Le idee di Oscar Sinigaglia

L’acciaieria di Cornigliano a Genova nel 1952

[…] Oscar Sinigaglia, presidente dell’ILVA all’inizio degli anni Trenta, ma in seguito ostracizzato dal regime in quanto ebreo, aveva fama di capitano d’industria e tessitore di relazioni.
Dopo la caduta del fascismo, fu nominato presidente di Finsider, il ramo dell’IRI che comprendeva le aziende siderurgiche in mano pubblica, tra cui l’ILVA, la Terni, la Dalmine e la SIAC (Società Italiana Acciaierie di Cornigliano).
In un paper del 1948 intitolato The future of Italian iron and steel industry, Sinigaglia spiega la sua strategia.
Nella sua ottica, l’Italia del dopoguerra si presentava come un paese poco industrializzato e sovrappopolato. A causa delle caratteristiche geografiche e geologiche del paese, l’agricoltura
non era in grado di assorbire la manodopera in eccesso e soddisfare il fabbisogno alimentare della popolazione. […]

Il problema poteva essere parzialmente sanato tramite l’emigrazione, ma un ruolo determinante doveva essere giocato dall’industria. In particolare, una grande azienda pubblica siderurgica avrebbe potuto produrre acciaio di alta qualità a prezzi bassi per fornire semilavorati a numerosi settori e contribuire
allo sviluppo industriale del paese.
Per ottenere questo risultato l’Italia avrebbe dovuto fronteggiare la scarsità di materie prime, fattore che obbligava la penisola a dotarsi un’industria di proporzioni minori rispetto ai maggiori paesi europei. La liberalizzazione dei commerci europei presentava però la possibilità di colmare lo svantaggio
attraverso l’importazione del carbone dal bacino della Ruhr e del minerale dalle colonie francesi nel Nord dell’Africa. […]
I fattori abilitanti dell’acciaio italiano erano invece il basso consumo di carbone coke causato dall’alta qualità delle materie prime reperibili nelle cave fornitrici e il basso costo del lavoro. Ma i costi non sarebbero diventati competitivi se non fosse stata razionalizzata la struttura produttiva degli stabilimenti.
Prima della guerra, l’impresa pubblica contava due grandi stabilimenti a ciclo integrale in grado di produrre acciaio grazie all’altoforno, ubicati a Piombino e Bagnoli, mentre se ne andava completando
un terzo a Cornigliano. Nello stesso periodo, le aziende pubbliche producevano il 77% della ghisa, il 44% d’acciaio e il 38% di laminati a caldo della penisola. Gruppi come Falck, Fiat e Breda si annoveravano tra le maggiori aziende private capaci di produrre più di centomila tonnellate di acciaio grezzo all’anno, utilizzando una tecnologia mista che permetteva di produrre acciaio dalla ghisa attraverso i forni Martin-Siemens. […]

Il Piano di Ricostruzione e di razionalizzazione degli stabilimenti siderurgici della Finsider, più noto come piano Sinigaglia, si poneva l’obiettivo di creare un’efficiente siderurgia nazionale strutturando tre stabilimenti a ciclo integrale, di cui Cornigliano rappresentava l’investimento più importante.
Proprio lo stabilimento ligure fu reso compatibile con il minerale nordafricano il cui approvvigionamento fu facilitato dalla costituzione alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio,
mentre ottennero minore importanza le produzioni prive di altoforno.
Il piano suscitava malumori tra i grandi produttori privati, in particolare il gruppo Falck, i quali temevano di essere condizionati da un eccessivo intervento pubblico. Anche la politica si divise tra sostenitori e detrattori del piano, suddivisi a loro volta tra pessimisti che lo ritenevano troppo ambizioso e liberali che incoraggiavano l’intervento privato. […]
Il Piano di Ricostruzione e di razionalizzazione degli stabilimenti siderurgici della Finsider, più noto come piano Sinigaglia, si poneva l’obiettivo di creare un’efficiente siderurgia nazionale strutturando tre stabilimenti a ciclo integrale, di cui Cornigliano rappresentava l’investimento più importante.

A livello italiano, il supporto più importante venne dalla Fiat di Vittorio Valletta.
L’azienda torinese sosteneva la propria produzione meccanica attraverso impianti siderurgici e rappresentava il secondo maggior produttore privato d’acciaio nella penisola. Nel primo dopoguerra, la Fiat ordinò la costruzione di un impianto di laminazione, ma Valletta abbandonò l’idea. L’imprenditore cedette l’ordine a Cornigliano e si accordò con Finsider per acquistare ad un prezzo di favore almeno il 50% dei laminati prodotti dallo stabilimento genovese.
Dopo aver vinto le resistenze interne, il piano avrebbe dovuto essere approvato dall’ECA per ottenere i finanziamenti ERP.

In un primo momento Sinigaglia chiese all’ECA i finanziamenti in lire e alla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) quelli in dollari, ma dopo pochi mesi l’intera pratica fu rilevata dall’ECA. La BIRS ebbe comunque un ruolo importante perché espresse le critiche più competenti e costruttive.

Wayne Rembert, l’ingegnere che firmò il rapporto BIRS, riteneva corrette le argomentazioni di Sinigaglia ma temeva che il mercato italiano potesse assorbire solo una produzione pari a 2,5 milioni di tonnellate d’acciaio al contrario delle 4 proposte da Sinigaglia.
Rembert consigliava quindi di stralciare l’impianto di Cornigliano e potenziare quello di Piombino. Sinigaglia non condivideva questo approccio perché il basso livello produttivo avrebbe costretto
le aziende meccaniche italiane a rivolgersi ai privati ad ogni fase crescente della domanda di acciaio […]

Il rapporto della missione speciale romana dell’ECA fu invece una completa stroncatura, dato che riteneva impossibile produrre acciaio dagli stabilimenti a ciclo integrale italiani a costi contenuti.
Tale rapporto fu presto criticato dallo stesso Rembert, diventato consulente dell’ECA. Il successivo braccio di ferro tra Finsider e l’amministrazione dell’ERP verté sulla costruzione dello stabilimento di Cornigliano. Le trattative si sbloccarono solo dopo l’approvazione del piano Fiat, il quale prevedeva
l’approvvigionamento dei laminati proprio da Cornigliano.
Gli ottimi rapporti tra l’azienda torinese e il governo statunitense, scaturiti anche dall’entusiasmo mostrato da Valletta verso il modello imprenditoriale americano, consentirono alla Finsider di sfruttare gli aiuti ERP per costruire l’acciaieria di Cornigliano previo ridimensionamento degli impianti di Piombino e Bagnoli. Il valore della richiesta all’ERP fu di 12,5 milioni di dollari come finanziamenti loans [N.d.R. prestiti rivolti alle imprese elargiti a condizioni di favore per l’acquisto di macchinari negli Stati Uniti], a cui si aggiunsero altri cospicui finanziamenti dai fondi di contropartita nelle disponibilità del governo italiano. La produzione d’acciaio a ciclo integrale raggiunse le 3,5 tonnellate all’anno alla fine del 1952 e le 5,5 nel 1955 per un occupazione complessiva di 382.000 unità.

La lucida visione del mondo di Oscar Sinigaglia, incentrata sull’approvvigionamento di materie prime
grazie al commercio internazionale e sul ruolo di supporto dello stato verso le imprese, contribuì a far nascere la moderna siderurgia italiana. […]

Enrico Cerrini, Le origini della siderurgia italiana: il piano Sinigaglia in Pandora Rivista, 11 gennaio 2018

Dopo il disastro della seconda guerra mondiale le aziende IRI, smantellato l’apparato industriale militare dimostratosi globalmente carente, cercano di adattarsi immediatamente alla nuove condizioni del mercato.
L’epurazione dei dirigenti coinvolti nelle vicende del fascismo è parziale: paga per tutti Agostino Rocca (Dalmine, Ansaldo), mentre vengono recuperati Reis Romoli (Stet) e Oscar Sinigaglia (Finsider) che, benché filofascisti (come quasi tutti i dirigenti), erano stati emarginati durante il regime in quanto ebrei.
Taciti accordi
La destra (liberali e repubblicani) è per sciogliere l’IRI (in quanto eredità del fascismo e rappresenta una invasione dello stato nell’economia) mentre la sinistra e i cattolici sono per la conservazione. Quest’ultima impostazione prevale.
Un primo tacito accordo in funzione anticomunista dà ai cattolici, con Prof. Dell’Amore, il controllo delle Casse di risparmio e delle Banche Popolari a supporto della piccola industria, mentre all’establishment laico liberale (Cuccia-Mediobanca, Mattioli- Banca Commerciale) vengono affidate l’alta finanza, l’editoria, l’industria nazionale.
Un secondo tacito accordo per evitare la concorrenza tra industria pubblica e privata conferma le scelte strategiche compiute dall’IRI prima della guerra: l’industria pubblica, capital intensive (IRI: acciaio, telefonia, elettricità; Agip-Eni: petrolio, metano, fertilizzanti) si concentrerà nella produzione di manufatti primari per il mercato interno; mentre l’industria privata si specializzerà nella trasformazione dei manufatti di prima lavorazione in beni durevoli e consumi da destinare sia al mercato interno sia a quello internazionale. L’accordo è da intendersi “non in supplenza del capitalismo italiano, ma in una tacita suddivisione dei compiti”. Il centrismo di De Gasperi non interferisce nelle decisioni dei manager pubblici che aumentano sia il fatturato, sia l’occupazione, sia gli utili delle aziende amministrate.
Gli aiuti americani del piano Marshall sono utilizzati per modernizzare e rafforzare i settori siderurgico, elettrico, petrolchimico, meccanico. Inoltre in quegli anni si afferma la liberalizzazione degli scambi in Europa – premessa all’Unione Europea – che si tradurrà, nel 1957, in un accordo commerciale tra Italia, Francia, Germania e Benelux, con la costituzione del Mercato Comune Europeo. E’ la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali. Tra il 1950 ed il 1970 il tasso medio di crescita del PIL in Europa occidentale è del 5,5% e la produzione industriale triplicherà. L’Italia con il suo miracolo economico e con il basso costo della manodopera farà ancora meglio (circa 1% in più). Lo sviluppo si arresterà nel 1973 con la prima crisi petrolifera. L’IRI partecipa a pieno titolo allo sviluppo dell’economia italiana. Si verifica in quegli anni la rottura di quell’equilibrio dei bassi consumi che era stato una costante della nostra storia precedente e l’Italia si incammina verso la società dei consumi sul modello americano (diminuisce l’incidenza della spesa per alimentazione ed aumenta la spesa per la casa, salute, istruzione e trasporti).
La terza via democristiana
Con l’ascesa di Fanfani al vertice della DC, negli anni ’50, si afferma la terza via democristiana: spetta al potere politico il compito di indirizzo vincolante per le imprese pubbliche, intese come mezzi per una regia pubblica dell’economia, con politiche keynesiane e di indirizzo di mercato (riequilibri settoriali, riequilibrio nord-sud, gestione anticiclica). L’Art. 3 della legge istitutiva del Ministero delle Partecipazioni Statali (PPSS) creato nel 1956 obbliga le società di gestione ad operare secondo criteri di economicità, che tradotto significava “il massimo risultato con il minimo costo”. Il principio di economicità può dare luogo a varie interpretazioni ma delimita la buona gestione dell’Ente a valutazioni che tengono una posizione intermedia tra la figura privatistica “del buon padre di famiglia aperto al libero mercato”e quella pubblicistica ”in cui prevale l’interesse pubblico suggerito dalla politica”. L’IRI ottiene per legge un fondo di dotazione e gli utili netti di gestione sono ripartiti per il 65% al Tesoro dello Stato a rimborso del fondo di dotazione (sino al 1960 l’IRI non aveva versato nulla) il 20% di norma alla formazione di un fondo di riserva ordinario. Infine, la legge n.634 del 1957 fa obbligo di localizzare nell’Italia centro meridionale una quota non inferiore al 60% degli investimenti destinati alla creazione di nuovi impianti industriali e non inferiore al 40% degli investimenti totali.
Alcuni gruppi per evidenziare i risultati negativi derivanti dall’obbligo di investire al SUD costituiscono nuove società apposite per la gestione degli investimenti allo scopo di ottenere maggiori contribuzioni oltre al fondo di dotazione. Mediante questa procedura le contribuzioni ottenute divengono sovvenzioni (costante ripianamento delle perdite). Si codifica così la terza via democristiana: il condizionamento dei manager pubblici miranti a soddisfare il potere pubblico con la creazione di posti di lavoro (clientes), non di valore. Il deficit é scaricato sulla collettività, ma il politico ne beneficia con i voti. Così naufragano le velleità keynesiane riformatrici della classe politica. Questa condotta imprenditoriale porterà risultati disastrosi negli anni 1970 quando per la concorrenza internazionale e per l’impossibilità di ridurre la forza lavoro, i risultati negativi economici asserviranno i manager pubblici ai politici […]
Silvano Zanetti, Ascesa e declino dell’IRI: 1933 -2002 (parte II), e-Storia, rivista, Anno II – numero 3 – novembre 2012