La vera storia dello Schindler portoghese

Rimbalza sui giornali internazionali, il New York Times, la Cnn, la notizia che il Parlamento portoghese renderà onore con una targa nel Pantheon nazionale a un eroe che ottant’anni fa, nel giugno del 1940, salvò in pochi giorni 30 mila ebrei e profughi politici dalla persecuzione nazista. “Forse“, secondo le parole dello storico israeliano Yehuda Bauer, si trattò della “più grossa azione di aiuto compiuta da un singolo individuo durante la Shoah“. Guardiamo meglio. Per noi è un perfetto sconosciuto: Aristides de Sousa Mendes. […] Nato nel 1885 da una famiglia aristocratica, bon vivant, cattolico fervente, 14 figli, console del Portogallo, era già stato nelle legazioni in Kenya, Usa, Zanzibar, Brasile. Ma fu a Bordeaux, dove era entrato in carica nel 1938, che il destino lo sfidò. Nel 1939 l’aveva raggiunto la famigerata Circolare 14 dell’autoritario primo ministro António de Oliveira Salazar. Già una direttiva del ’38, dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, concedeva ai migranti solo visti turistici di 30 giorni, ma ora, dopo l’inizio della guerra, le maglie si chiudevano: il capo dell’Estado Novo escludeva dalla possibilità di qualsiasi visto tutti i viaggiatori che avessero una situazione controversa. […] Nel maggio 1940 i tedeschi entrano in Francia, il 14 giugno a Parigi, decine di migliaia di persone arrivano a Bordeaux in treno, macchina, bicicletta, a piedi. Davanti al Consolato si creano code lunghissime. Sousa Mendes scrive per istruzioni a Lisbona che risponde di rafforzare la Circolare 14, quella che proibisce di accogliere i profughi. Ma non è così semplice. Il Console è turbato, è profondamente religioso e quando incontra il rabbino polacco Chaim Kruger nella folla davanti alla grande sinagoga, gli dice che cercherà in ogni modo di aiutarlo. Il rabbino però risponde che non sono solo lui e la sua famiglia ad aver bisogno dei visti, “tutti questi ebrei sono in pericolo di vita” gli dice. Sousa Mendes entra in crisi. Si chiude nella camera da letto e vi rimane sepolto per tre giorni. Secondo il biografo Jose-Alain Fralon, ne esce con i capelli bianchi e dichiara ai profughi per strada: “Da oggi darò visti a chiunque, non ci saranno più differenze di nazionalità, razza, o religione. Non permetterò che moriate“. Il rabbino raccoglie i passaporti dei suoi correligionari nella strada. Sousa Mendes li firma tutti. E per sei giorni non fa altro: su un lungo tavolo si crea una specie di catena di montaggio, in cui Kruger porge i libretti, i figli di Sousa passano, il viceconsole José Seabra stampiglia, il console firma. Continua a firmare anche di notte, dapprima il nome e cognome completi, poi, per la stanchezza della mano, solo Mendes. (Viene in mente il console giapponese Sugihara che a Kaunas, in Lituania, per scrivere gli ideogrammi dei visti di transito per gli ebrei in fuga, si faceva massaggiare le dita collassate dalla moglie, come racconta Jan Brokken nel suo bellissimo I giusti mentre parla delle altrettanto coraggiose azioni del console olandese Jan Zwartendijk: e pensare che lì si parlava di 2-3 mila passaporti, qui di 30 mila). La notizia si sparge velocemente, il consolato di Bordeaux trabocca di gente, qualcuno si addormenta sulle scale. Poi ci fu uno stupido impiccio. Una signora inglese che aspettò un po’ troppo per le sue carte, si lamentò con l’ambasciata inglese a Lisbona e questa inoltrò un reclamo al ministro degli Esteri su come Sousa Mendes lavorasse fuori dagli schemi, aggiungendo falsamente che, per quelle firme, richiedeva anche dei soldi. E così il fatto finì all’attenzione dei superiori. Una volta informato, fu lo stesso Salazar a intimare a Mendes di smettere. Ma lui non si fece fermare. Era una corsa contro il tempo, perché con i nazisti in Francia, le frontiere sarebbero state chiuse da un momento all’altro. Sousa Mendes, una volta interdetto a Bordeaux, andò prima al consolato di Bayonne, poi nella cittadina di confine con la Spagna Hendaye. Sapeva che stava contravvenendo agli ordini e continuò a rilasciare visti. Dal 17 al 23 giugno il suo lavoro fu ininterrotto. Poi fu obbligato a smettere e a rientrare in patria. A luglio, una volta a casa, scoprì che c’era un procedimento disciplinare a suo carico, e, anche se rivendicava di aver avuto il solo scopo umanitario di salvare vite umane e di sottrarle a ulteriori persecuzioni, non ci furono vie d’uscita: Sousa Mendes fu obbligato a ritirarsi senza pensione. Caduto in miseria, costretto a nutrirsi in una mensa di ebrei del posto, morì abbandonato a se stesso nel 1954. In seguito all’impegno incessante dei suoi figli, nel 1966 lo Yad Vashem di Gerusalemme lo riconobbe Giusto fra le nazioni, e molti anni dopo, nel 1988, il Parlamento portoghese gli ridette, alla memoria, lo status diplomatico promuovendolo ambasciatore.[…] Ora che il nome di Sousa Mendes viene definitivamente riscattato e onorato anche in patria, è una vittoria per la famiglia e per tutti noi.

Susanna Nirenstein su “la Repubblica” del 6 luglio 2020