana, 35, fasc. 10 in Archivio di Stato di Genova già cit.