Le stragi compiute dai tedeschi hanno inciso profondamente dentro le comunità italiane

[…] Innanzitutto, tra l’inizio della ritirata tedesca al Sud e la stabilizzazione del fronte lungo la Gustav, contiamo 1000 episodi e 2800 vittime. Se il contesto campano era già stato studiato, adesso il quadro è molto più completo. L’Italia meridionale è stabilmente in questi mesi uno spazio di guerra, nel quale i tedeschi puniscono gesti di disobbedienza o resistenza civile o piccole e grandi insurrezioni: lo vediamo a Matera, ad esempio, o ancora nel corso delle Quattro giornate di Napoli.
Troviamo uno stillicidio di violenze minute, legate a furti e saccheggi, che accompagnano il percorso a ritroso delle truppe, compiute da piccole pattuglie, dettate dalla frustrazione e meno dotate di carica ideologica, sganciate dalla lotta alla Resistenza (solo attorno alla Gustav i tedeschi si trovano a fare i conti con prime forme di guerriglia organizzata), ma che rivelano invece, subito, una certa “rabbia” dei soldati nei confronti degli italiani, popolo che con l’Armistizio ha tradito la Germania per la seconda volta (dopo la Prima guerra mondiale).
Inoltre, le uccisioni si intrecciano a incendi, distruzioni, rastrellamenti di forza lavoro, insomma pratiche repressive che rimandano a quella “politica della terra bruciata” che ha caratterizzato la “lunga ritirata” tedesca anche sul fronte orientale (Bartov 2003).
2.2 Controllare il territorio al Centro e al Nord, autunno-inverno 1943-1944
Negli stessi mesi, nell’Italia centrale e settentrionale il contesto è diverso. Non c’è il controllo diretto dell’esercito, il fronte è lontano. Nasce un sistema di occupazione che ha sue strutture, che mira allo sfruttamento economico della società italiana, la Rsi prende in carico quello che resta di uffici e burocrazie dello Stato fascista e tenta di perseguire i propri obiettivi. C’è insomma spazio e tempo anche per la politica, e si assiste ad una dialettica (tipica dei sistemi di occupazione nazisti) su come gestire il contesto italiano, tra i fautori di un’opzione militare (Göring, il comandante del fronte italiano Kesselring), che prediligono repressione e pugno di ferro, e ad esempio il plenipotenziario Rahn, che mira invece al “consenso minimo” e al dialogo con almeno alcuni settori del paese. Anche per questo, con l’eccezione delle stragi delle comunità ebraiche sul Lago Maggiore (Klinkhammer 1997), la violenza sui civili (in totale 300 episodi con 1000 vittime) colpisce in maniera puntiforme, legandosi ai rastrellamenti nelle aree in cui sono comparse le prime formazioni partigiane, o funzionando da strumento di controllo del territorio e gestione dell’ordine pubblico – anche se non va dimenticato che si avviano la deportazione razziale e quella politica.
2.3 Primavera 1944, operazioni antipartigiane
Una terza fase è quella della primavera, quando si segnala un altro picco repressivo, con 550 episodi e 3300 vittime (la media per episodio sale a 6). Lo scarto è dettato dallo sciopero generale (1-8 marzo) organizzato dagli antifascisti e dall’azione gappista a Roma, in via Rasella – che scatena la tremenda rappresaglia delle Ardeatine. Si tratta di un combinato disposto che determina una “cesura mentale” nei comandi tedeschi, rafforza la percezione della capacità politica e militare della resistenza, di un accresciuto sostegno agli oppositori, della incapacità della Rsi di veicolare consenso. Così, la richiamata dialettica interna al sistema di occupazione si scioglie, si avvia il processo di definizione del “sistema degli ordini”, la “politica delle rappresaglie” si fa più sistematica, inizia la prassi di prelevare detenuti politici dalle carceri e usarli come bacino di pescaggio (Plan de Lot a Torino, la Benedicta e il Turchino tra Liguria e Piemonte, via Ghega a Trieste, ecc.), vengono lanciati rastrellamenti nelle “zone partigiane”, dal Piemonte a tutto l’arco appenninico (dalla Liguria all’Umbria).
Si tratta di operazioni in spazi aperti, con grande dispiego di uomini e mezzi, concepite in maniera metodica seguendo i “manuali di lotta alle bande” (Politi 1991) in vigore nell’esercito tedesco, che palesano quindi una vera e propria dottrina della controguerriglia, che considera legittimo e utile punire anche la popolazione civile che abita le zone dove operano i “banditi”.
E troviamo una prima serie di episodi, compiuti in particolare dalla divisione Hermann Göring, nei quali i parametri repressivi si allargano, puntando (ad esempio a Vallucciole, nel comune di Stia) ad eliminare una intera comunità.
2.4 Estate di sangue
Tra la Liberazione di Roma (4 giugno) e la sosta delle operazioni militari sulla Gotica (inizio ottobre) lo stragismo tedesco raggiunge il suo apice, e si contano circa 2100 episodi e 10300 vittime. I tedeschi si ritirano, palmo a palmo, assestandosi di volta in volta su una serie continua di linee difensive, in modo da rallentare l’avanzata alleata e guadagnare tempo per completare i lavori di fortificazione della Linea Gotica. E in questa fascia dell’Italia centrale lo “spazio di guerra” viene progressivamente a coincidere con lo “spazio partigiano”: il comandante alleato Alexander e i vertici delle formazioni partigiane invitano i patrioti ad ostacolare in ogni modo la ritirata tedesca, le bande cercano di uscire dal localismo e di aggregarsi, c’è un effettivo per quanto non lineare salto di qualità logistico e militare, nascono le “Repubbliche partigiane” e le “zone libere”, dagli Appennini al Piemonte e alla Lombardia, dal Veneto alla Carnia. I tedeschi non possono permettersi un secondo fronte dietro le spalle. Da un lato, come già al Sud, le zone a ridosso del fronte o delle linee difensive vengono quasi “svuotate”, mediante bandi di sfollamento coatto dell’intera popolazione: si tolgono di mezzo i civili per “rendere nudi” i partigiani, poter rifornire senza ostacoli le truppe sul fronte, organizzare al meglio le ritirate, e catturare così centinaia di uomini da usare per le opere di fortificazione o da mandare a lavorare in Germania. Dall’altro, i grandi rastrellamenti (le operazioni Wallenstein sull’Appennino, la Paucke, la Hannover e altre ancora in Piemonte, Veneto, ecc.) si fanno ancora più duri, si traducono sempre più spesso in incendi e razzie generalizzate, cambiano di fatto l’ecosistema e quindi l’habitat della guerriglia, complicano – e talora spezzano – il rapporto tra partigiani e territorio. E l’esito è molto spesso la sconfitta della Resistenza, costretta dall’autunno a optare per la “pianurizzazione”, cioè ad abbandonare gli spazi partigiani in montagna e mimetizzarsi in nuovi contesti.
In questo quadro possiamo poi individuare almeno due cicli operativi – quello della divisione Hermann Göring nell’aretino tra fine giugno e inizio luglio e quello, più lungo, della Reichsführer-SS tra l’Arno, le Apuane e l’Appennino bolognese da fine luglio a inizio ottobre – che assomigliano molto, nel numero e nella radicalità degli episodi, alle grandi operazioni di pulizia etnica attuate sul Fronte orientale tra 1941 e 1942.
2.5 Ultimo inverno
Con l’ottobre il quadro pare mutare. Di lì sino all’aprile 1945 si contano oltre 1100 episodi e 4000 vittime, si assiste insomma a una parziale de-radicalizzazione, almeno sul piano numerico.
Il fronte si ferma, gli Alleati sono sbarcati nella Francia meridionale, il contesto italiano perde ulteriormente importanza nel quadro complessivo del conflitto, c’è una grande stanchezza, sia da parte tedesca ma anche partigiana. Si cercano adesso più spesso soluzioni anche politiche (per esempio le “tregue”), i vertici dell’esercito del Reich tornano a discutere, dopo il massacro di Monte Sole (29 settembre-5 ottobre, 780 vittime, il più grave compiuto in Italia), se questa ondata di violenza indiscriminata sia servita o meno a frenare la guerriglia, o se abbia piuttosto alienato ulteriormente le simpatie della popolazione.
Sicuramente lo stragismo si fa più mirato (anche se non in tutti i contesti locali), visto che tra le vittime questa è l’unica fase nella quale i partigiani inermi superano i civili, anche perché, come già anticipato è in questi mesi che i reparti fascisti (Gnr, formazioni autonome, Brigate Nere, ecc.), dopo aver affiancato i tedeschi in molti dei grandi rastrellamenti estivi, trovano più spazio per una “loro” controguerriglia, e la “guerra civile” oscura la “guerra ai civili” (Rovatti 2016).
2.6 La ritirata finale, aprile-maggio 1945
Lo stragismo tedesco si impenna nuovamente dopo il 20 aprile 1945, quando si registra una guerra ai civili “a guerra finita” che conta 500 episodi e 2300 vittime, uno dei dati più sorprendenti della ricerca. Le stragi colpiscono in Piemonte e soprattutto in Veneto e Friuli, dove si concentrano le truppe tedesche che in ritirata cercano di aprirsi la strada a nord verso il Brennero o piegando a nord-est.
Saonara-Villatora, Pedescala, Avasinis e molti altri paesi subiscono le violenze degli ultimi reparti, che sfogano sui civili la loro frustrazione per la sconfitta e che, spesso, sono una risposta all’attivismo delle formazioni partigiane, che si sentono ormai legittimate a trattare e forzare alla resa i soldati tedeschi.
3. Conclusioni
Le stragi hanno inciso profondamente dentro le comunità italiane. Nei 600 giorni di occupazione muoiono 40 persone al giorno, che scendono a 33 se contiamo i soli episodi tedeschi, siano essi “nazisti” o “nazifascisti”. Questa violenza si lega in sostanza alle esigenze militari e alla guerra contro i partigiani, ha delle fasi, c’è una dialettica, il sistema degli ordini è una cornice repressiva a geometria variabile che lascia autonomia sul campo, nella scelta dei metodi, a ufficiali e sottufficiali – non mancano ad esempio comandanti che nelle aree partigiane optano per il rastrellamento e la deportazione della popolazione maschile, rinunziando alle uccisioni sistematiche.
La ridefinizione del rapporto tra le vittime civili e quelle in un certo senso “qualificate” (partigiani inermi, antifascisti, ecc.), a “favore” di queste ultime, ha corretto su base nazionale quanto si conosceva ad esempio in relazione alla Campania o alla Toscana, e confermato la presenza di una politica repressiva che più spesso “sceglie” le proprie vittime e non colpisce in modo indiscriminato. Lo sostanzia anche il fatto che prevale un codice maschile della guerra – gli uccisi sono per quasi il 90% uomini (e in maggioranza adulti) – e che uccisioni singole e “piccole” stragi (con meno di 10 vittime) rappresentano assieme il 90% degli episodi totali (e il 44% delle vittime). Insomma, con l’eccezione delle azioni (e dei cicli operativi) di alcuni reparti, quelli più “ideologizzati”, cui ho già fatto cenno, che mostrano una tendenza a pratiche di stampo “eliminazionista” (Fulvetti 2009), il contesto italiano resta assai differente rispetto a ciò che accade durante l’invasione dell’Unione Sovietica, o anche nei Balcani, e non possiamo parlare di una “guerra di sterminio”.
Certo, abbiamo comunque a che fare con dei crimini di guerra, seppur commessi dalle truppe tedesche in una prospettiva che, dal loro punto di vista, è più militare che ideologica, e dentro la cornice di quella “giustizia in tempo di guerra” che considera lecito uccidere anche i civili, a fianco di partigiani, antifascisti, ecc., se questo è necessario a combattere la guerriglia e mettere in sicurezza le truppe.
Ed a questo disegno complessivo partecipano senza grosse difficoltà buona parte delle 40 divisioni (e dei 400mila soldati, nel momento di massimo impiego) che hanno combattuto in Italia. Non mancano naturalmente casi di stragi evitate da singoli ufficiali o graduati, o gesti di solidarietà e umanità – la figura del “tedesco buono” compare spesso nelle memorie dei sopravvissuti – ma in via generale l’esercito ha garantito una sostanziale adesione al sistema degli ordini e alla scelta dei comandi di “usare” le stragi di civili anche nel contesto italiano.
Da un lato, obbedienza agli ordini, pensiero gerarchico e conformismo rispetto a un gruppo (quale è un reparto di soldati) aiutano a spiegare perché anche “uomini comuni” possano rendersi autori di azioni criminali (Browning 1995). Dall’altro, non va dimenticato che i militari sono agenti della violenza, ma anche soggetti che la subiscono, sul piano fisico e psicologico: in Italia combattono in condizioni di grande difficoltà, sempre a ritroso, con la paura di una guerra persa, e con in mente le notizie sempre più tragiche che vengono dalla Germania bombardata, e quindi esercitare la violenza può essere uno strumento per riaffermare le proprie identità e soggettività, per rimarcare, prima di tutto a se stessi, che forza e prestigio del Reich non sono ancora tramontati (Geyer 1999).
Infine, l’esercito tedesco combatte comunque in Italia un capitolo, certo finale, di una guerra pensata per il “Nuovo Ordine Europeo”, per cui pesano anche qui l’indottrinamento (Bartov 2003), le chiavi culturali di lettura del conflitto (l’elitismo etnico dei tedeschi rispetto agli altri popoli), e un generale “imbarbarimento”, ancora più accentuato per coloro che hanno già alle spalle precedenti esperienze belliche in altri contesti.
Tutti fattori, questi, che hanno pesato nella psicologia e nella esperienza quotidiana di uomini in divisa che, in larga misura, erano giovani (e giovanissimi, visto che le classi di leva arrivavano addirittura al 1927) cresciuti negli anni trenta dentro i meccanismi di mobilitazione collettiva e fascinazione ideologica, simbolica e sentimentale tipici della “nuova politica” della Germania nazista.
Gianluca Fulvetti, Dalla “guerra ai civili” all’Atlante delle stragi. Una recente ricerca nazionale, Minority Reports. Cultural Disability Studies, 4, 2017