La strage del Martinetto

Fonte: Gabriele Richetti, art. cit. infra

“Qui caddero fucilati dai fascisti i martiri della Resistenza Piemontese. La loro morte salvò la vita e l’onore d’Italia. 1943-1945″.
Queste le parole riportate sulla lapide posta al centro del Sacrario del Martinetto, piccolo poligono di tiro nella IV Circoscrizione del Comune di Torino, scelto dai repubblichini dopo l’8 settembre 1943 come luogo d’esecuzione delle sentenze capitali.
Qui, nel giro di venti mesi, vennero fucilati sessantuno partigiani e resistenti piemontesi.
Lunedì, 31 marzo 1944, la Resistenza piemontese subisce un durissimo colpo: nella mattinata, sulla sagrestia del Duomo, vengono catturati quasi tutti i componenti del Comitato Regionale Militare Piemontese (Crmp): Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti.
Il Crmp era stato costituito clandestinamente a Torino nell’ottobre del 1943, come organo del Comitato di Liberazione Nazionale, con il compito di coordinare le azioni delle bande partigiane già esistenti.
Gli otto vengono condotti alle Carceri Nuove, e il 2 aprile, in gran fretta, viene dato il via al processo alla presenza dei massimi vertici fascisti. Già il giorno successivo, e nonostante le trattative intavolate dal Cln, viene pronunciata la sentenza: fucilazione. […]
Redazione, 5 aprile 1944: i Martiri del Martinetto, Infoaut, 5 aprile 2017

Fonte: Gabriele Richetti, art. cit. infra

[…] Tra l’8 settembre e l’aprile del 1945, almeno 60 persone (il numero delle vittime è presumibilmente maggiore) vengono fucilate al Martinetto. Il macabro iter è sempre lo stesso: i prigionieri partono dal carcere Le Nuove e vengono portati direttamente al poligono, dove li attende un sacerdote.
Legati a delle sedie di legno, spalle al plotone, aspettano la lettura della sentenza di condanna e il successivo ordine di fucileria.
Ancora oggi, in una teca, sono conservati i resti di alcune delle sedie usate durante le fucilazioni.
I nomi delle persone trucidate vengono incisi su una lastra di marmo, che viene posta l’8 luglio 1945 all’interno del complesso.
Il giorno della cerimonia è presente il presidente del CLN regionale, Franco Antonicelli, che dirà: “Le generazioni nostre hanno creduto a lungo che l’età dei martirii fosse conclusa per sempre nella nostra storia e nella storia civile del mondo. Invece, col dramma della libertà, si è riaperta la serie dei grandi olocausti e delle solenni testimonianze. E così abbiamo compreso che per la nostra esperienza di uomini tutto va riedificato: l’amore e il dolore, la colpa e il riscatto, l’infamia e la purezza, l’arco di trionfo e il Martinetto”.
Tra i nomi delle vittime il generale Giuseppe Perotti, fucilato come partigiano e a cui è dedicata l’omonima piazza a pochi metri dal Martinetto. Le sue ultime parole, davanti al plotone, furono: “Signori Ufficiali, attenti: Viva l’Italia!”. […]
Gabriele Richetti, Il sacrario del Martinetto, Nuova Società, 14 giugno 2018

“Qui caddero fucilati dai fascisti i martiri della Resistenza Piemontese. La loro morte salvò la vita e l’onore d’Italia. 1943-1945”. Questa è la frase di commemorazione che ancora oggi possiamo osservare al poligono di tiro del Martinetto dove le milizie della Repubblica Sociale italiana eseguivano le sommarie sentenze emesse dal tribunale speciale di Torino. La targa è situata vicino al muro delle esecuzioni in quel resta del complesso situato tra Corso Svizzera, via Giovanni Battista Gardoncini e corso Appio Claudio di cui oggi ricordiamo una delle più pesanti stragi commesse in quei giorni di guerra.
[…] La mattina del 31 Marzo 1944, al Duomo, vengono arrestati 8 dei componenti del comitato: Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti.Gli oppositori vengono subito trasportati “alle nuove” (in quei giorni prigione politica per i dissenti), e dopo pochi giorni avviati a processo.Il 2 Aprile inizia la farsa e il 3 Aprile viene emesse la condanna: fucilazione.
I prigionieri vengono condotti all’ alba del 5 Aprile presso il poligono di tiro del Martinetto e, dopo aver eseguito il macabro rituale, ovvero legare i prigionieri su delle sedie con le spalle rivolte agli esecutori, e la consueta benedizione la sentenza viene eseguita.
61 partigiani persero la vita in quei mesi di occupazione nazi-fascista e, anche davanti al boia, non mancarono episodi di grande coraggio e attaccamento alla patria: è il caso degli 8 uomini caduti nella retata del 31 Marzo che, anche davanti ai loro esecutori, in un ultimo e disperato atto di coraggio urlarono uniti e compatti “Viva l’ Italia libera”.
Oggi, di quel teatro di morte, resta poco poiché dell’ area ceduta al comune nel 1883 all’ associazione nazionale del tiro a segno, in cui fu edificato il poligono di tiro, non resta segno dopo il definitivo smantellamento avvenuto nel 1951.
Il muro delle esecuzioni (dove si possono ancora notare i buchi delle pallottole) e il giardino commemorativo hanno preso il posto della vecchia struttura ed oggi sono luogo di interesse nazionale in onore delle vittime di quei mesi di lotta. […]
Redazione, La strage del Martinetto, Italia 1943, 8 aprile 2018

Il piccolo poligono di tiro, unica parte sopravvissuta di una più vasta costruzione, è consacrato alla memoria dei resistenti qui fucilati tra il settembre 1943 e l’aprile 1945. La sistemazione attuale risale al 1967, quando venne mantenuto, circondato da un piccolo giardino, il solo recinto delle esecuzioni, essendo stata abbattuta la gran parte della struttura, sulla cui area sono sorti gli attuali palazzi d’abitazione. All’interno, un cippo posto sulla spalletta, una lapide con i nomi di cinquantanove caduti e una teca contenente i resti carbonizzati di una sedia usata per le fucilazioni.
Le sue origini vanno fatte risalire alla costituzione della Regia società di tiro a segno, nata nel 1837 ad opera di un gruppo di gentiluomini torinesi, alla quale Carlo Alberto concesse il recinto detto del Pallamaglio, presso il castello del Valentino, dove venne edificato un primo poligono di tiro su progetto dell’architetto Carlo Sada, inaugurato l’11 maggio dell’anno successivo con gare e giochi. Nel 1861, dopo il riordino dello statuto – l’associazione – ora Società del Tiro a Segno Nazionale – offerse la presidenza al principe Eugenio di Savoia Carignano e proseguì la sua attività nella costruzione del Valentino, ampliata nel 1865 su progetto del colonnello Giovanni Castellani. Fu nel 1883 che il Comune di Torino ottenne la cessione di quell’area, costruendo in cambio il nuovo campo di tiro del Martinetto, affidato in uso perpetuo all’associazione: il complesso rettangolare, cinto da alte mura, si estendeva tra i prati e i campi al termine di corso Regina Margherita su una lunghezza di 400 metri e una larghezza di 120. In esso vennero annualmente svolte manifestazioni e gare di tiro nazionali e internazionali. Con la legge del 1934 sull’avocazione dei campi di tiro da parte dello Stato, iniziarono le pratiche per l’alienazione dell’area, interrotte dalla guerra. Dopo l’8 settembre 1943 venne scelto dalla Repubblica sociale come luogo dell’esecuzione delle sentenze capitali; cinquantanove partigiani e resistenti vi trovarono la morte sotto i colpi del plotone di esecuzione, con una modalità che si ripeté tragicamente: l’arrivo dei condannati all’alba, ammanettati, qualche decina di agenti di Pubblica sicurezza e di militi della Guardia nazionale repubblicana in attesa, le sedie poste all’estremità del poligono sulle quali sono legati con la schiena volta al plotone, la benedizione del cappellano, la lettura della sentenza, la scarica di fucileria. Ogni anno, a partire dalla imponente manifestazione dell’8 luglio 1945, il luogo è sede di una cerimonia commemorativa che si svolge il 5 aprile, nell’anniversario della fucilazione dei componenti del primo Comitato militare.
Il Comitato militare regionale piemontese (Cmrp) era stato costituito nella clandestinità a Torino nell’ottobre del 1943, inizialmente come organismo tecnico-consultivo dell’organismo di direzione politica della resistenza piemontese, il Clnrp (Comitato di liberazione nazionale regionale piemontese), con il compito di organizzare e coordinare l’azione delle bande partigiane già formatesi nelle vallate della regione. Vi fecero parte i rappresentanti dei partiti antifascisti: l’operaio Eusebio Giambone per il Partito comunista, Leo De Benedetti per il Partito d’azione (sostituito due mesi dopo dal professor Paolo Braccini), l’avvocato Renato Martorelli per il Partito socialista (sostituito poi dal medico Corrado Bonfantini), l’avvocato Valdo Fusi per la Democrazia cristiana, l’avvocato Cornelio Brosio per il Partito liberale. Accanto ad essi un gruppo di ufficiali effettivi: il colonnello Giuseppe Ratti, il capitano Franco Balbis, i maggiori Lorenzo Pezzetti e Ferdinando Creonti, i generali Giuseppe Perotti e Raffaello Operti, il tenente di complemento Silvio Geuna. Dalla fine del gennaio 1944, dopo una controversa direzione affidata ad Operti, Perotti divenne il coordinatore del Comitato. A partire dal mese di marzo, con l’intensificarsi della azione antipartigiana da parte di tedeschi e fascisti, il Comitato subì numerose perdite e arresti tra i suoi membri. Già il 4 febbraio Pezzetti fu ucciso dai fascisti in via Camerana, Errico Giachino, organizzatore delle squadre cittadine per il partito socialista, fu arrestato il 14 marzo, il 27 Quinto Bevilacqua, segretario della federazione del Psi clandestino, così come Giulio Biglieri, azionista. Il 29 furono catturati due ispettori del Comitato, i tenenti colonnello Giuseppe Giraudo e Gustavo Leporati e il tenente Massimo Montano. La cattura del nuovo rappresentante del Psi Pietro Carlando consentì alla polizia fascista di acquisire numerose informazioni, attraverso il sequestro di documenti, e di arrestare il 31 marzo nella sacrestia del Duomo in piazza San Giovanni l’intero Comitato: Perotti, Geuna, Giambone, Fusi, Braccini, Balbis e Brosio, vennero prima condotti in Questura (con una quarantina di cittadini rastrellati nelle vie adiacenti), interrogati e a mezzanotte del 1° aprile rinchiusi alle Carceri Nuove.
Il processo del Tribunale speciale contro di loro e contro gli arrestati nei giorni precedenti venne istruito in gran fretta. Mussolini in persona aveva ordinato di chiudere rapidamente e in modo esemplare la vicenda, per dimostrare all’alleato tedesco l’efficienza repressiva della Repubblica sociale. Il 2 aprile, domenica delle Palme, si tenne la prima udienza al Palazzo di Giustizia, nell’aula della Corte d’assise ordinaria, alla presenza dei massimi vertici fascisti, tra cui il ministro dell’Interno Buffarini Guidi, il prefetto Zerbino e il federale Solaro. Nonostante i tentativi di trattativa messi immediatamente in atto dal Cln, la mattina del 3 aprile, dopo una seconda udienza, il tribunale pronunciò il suo verdetto: la morte per Balbis, Bevilacqua, Biglieri, Braccini, Giachino, Giambone, Montano e Perotti; ergastolo per Carlando, Geuna, Giraudo e Leporati, due anni di carcere a Brosio, assoluzione per insufficienza di prove per Chignoli e Fusi. Verso le sei di mercoledì 5 aprile gli otto condannati furono condotti al poligono e qui fucilati, affrontando il plotone d’esecuzione con grande dignità e coraggio, come ricorda padre Carlo Masera, il missionario della Consolata che li assisté sino alla morte (Pansa, pp.47-48).
Ancora in periodo clandestino, nell’approssimarsi dalla fine della guerra, la volontà che il luogo che aveva visto nell’aprile 1944 la morte dei componenti il primo Comitato militare piemontese e di molti altri patrioti diventare il memoriale della resistenza torinese venne espressa nelle discussioni del Cln regionale quando nella seduta del 21 marzo 1945 il rappresentante della Democrazia cristiana, esponendo il desiderio di un sacerdote, propose che il Martinetto fosse considerato un luogo sacro e che non fosse profanato dopo la liberazione con altre fucilazioni; il rappresentante comunista si associò con la proposta che il luogo fosse considerato monumento nazionale incontrando il consenso unanime.
Solo il 1° agosto 1951 il vecchio poligono di tiro venne definitivamente chiuso e trasferito alle Basse di Stura, dove era da tempo sorto il nuovo poligono militare; l’anno precedente su iniziativa di alcuni dei protagonisti della resistenza piemontese, che avevano da pochi anni fondato l’Istituto storico della resistenza in Piemonte, Franco Antonicelli, Andrea Guglielminetti e Pier Luigi Passoni in particolare, il luogo fu riconosciuto d’interesse nazionale e posto sotto il vincolo. Il 26 luglio il quotidiano torinese “Il Popolo nuovo” ne annunciava la chiusura riprendendo le motivazioni che avevano mosso il Cln: “Il posto in cui caddero Perotti e tanti altri partigiani venne rispettato anche quando l’autorità giudiziaria si trovò a ordinare la fucilazione dei criminali di Villarbasse [1947]. Quegli sciagurati vennero infatti giustiziati al poligono delle Basse di Stura poiché le zolle del Martinetto erano fatte sacre dall’olocausto degli eroi – e altro sangue non poteva venir confuso col loro sangue. Tanto ricordo va perpetuato anche da parte di coloro che si varranno del vasto terreno per edificare un’altra zona della città nuova. Può – anzi, deve mutare la pianta d’ogni grande agglomerato urbano. Ma le memorie restano e col passar del tempo s’accrescono di luce e di eloquenza ammonitrice”.
Opere citate:
Pansa G., Viva l’Italia libera! Storia e documenti del primo Comitato militare del Cln regionale piemontese, Torino, Isrp, 1995, 4a ediz.
Redazione, Sacrario del Martinetto in Torino 1938-45, Città di Torino, Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea

Il giorno di Pasqua, domenica 27 marzo 2016, a 62 anni dalla fucilazione al Martinetto di otto componenti del Comitato militare piemontese del CLN, ho riletto i brani che Ada Gobetti nel Diario Partigiano dedica all’eccidio. Il 5 aprile 1944 Ada scrive: “li hanno arrestato tutti … mentre si recavano a una riunione nella sacrestia di San Giovanni: avevan con sé carte, documenti, denaro. La loro posizione è gravissima. Hanno imbastito una specie di processo: ed evidentemente per dare un esempio intimidatorio li hanno condannati a morte. Si spera ancora d’ottenere una grazia, un rinvio che permetta di salvarli in qualche modo. Ma la speranza è poca. Gli amici, che ho visto oggi, sono letteralmente disfatti”.
E il 6 aprile 1944 aggiunge: “Li hanno fucilati tutti stamane all’alba, al Martinetto. Una volontà di battaglia esasperata fino al furore mi scuote e capisco che cosa vuol dire vendicare i nostri morti. Oggi Lisetta, Mario, Lea sono stati da me a lungo. Dopo simili colpi si sente il bisogno di star vicini per sopravvivere, per resistere”.
Il tempo non ha scalfito il valore simbolico del Martinetto. Ricordare il coraggio di Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano, Giuseppe Perotti, vuole essere un omaggio a quanti e a quante, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno dato e danno la vita per la libertà.
A chi volesse meglio intendere il significato di una pagina importante della Resistenza in Italia, consiglio di leggere e o rileggere il libro di Valdo Fusi, Fiori rossi al Martinetto. Il processo di Torino – aprile 1944, prefazione di Alessandro Galante Garrone, Mursia, Milano 1968. Il libro di Fusi ha avuto numerose edizioni presso Mursia dal 1968 fino al 1973. Segnalo ora l’edizione, con una prefazione di Marcello Maddalena, presso Riccadona, Torino 2011.
L’autore (Pavia, 9 maggio 1911- Isola d’Asti, 2 luglio 1975), dopo l’8 settembre prese parte alla Resistenza e rappresentò la Democrazia cristiana nel Comitato militare piemontese del CLN. Il 31 marzo 1944 Fusi venne arrestato nel duomo di Torino insieme con quasi tutti i membri del comitato stesso. Accusato di “attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità della Repubblica sociale italiana”, venne assolto per insufficienza di prove dal tribunale speciale al famoso processo di Torino.
In un testo inedito, datato: 14 ottobre 1968, conservato al Centro studi Piero Gobetti, che pubblichiamo in appendice, Norberto Bobbio ha definito Fiori rossi al Martinetto “il libro del martirio”. Inoltre egli sottolinea che il proposito di Fusi è di mettersi da parte, di far parlare gli altri, di “presentarsi quasi come uno che c’è capitato per caso”, “un testimone, uno che ha visto, ha sentito, ed ora può raccontare veridicamente come sono andate le cose”.
Come scrive Marcello Maddalena nella prefazione alla nuova edizione, Fiori Rossi al Martinetto “non è il libro né di uno storico né di un politico, anche se è fondamentale per uno storico che voglia ricostruire le vicende di quegli anni e per un politico disponibile a trarne ispirazioni ideali; e non è nemmeno il libro di un erudito o di un uomo di cultura con la pretesa o l’ambizione di insegnare qualcosa a qualcuno”. Fiori Rossi al Martinetto è un libro morale, non moralistico, che senza alcun intento agiografico, con uno stile volutamente sdrammatizzante, a volte scanzonato e umoristico, con un linguaggio quotidiano, anche se gli eventi descritti sono straordinari e tragici, s’interroga sul significato della Resistenza. […]
Redazione, Il coraggio dei miti, Centro Studi Sereno Regis, 31 marzo 2016

Franco Balbis (Francis). Di anni 32. Nato il 16 ottobre 1911 a Torino. Ufficiale in Servizio permanente effettivo. Dopo aver frequentato il collegio dei Salesiani di Alassio ed aver conseguito la maturità classica al liceo Doria di Genova, entra nell’Accademia di Artiglieria e Genio di Torino. Assegnato all’8º Reggimento dislocato a Verona, viene successivamente ammesso alla Scuola Superiore di guerra (ancora a Torino), dov’è promosso Capitano di Artiglieria in Servizio di stato Maggiore. Inviato in Nord Africa come volontario, combatte ad Ain El Gazala ed El Alamein, ricevendo numerose decorazioni (Medaglia d’Argento, Medaglia di Bronzo, Croce di guerra tedesca di 1ª classe, consegnatali da Rommel in persona). Trasferito in Croazia, dopo l’armistizio rimpatria e si unisce al movimento partigiano, divenendo membro del 1º Comitato militare regionale piemontese (CMRP). Conosciuto con il nome di “Francis”, assume principalmente funzioni di organizzazione, controspionaggio e collegamento. Il 31 marzo 1944 si reca ad una riunione clandestina del CMRP, nella sacrestia della chiesa di San Giovanni, a Torino, che viene interrotta dall’irruzione di alcuni elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani, i quali arrestano Balbis e tutti i componenti del Comitato. Incarcerato a Torino, viene processato coi suoi compagni dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i giorni 2 e 3 aprile. Condannato a morte, è fucilato il 5 aprile al poligono di tiro nazionale del Martinetto, ad opera di un plotone della GNR (Guardia nazionale repubblicana). Con lui sono giustiziati anche gli altri appartenenti al CMRP, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti. Medaglia d’Oro e Medaglia d’Argento al valor militare e alla memoria.
Igor Pizzirusso, Franco Balbis (Francis) in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Quinto Bevilacqua. Di anni 27. Nato il 27 aprile 1916 a Marmorta, frazione di Molinella (BO). Residente a Torino. Sposato. Di professione operaio mosaicista. E’ il penultimo di sei figli di una famiglia di braccianti socialisti. Verso la metà degli anni ’20 i genitori ed i fratelli sono costretti ad emigrare a Torino a causa dei continui soprusi perpetrati dagli squadristi e del boicottaggio operato dalle autorità che impediscono di lavorare a chiunque non abbia la tessera del partito fascista. Quinto li segue solo nel 1931. In Piemonte inizia a lavorare come muratore, quindi si iscrive alla scuola serale di disegno San Carlo. Divenuto assistente edile, con il fratello Costante costituisce una piccola impresa che si occupa principalmente di mosaici in ceramica. Nel 1940 è richiamato alle armi nell’artiglieria di montagna. Due anni dopo, nel 1942, si sposa. La sua famiglia intanto allaccia contatti continui con i dirigenti del movimento clandestino socialista, tanto che, dopo l’armistizio, Quinto entra a far parte della dirigenza della Federazione torinese del partito, di cui diventa segretario nel marzo 1944. Il giorno 31 dello stesso mese egli si reca nella sacrestia della chiesa di San Giovanni, a Torino, per partecipare ad una riunione clandestina del CMRP (Comitato militare regionale piemontese), che viene però interrotta dall’irruzione di alcuni elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani. Arrestato coi suoi compagni ed incarcerato a Torino, Bevilacqua è processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i giorni 2 e 3 aprile. Condannato a morte, il 5 aprile è condotto al poligono di tiro nazionale del Martinetto e fucilato da un plotone della GNR (Guardia nazionale repubblicana). Con lui sono giustiziati anche Franco Balbis, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti, tutti appartenenti al Comitato militare regionale piemontese (CMRP). Dopo la liberazione, a Quinto Bevilacqua è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare alla memoria.
Igor Pizzirusso, Quinto Bevilacqua in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Giulio Biglieri. Nato a L’Aquila il 9 ottobre 1911, fucilato a Torino il 5 aprile 1944. Bibliotecario a Novara, decorato di tre croci di guerra e proposto per la Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Dopo l’8 settembre 1943 svolge missioni militari con le formazioni partigiane dell’Altro Novarese (Beltrami) e della Valsesia (Moscatelli). Entra a far parte del primo Comitato Militare Regionale Piemontese. Arrestato il 30 marzo 1944 da elementi della Federazione dei fasci Repubblicani di Torino, mentre partecipa ad una riunione del CMRP, nella sacrestia di san Giovanni in Torino. Processato nel giorni 2-3 aprile 1944, insieme con i membri del CMRP, dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato viene fucilato il 5 aprile al poligono nazionale del Martinetto di Torino, da un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblicana, con Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Paolo Braccini, Enrico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e il generale Giuseppe Perotti. Proposto per la medaglia d’Argento al Valor Militare. A Giulio Biglieri la Città di Novara ha dedicato una via.
Igor Pizzirusso, Giulio Biglieri in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Paolo Braccini (Verdi). Di anni 36. Nato il 16 maggio 1907 a Canepina (Viterbo). Sposato. Di professione docente universitario. Dal viterbese, la sua famiglia si trasferisce a Terni, dove il padre, medico condotto e militante socialista, viene eletto sindaco prima dell’avvento del fascismo. Cresciuto con accanto la figura del genitore (amico di Matteotti) e dello zio (costretto ad espatriare per le persecuzioni degli squadristi), Paolo sviluppa presto un forte sentimento antifascista. Laureatosi in agraria nel 1930 all’Università degli studi di Milano, nel 1931 è chiamato alle armi. Iscritto al corso allievi ufficiali di complemento, viene espulso proprio a causa delle posizioni politiche del padre. Tornato a Milano dopo aver vinto una borsa di studio, si specializza presso la Stazione di Zootecnia. Divenuto assistente sperimentatore, nel 1937 ottiene la libera docenza in ezoognosia e zootecnia. Iscrittosi a Veterinaria, nel 1940 consegue la sua seconda laurea e, alla fine dell’anno, si trasferisce a Torino. L’Istituto di Zootecnia dell’Università lo assume prima in qualità di assistente, poi come docente incaricato delle cattedre di zoognostica e di zootecnia generale e speciale. Presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte e della Liguria compie numerose ricerche sulla fecondazione artificiale degli animali. Entrato in contatto con il Partito d’Azione, il 26 luglio 1943 è con Duccio Galimberti in Piazza Castello, durante il discorso che quest’ultimo tiene alla folla invitandola a combattere i tedeschi. Dopo l’armistizio è nominato rappresentante del PdA all’interno del Comitato militare regionale piemontese (CMRP). I suoi compiti riguardano principalmente l’organizzazione ed il coordinamento dell’attività delle formazioni GL (Giustizia e libertà). Il 31 marzo 1944, durante una riunione del Comitato nella sacrestia della chiesa di San Giovanni, a Torino, irrompono alcuni elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani, che arrestano tutti i presenti. Incarcerato a Torino, Braccini è processato coi suoi compagni dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i giorni 2 e 3 aprile. Condannato a morte, è fucilato il 5 aprile al poligono di tiro nazionale del Martinetto, ad opera di un plotone della GNR (Guardia nazionale repubblicana). Con lui sono giustiziati anche gli altri appartenenti al CMRP, Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti. Nel 1944 gli è stata conferita la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione: “Membro del Comitato militare del C.L.N. del Piemonte, dopo aver concorso alla costituzione dei nuclei partigiani delle valli, portava largo e decisivo contributo all’assetto e al potenziamento delle formazioni piemontesi. Sottoposto a giudizio e condannato a morte, consacrava con l’olocausto della propria vita l’ardente fiamma che l’aveva sostenuto durante il periodo della lotta clandestina. II piombo nemico troncava la sua nobile esistenza. Cadeva suggellando, con l’estrema invocazione all’Italia, la sua fede nei destini della Patria. Torino, 5 aprile 1944.”
Igor Pizzirusso, Paolo Braccini (Verdi) in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Errico Giachino (Erich). Di anni 28. Nato il 10 marzo 1916 a Torino ed ivi residente. Dopo aver conseguito il diploma all’Istituto tecnico per geometri Sommeiller, si iscrive alla facoltà di Economia e commercio. Campione universitario nei 100 e 200 metri piani, completa il percorso di studi con ottimi esiti e comincia a preparare la tesi mentre già lavora nel settore Assistenza tecnica della Fiat. Espatriato in Germania per lavoro, nel 1941 ritorna in Italia perché richiamato alle armi ed è arruolato nel 15º Reggimento Autieri come sottotenente di complemento. All’annuncio dell’armistizio si trova in licenza nella sua città natale. Dopo aver tentato, con scarso successo, di organizzare una prima resistenza ai tedeschi, si dà alla macchia e si rifugia in montagna. Per circa un mese si occupa di organizzare gli sbandati e di formare le prime bande di partigiani nelle Valli di Lanzo. Tornato a Torino ed entrato in contatto con gli esponenti del Partito socialista, è scelto come membro del 1º Comando militare regionale piemontese (CMRP) in qualità di rappresentante delle Brigate Matteotti. Il 31 marzo 1944, proprio durante una riunione clandestina nella sacrestia della chiesa di San Giovanni (a Torino), Giachino è arrestato con gli altri componenti del CMRP da alcuni elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani. Immediatamente incarcerato, sia lui che i suoi compagni vengono processati il 2 e il 3 aprile dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che li condanna a morte. Il 5 aprile 1944 Enrico Giachino, Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Eusebio Giambone, Massimo Montano e Giuseppe Perotti sono condotti al poligono di tiro nazionale del Martinetto, e fucilati da un plotone composto da militi della GNR (Guardia nazionale repubblicana). Insignito della Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione: “Magnifico esempio di eroismo, dalla data dell’armistizio a quella del martirio, assolveva senza sosta importanti e pericolosi incarichi per il potenziamento delle formazioni partigiane. Arrestato ed invitato a collaborare con il nemico in cambio della vita e della libertà, rifiutava sdegnosamente resistendo anche allo strazio della madre presente all’interrogatorio. Processato e condannato a morte affrontava con fiero stoicismo il plotone di esecuzione e al grido di ” Viva l’Italia!” offriva la propria vita in olocausto alla rinascita della Patria. Torino, 5 aprile 1944.”. La data del decreto è in corso di verifica.
Igor Pizzirusso, Errico Giachino (Erich) in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Eusebio Giambone (Franco). Di anni 40. Nato il 1º maggio 1903 a Camagna Monferrato, in provincia di Alessandria. Sposato e padre di due figli. Si trasferisce con la famiglia a Torino quando è ancora un bambino e qui, terminati gli studi, inizia a lavorare come tornitore. Unitosi al movimento della Gioventù socialista, partecipa attivamente all’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920. Entrato in contatto con Gramsci, nel gennaio del 1921 aderisce al Partito comunista d’Italia appena formatosi. Dopo l’avvento del fascismo, si oppone allo squadrismo ma viene più volte aggredito e percosso, nonché condannato a nove mesi di carcere. Costretto ad espatriare in Francia nel dicembre del 1922, all’inizio dell’anno successivo si stabilisce a Lione, dove già si trova il fratello Vitale. Nel 1926 il III congresso del Pcd’I si tiene proprio nel locale che egli ha aperto con la moglie Louise e, nel novembre dello stesso anno, la sua casa diventa sede dell’ufficio politico del partito, dopo la messa al bando da parte della legislazione fascista. Membro dell’Unione popolare italiana, Eusebio Giambone si occupa di assistere e supportare gli esuli antifascisti nella zona del Rodano, prima di trasferirsi a Parigi nel dicembre del 1937. Vi rimane per circa due anni, prima di essere arrestato e rinchiuso nel campo di concentramento di Vernet, nei pressi di Tolosa, nei primi mesi del 1940. Con l’occupazione tedesca e l’instaurarsi del governo di Vichy, è deciso che gli antifascisti italiani detenuti Oltralpe vengano rimpatriati. Giambone è così consegnato alle autorità fasciste che, dopo un breve periodo di carcerazione a Torino, lo inviano al confino a Castel Baronia (in provincia di Avellino). Liberato in seguito alla caduta di Mussolini, dopo l’8 settembre raggiunge Torino per unirsi al movimento di liberazione. Organizzatore dell’opposizione al nazifascismo all’interno delle fabbriche della città, è presto nominato Rappresentante del Partito comunista in seno al 1º Comando militare regionale piemontese (CMRP). Il 31 marzo 1944, proprio durante una riunione clandestina nella sacrestia della chiesa di San Giovanni (a Torino), Giambone e gli altri componenti del CMRP sono sorpresi ed arrestati da alcuni elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani. Immediatamente incarcerati, sia lui che i suoi compagni vengono processati il 2 e il 3 aprile dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, che li condanna a morte. Il 5 aprile 1944 Euesebio Giambone, Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Massimo Montano e Giuseppe Perotti sono condotti al poligono di tiro nazionale del Martinetto, e fucilati da un plotone composto da militi della GNR (Guardia nazionale repubblicana). Insignito della Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione: “Modesto operaio, animato da purissima fede, accorreva all’appello della Patria oppressa. Infaticabile organizzatore e combattente audace sapeva trasfondere ai compagni di lotta lo stesso entusiasmo che lo animava per la causa alla quale aveva dedicato tutto se stesso. Catturato dal nemico, processato e condannato a morte, affrontava impavido il plotone di esecuzione e nel cadere sotto la raffica del piombo nemico lanciava, con l’offerta della sua vita, l’estrema invocazione alla Patria. Luminosa figura di combattente della libertà. Torino, 5 aprile 1944. “. La data del decreto è in corso di verifica.
Igor Pizzirusso, Eusebio Giambone (Franco) in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Massimo Montano. Di anni 24. Nato il 18 giugno 1919 a Tonet Escarène (Nizza, Francia). Residente a Testona di Moncalieri (TO). Sposato. Di professione impiegato. Diplomatosi in ragioneria all’istituto Quintino Sella di Torino, si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, ma è costretto a interrompere gli studi nel 1939, per la chiamata alle armi. Arruolato nell’11º reggimento del corpo degli Alpini, combatte in Grecia e Albania, prima di essere rimpatriato ed assegnato alla caserma “Nizza cavalleria” di Torino come tenente del Corpo di amministrazione. Qui conosce Paolo Braccini, dirigente del Partito d’Azione clandestino, ed inizia a condividerne le idee politiche. Dopo l’armistizio, anziché rispondere ai bandi di reclutamento della R.S.I. (Repubblica sociale italiana), Montano decide di unirsi ai partigiani torinesi. Incaricato di diversi compiti organizzativi, entra a far parte del 1º Comitato militare regionale piemontese (C.M.R.P.). Tradito da una delazione, è arrestato dalla polizia fascista il 29 marzo 1944, mentre sta imbiancando la sua abitazione a Moncalieri. La sua cattura precede di due giorni quella del resto del CMRP, che avviene nella sacrestia della chiesa di San Giovanni, a Torino. Incarcerato nel capoluogo piemontese, Montano è processato assieme ai suoi compagni dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, i giorni 2 e 3 aprile. Condannato a morte, presenta domanda di grazia, che però viene respinta. Il 5 aprile è condotto al poligono di tiro nazionale del Martinetto e fucilato ad opera di un plotone della GNR (Guardia nazionale repubblicana). Con lui sono giustiziati anche Franco Balbis, Paolo Braccini, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Errico Giachino, Eusebio Giambone e Giuseppe Perotti, tutti appartenenti al comitato militare regionale piemontese. Alla memoria di Montano è stata assegnata la medaglia d’argento al valor militare.
Igor Pizzirusso, Massimo Montano in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana

Giuseppe Paolo Perotti. Di anni 48. Nato il 16 giugno 1895 a Torino. Sposato. Dopo aver frequentato l’Accademia militare di Artiglieria e Genio di Torino, prende parte al primo conflitto mondiale con il grado di sottotenente. Decorato con medaglia di bronzo al valore e promosso capitano per meriti conseguiti sul campo, al termine della guerra sospende la carriera militare e si iscrive alla facoltà di Ingegneria dell’università di Torino. Una volta laureatosi entra nella Direzione del Genio militare del Corpo d’armata, poi è trasferito all’Ufficio fortificazioni con l’incarico di migliorare la linea difensiva lungo il confine italo-francese. Nominato insegnante di costruzioni presso la Scuola di applicazione di Artiglieria e Genio, nel 1935 ottiene la promozione a tenente colonnello e partecipa alla campagna di Etiopia. Messo a capo del reggimento ferrovieri nel 1938, nel luglio 1942 diventa Generale di brigata e viene assegnato allo Stato maggiore dell’esercito come ispettore delle unità ferroviarie mobilitate. Dopo l’armistizio è tra i primi ad aderire al movimento di liberazione. Membro del 1º Comitato militare regionale piemontese (C.M.R.P.), il 31 marzo 1944 viene arrestato da alcuni elementi della Federazione dei Fasci Repubblicani, che irrompono nella sacrestia della chiesa di San Giovanni, a Torino, durante una riunione clandestina. Incarcerato a Torino, Perotti viene processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato nei giorni 2 e 3 aprile. Condannato a morte, il 5 aprile successivo viene fucilato da un plotone della GNR (Guardia nazionale repubblicana) al poligono di tiro nazionale del Martinetto. Con lui sono giustiziati anche gli altri appartenenti al CMRP: Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone e Massimo Montano. Alla sua memoria è stata assegnata la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: “Ufficiale generale di eccezionali doti morali e militari, all’atto dell’armistizio organizzava nell’Italia Settentrionale un’efficace resistenza armata contro l’oppressore tedesco e fascista e dirigeva, con fede ed entusiasmo inesauribili, l’audacissima attività bellica di agguerrite formazioni di patrioti del Piemonte. Con sagacia ed ardimento senza pari portava a termine numerose azioni di sabotaggio contro il traffico ferroviario alla frontiera occidentale, riuscendo ad ostacolare seriamente per oltre tre mesi i movimenti avversari in una importante vallata alpina. Attraverso un’attiva rete informativa da lui creata e diretta, forniva preziose notizie di carattere operativo ai comandi italiani ed alleati. Arrestato dai nazi-fascisti nel corso di una riunione di dirigenti del fronte clandestino di resistenza piemontese, che in lui avevano trovato il capo di altissimo prestigio, manteneva l’assoluto segreto circa il movimento patriota ed assumendo su di sé con nobilissimo gesto, ogni responsabilità, salvava l’organizzazione e la vita di molti suoi collaboratori. Condannato a morte da un tribunale di parte asservito ai tedeschi, affrontava con cosciente fierezza di soldato la morte al grido di « Viva l’Italia». Italia occupata, 8 settembre 1943-5 aprile 1944.”
Igor Pizzirusso, Giuseppe Paolo Perotti in Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana