Le azioni sapiste tra marzo e aprile non si erano discostate dagli schemi consueti

Giunta la primavera, gli eventi si fecero sempre più convulsi, con gli opposti schieramenti impegnati in azioni volte a bloccare il nemico sul posto o, al contrario, ad aprirsi la strada verso il Po. A Savona la Resistenza cittadina era in pieno fermento, pronta ad aiutare i partigiani di montagna nel momento decisivo. Fu proprio all’inizio di aprile che il locale Comando di Sottozona ricevette finalmente la qualifica ufficiale di Comando di Zona <1, pur avendone svolto tutte le mansioni fin dall’estate precedente. Ormai forte dell’appoggio di decine di volontari giovani e meno giovani tra cui molte donne, l’organismo che da mesi guidava la Resistenza in gran parte della provincia in un primo tempo aveva reso conto del proprio operato alla Delegazione ligure delle Brigate d’Assalto Garibaldi, poi, quando la situazione politica fu meglio definita, al CLN provinciale e al relativo Comitato militare <2. In aprile alla testa del Comando della Seconda Zona ligure si trovava il colonnello “Carlo Testa” (Rosario Zinnari), che aveva “Penna” (Guido Caruzzo, destinato a sostituire “Enrico” al comando della divisione “Bevilacqua”) quale vice; commissario era “Marcello” (Vincenzo Mistrangelo) poi rimpiazzato da “Renna” (Armando Botta), proveniente dalla “Bevilacqua”, in contemporanea con la sostituzione del comandante “Enrico”; capo di stato maggiore era “Ernesto” (Edoardo Zerbino) ed intendente l’abile “Tullio” (Federico Torresan), che grazie all’aiuto di numerosi collaboratori era stato in grado di far pervenire qualcosa ai partigiani anche nei momenti più neri. Tra gli ispettori del Comando di Zona spiccava il nome di Giovanni Gilardi “Andrea” <3, che dopo lo scioglimento formale (31 marzo) della Delegazione ligure delle Brigate Garibaldi in seguito al riconoscimento del Corpo Volontari della Libertà quale esercito unitario della Resistenza <4 rappresentava gli occhi e le orecchie del PCI a Savona.
Sempre in aprile il CLN, che aveva molto patito a causa degli arresti di Speranza, Bruzzone e Allegri, era composto dall’avv. Arnaldo Pessano per il Partito Repubblicano, dal dott. Leopoldo Fabretti per la DC, dal dott. Emilio Lagorio per il PCI, da Giovanni Clerico per il PSIUP, Erodiade Polano per il Partito d’Azione ed Ercole Luciano per il Partito Liberale. Il repubblicano Antonio Zauli manteneva come sempre la carica di segretario <5. Quanto alla divisione SAP “Gramsci”, essa aveva raggiunto il suo schieramento definitivo: otto brigate per ben oltre un migliaio di volontari. Il problema della cronica carenza di armi aveva indotto i comandanti sapisti a creare durante l’inverno in seno ad ogni brigata delle “squadre di punta” dotate del massimo volume di fuoco disponibile ed in grado di agire militarmente per procurare altre armi, mentre altre squadre più o meno disarmate si dedicavano a compiti di collegamento e propaganda <6. Le azioni sapiste tra marzo e aprile non si erano discostate dagli schemi consueti: lanci di bombe a mano contro le sedi del PFR e delle polizie fasciste, minacce, disarmi. Tuttavia la sera del 5 aprile l’organizzazione subì la grave perdita dell’ispettore di divisione “Maurizio”, l’operaio Carlo Aschero. Dopo uno scontro nell’abitato di Vado costato la vita a due “marò” “Maurizio” venne bloccato da alcuni brigatisti neri che, perquisitolo, gli trovarono addosso delle munizioni. Secondo le testimonianze, Aschero avrebbe detto: “Sono un partigiano. Se volete ammazzarmi fatelo subito”. I fascisti non si fecero pregare due volte, e restarono a vigilarne il cadavere per tre giorni in attesa che qualcuno lo reclamasse <7. Come tutti gli eventi in qualche misura epici della lotta di liberazione, anche la fine dignitosa dell’operaio-sapista Carlo Aschero fu debitamente pubblicizzata, oltre che dal tam-tam popolare, anche dalla stampa resistenziale di cui proprio le SAP curavano la diffusione in collaborazione con i Gruppi di Difesa della Donna e il Fronte della Gioventù.
Vale la pena di soffermarsi un attimo per una panoramica di questi fogli clandestini. Su tutti emergevano gli organi nazionali del PCI, vale a dire “L’Unità” edizione savonese e “La Nostra Lotta”, che, molto diffusi nelle fabbriche del capoluogo e tra i sapisti, costituirono per molti, già sordi alla propaganda di regime, una sorta di abbecedario dell’educazione politica destinato a segnarne il pensiero e lo stile di vita negli anni a venire. Indubbiamente positivo fu il ruolo rivestito dall’”Unità” nello spingere alla compattezza del fronte antifascista, sia pure per i noti motivi tattici del momento. Ai primi di aprile il quotidiano comunista pubblicò un appello della Federazione savonese del PCI che recitava: “Tutte le forze antifasciste e progressive devono essere unite nella lotta, al di sopra di ogni partito politico, di ogni fede religiosa. Ognuno senta che è giunta l’ora suprema in cui il popolo italiano è chiamato a combattere per il suo onore, per la sua dignità, per la liberazione e la libertà del paese, per riscattare l’Italia dall’ignominia in cui il fascismo la ha gettata” <8. Si noti l’ecumenismo paradossalmente simile a quello dei vani appelli fascisti all’unità patriottica contro l’invasione angloamericana. Ma la stampa resistenziale savonese contava altresì su un certo numero di testate di carattere più limitato e settoriale. Il lettore clandestino, sapista, partigiano o civile che fosse, poteva così trovarsi tra le mani la “Voce dei Giovani”, organo del FdG che usciva abbastanza regolarmente da un anno e raggiungeva le sei pagine ciclostilate, fitte di appelli alla ribellione; “Noi Donne”, scritto e pubblicato dalle resistenti dei GDD e specificamente dedicato al pubblico femminile (del quale si stimolavano a dovere gli istinti affettivi verso fratelli, figli, mariti e fidanzati alla macchia per spingerlo all’azione); “Savona Proletaria”, battagliero portabandiera della riottosa classe operaia locale; “Il Volontario della Libertà”, opera dei garibaldini imperiesi e savonesi e diffuso in tutti i distaccamenti, il cui primo numero risaliva a luglio; il già citato “Noi Venturi”, curato dal distaccamento “Revetria” con l’aiuto del FdG e delle donne di Calizzano, e che aveva ripreso le pubblicazioni dopo i rastrellamenti; “Pioggia e Fango”, il settimanale della Sesta Brigata “Nino Bixio”; “Il Solco”, periodico destinato ai contadini, senza il cui aiuto, non va dimenticato, i partigiani non avrebbero potuto resistere. Un foglio di maggiore spessore culturale era “Democrazia”, redatto e ciclostilato da professionisti ed intellettuali antifascisti del capoluogo; non mancavano inoltre apporti delle vicine formazioni genovesi e piemontesi, come “Il Partigiano”, organo dei resistenti della Sesta zona ligure (Genova), che raggiungeva talvolta i reparti dislocati a levante di Savona, o “Il Tricolore”, giornale della Sesta Divisione Garibaldi Langhe, diffuso in Val Bormida <9.
Da parte nazifascista non ci si poteva più fare illusioni sull’andamento della guerra. Sintomi di disgregazione dell’apparato repubblicano erano in qualche modo percettibili, anche se meno evidenti di quanto ci si potesse aspettare; tra i militari, alcuni ripresero le trattative con i partigiani, ed altri le intavolarono. Anche le diserzioni aumentavano, ma la maggioranza dei “marò” di Farina avrebbe tenuto duro fino alla fine. Particolare stupore desta ancor oggi la disciplina dei tedeschi, se si tiene conto che all’inizio di aprile i russi erano sull’Oder e gli americani a Francoforte sul Meno; mentre il loro Paese veniva conquistato dal nemico, essi si preparavano non già a rientrarvi per l’estrema difesa, bensì ad un metodico ripiegamento sulla linea Ticino-Po come previsto dal piano Kuenstlicher Nebel. Inoltre, tale ritirata non sarebbe dovuta avvenire che in caso di sfondamento delle linee da parte alleata: la Wehrmacht non aveva alcuna intenzione di lasciare il Nord Italia di propria iniziativa. Si poneva comunque il problema di “ripulire” le retrovie per consentire il ripiegamento, e le numerose e drastiche azioni militari volte a questo scopo spiegano le pesanti perdite subite dalle unità partigiane più esposte, in particolare gli autonomi della divisione “Fumagalli”, che minacciavano le vie di fuga verso il Piemonte. Tuttavia c’era ancora chi non si rassegnava a lasciare il Savonese: erano elementi locali (brigatisti neri, poliziotti, funzionari del PFR e della RSI) che speravano di resistere fino all’arrivo degli americani, dai quali potevano attendersi un trattamento umano. A spalleggiare questo sentimento strisciante si aggiunse lo stesso comandante della divisione “San Marco”, il generale Amilcare Farina, che in quei giorni propose alle massime autorità della Repubblica Sociale di creare una ridotta da difendere ad oltranza nella zona compresa entro la linea Arenzano-Tiglieto-Acqui Terme-Ceva-Albenga: guarda caso l’area difesa dalla “San Marco”. La proposta, certamente dettata dalla volontà di mettersi in mostra piuttosto che dal buonsenso militare, venne subito rigettata in favore di quella, appena un po’ meno peregrina, della “ridotta valtellinese” perorata da Pavolini e dal suo entourage detto “il Granducato di Toscana”. Dopotutto la Valtellina confinava con la neutrale Svizzera, dove molti fascisti previdenti avevano depositato le ricchezze accumulate e talora inviato le famiglie: a questi scopi la zona di Savona sembrò decisamente inadatta. Resta comunque il fatto che Farina mostrava di avere verso i suoi sottoposti una fiducia che alla fine, complice il clima da caccia all’uomo, non si dimostrò mal riposta.
Mentre si dipanavano queste vicende i partigiani savonesi, confortati dalle notizie che riportavano il progressivo crollo dei nazisti sui vari fronti di guerra, si preparavano all’assalto finale, ben consci del fatto che non sarebbe stata una passeggiata. I garibaldini, inquadrati dalla divisione “Gin Bevilacqua”, avevano ormai raggiunto un notevole livello di coesione tra le varie brigate (anche se la Seconda Brigata continuava a dipendere dal Comando di Zona). Pertanto l’esposizione degli eventi occorsi prima dell’insurrezione finale andrà in ordine cronologico anziché per reparto, con eventuali rimandi al coevo diario operativo della divisione “San Marco”.
Fin dai primi giorni del mese furono i distaccamenti della Quarta Brigata, presto intitolata a Carlo Cristoni (il mitragliere rimasto ucciso alle Rocche Gianche durante il rastrellamento di novembre), a mostrarsi decisamente attivi. Si iniziò il 1° aprile con la distruzione di postazioni nemiche presso Roviasca, cui seguì il giorno successivo uno scontro a Rialto in cui il “Rebagliati” inflisse una perdita ai repubblicani. Il 3 gli artificieri del distaccamento “Calcagno” danneggiarono gravemente un treno militare (ormai circolavano in pratica solo quelli) presso Zinola mentre altri partigiani causavano un’interruzione alla linea, già ripetutamente colpita, tra Sella e Santuario; il 4 si ebbero una serie di attacchi a postazioni “San Marco” a Quiliano e dintorni, il bombardamento a colpi di mortaio di una villa di Spotorno in cui aveva sede un comando tedesco e una violenta battaglia a Vado, iniziata durante il giorno e proseguita in modo frammentario per tutta la notte a seguito dell’arrivo di rinforzi nazifascisti <11. Fu in tale circostanza che venne catturato ed ucciso Carlo Aschero. Il 5 furono attaccati i distaccamenti “Bonaguro” (che ebbe il campo bombardato e dovette ritirarsi perdendo l’equipaggiamento) e “Rebagliati”: quest’ultimo, pur respingendo il nemico, perse il volontario “Otto” (Luigi Chiappe) che, ferito, venne trucidato sul posto. Nelle stesse ore il “Maccari” attaccava con successo una colonna di salmerie della “San Marco” presso Mallare, uccidendo due soldati <12.
Ma l’evento militare del giorno fu l’improvviso e violento rastrellamento che colpì la Quinta Brigata “Fratelli Figuccio”. Unità della Wehrmacht e della “San Marco” attaccarono da Calizzano verso il valico tra Bormida ed Osiglia mentre colonne della “Monte Rosa” e della GNR puntavano nella stessa direzione da Murialdo e dal Melogno. Raggiunto il cuore del dispositivo di brigata, gli attaccanti impegnarono i garibaldini in un aspro scontro che costrinse questi ultimi alla ritirata. Sei partigiani, tra cui l’austriaco “Toni” Reidelbach, restarono sul terreno dopo i combattimenti; due prigionieri, Ubaldo Pastorino “Baldo” e Alessandro Lavini “Ardito”, furono impiccati dalle Brigate Nere ad Acquafredda. Ci vollero tre giorni perché la situazione si normalizzasse e i caduti potessero essere seppelliti dopo la messa funebre nella chiesa di Osiglia, alla presenza del Comando Brigata <13. Il giorno dopo la grave ma temporanea sconfitta tattica subita dalla Quinta Brigata i nazifascisti attaccarono la Sesta Brigata, appostata in attesa dell’urto nemico. Dopo un iniziale sbandamento i partigiani riuscirono a ricostituire un fronte di fuoco e a respingere i rastrellatori impedendo loro di portare a fondo l’attacco <14. Nel caos di quelle ultime settimane di guerra avvenivano talora fatti di sangue che non si sa se ricondurre a precise strategie di controguerriglia o a crimini comuni. Un esempio è dato dall’assassinio di Giacomo Franchelli “Raf”, uomo di fiducia della Terza Brigata, probabilmente ignoto alle polizie nazifasciste, ucciso a Melogno da alcuni “marò” della Controbanda subito dopo aver incassato una modesta quantità di denaro per la vendita di una vacca <15.
Le ultime due settimane di guerra videro azioni su azioni ogni giorno, da una parte e dall’altra, nell’inesausto tentativo di assicurarsi le posizioni migliori in vista della resa dei conti finale. Tra i colpi compiuti dai garibaldini fino all’ordine di calare su Savona meritano un cenno la distruzione, compiuta nella notte tra il 14 e il 15 aprile dal distaccamento “Figuccio” della Seconda Brigata, di una polveriera contenente trenta tonnellate di esplosivo presso Giovo Ligure, e l’attentato ad un convoglio militare in una galleria ferroviaria tra Noli e Varigotti, il 20, che provocò seri danni alla linea <16. Ma se da un lato alcuni tra i repubblicani si perdevano d’animo e disertavano o consegnavano armi e bagagli ai partigiani prima di sparire, molti non mollavano; i rastrellamenti erano quotidiani, tanto feroci quanto inutili. Uno di questi, avvenuto il 20 aprile nella zona a monte di Quiliano, si rivelò uno degli episodi più terribili della guerra. Così lo descrisse il parroco di Roviasca don Albino Rebagliati in una lettera al vescovo monsignor Parodi: “(…) alle sei del mattino il paese fu preso a cannonate, i proiettili colpirono le abitazioni, poco dopo giunsero alcune centinaia di militari S. Marco e iniziò il rastrellamento casa per casa, furono commessi soprusi e infamie, verso le ore 10 risuonarono parecchie raffiche di mitraglia, avevano aperto il fuoco dalla vicina Montagna su un gruppo di giovinetti intenti al pascolo di bestiame nel nostro territorio. Nonostante fossero avvertiti che erano soltanto ragazzi le raffiche continuarono. Uno di questi fu colpito e trovato cadavere nelle prime ore del pomeriggio” <17. La vittima si chiamava Bruno Ferro e aveva dieci anni: era andato a cercare suo padre poco fuori dall’abitato. Un vecchio di Montagna, accortosi che i “marò” lo avevano preso di mira con la mitragliatrice, tentò di farli ragionare: “..ma quello è soltanto un ragazzo! Non lo vede?”, al che un militare gli rispose: “Oggi è un ragazzo, ma domani sarà un ribelle” (come se ci fosse stato un domani per la guerra civile!). Colpito al ventre, il bambino non ebbe il privilegio di morire subito, ma agonizzò a lungo: quando lo trovarono si era consumato le unghie graffiando il terreno nel vano tentativo di rialzarsi <18. Oltre a queste estemporanee nefandezze, per i fascisti anche il lavoro di intelligence non aveva mai fine, e l’UPI nel mese di aprile inviò propri agenti con documenti falsi nella zona di Sassello e Palo nel tentativo di infiltrare le locali unità partigiane <19. Ancora il 24 aprile, in pieno periodo insurrezionale, il distaccamento “Rebagliati” catturò e fucilò due SS e quattro militi della GNR che, in borghese, si erano fatti vivi nella sua zona operativa per individuarne la base <20.
[NOTE]

  1. M. Calvo, op. cit., p. 363.
  2. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 741.
  3. M. Calvo, op. cit., pp. 364 e 366.
  4. Le Brigate Garibaldi… cit., vol. III, pp. 552-553. Anche la qualifica di “commissario politico” era stata sostituita da quella, politicamente più neutra, di “commissario di guerra”: vedi G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 779.
  5. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 286.
  6. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 341.
  7. Cfr. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 272 e G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 352.
  8. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 352.
  9. Ibidem, ed. 1985, vol. II, p. 352.
  10. G. Pansa, Il gladio e l’alloro…cit., p. 228.
  11. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., pp. 272 – 273.
  12. Ibidem, p. 273.
  13. Cfr. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 353 e M. Calvo, op. cit., p. 100.
  14. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 353.
  15. E. De Vincenzi, O bella ciao…cit., pp. 134 – 135.
  16. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., pp. 273 – 274.
  17. N. De Marco – R. Aiolfi, op. cit., p. 151.
  18. Ibidem, p. 151.
  19. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 354.
  20. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 274.
    Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000