L’eccidio della Benedicta non ottenne lo scopo di piegare lo spirito popolare e di fermare il movimento partigiano

Nella prima settimana d’aprile del ’44, ebbero luogo la già citata strage di Cumiana, quella di Pian del Lot, in provincia di Torino, ed il massacro della Benedicta del 6 aprile. Quest’ultima, in particolare, avvenne nei pressi del comune di Bosio, tra la provincia di Alessandria e quella di Genova. Qui alcuni reparti dell’armata di von Zangen parteciparono ad un ciclo di rastrellamenti contro le bande partigiane liguri, dislocate sui rilievi montuosi a cavallo tra le due regioni. Nei pressi delle rovine dell’abbazia della Benedicta, negli stessi giorni in cui il comando di Kesselring emanava le disposizioni sul trattamento delle bande di ribelli, i reparti germanici in collaborazione con la GNR di Alessandria e di Genova attaccarono due sedi di comandi partigiani. I nazifascisti fecero prima saltare in aria il quartier generale della Brigata Garibaldi “Liguria”, poi, dopo aver incontrato una disperata resistenza, riuscirono a catturare più di 70 partigiani della stessa brigata e delle formazioni autonome alessandrine, arroccate nei pressi dell’abbazia. Il risultato finale consistette in 91 vittime, tra le quali, 75 furono fucilate dopo la fine dello scontro da plotoni formati dai militi della GNR e da una compagnia di bersaglieri.
Jacopo Calussi, Fascismo Repubblicano e Violenza. Le federazioni provinciali del PFR e la strategia di repressione dell’antifascismo (1943-1945), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2018

“Dalle belle città date al nemico fuggimmo via su per le aride montagne cercando libertà tra rupe e rupe contro la schiavitù del suol tradito”
Con queste parole si apre “I ribelli della montagna”, uno dei pochi canti originali partigiani, composto collettivamente dai soldati del 5° distaccamento della III Brigata Garibaldi “Liguria”; l’autore del testo, il comandante Emilio Casalini, “Cini”, fu ucciso nel corso degli eventi noti come Strage della Benedicta, avvenuta tra il 6 aprile e l’11 aprile 1944.
Fin dai primi giorni dopo l’8 settembre 1943, la zona compresa tra la Valle Stura e la Valle Scrivia (tra la Liguria e la provincia di Alessandria) – e in particolare le vallate intorno al monte Tobbio – furono meta di soldati sbandati e poi di renitenti alla leva fascista.
Nella primavera ‘44 vi operavano due formazioni partigiane, la III Brigata Garibaldi “Liguria” e la brigata Autonoma “Alessandria”, male armate e ancora impegnate in una delicata fase di addestramento. Anche il territorio, montagnoso e relativamente brullo, non era ottimale per le esigenze della guerriglia, salvo per la presenza di casolari che potevano offrire rifugio, tra cui, appunto, quello detto Benedicta, originariamente un monastero, dove si era insediata l’intendenza della Brigata “Liguria”.
[…] Per quanto forti complessivamente di circa mille uomini, le due formazioni non costituivano per i tedeschi un pericolo immediato, poiché i loro effettivi, scarsamente armati (la maggior parte dell’armamento era costituito da fucili da caccia a pallettoni e cimeli familiari risalenti al Risorgimento), erano suddivisi in molti distaccamenti, dispersi su un territorio vasto e assai accessibile; ma avrebbero potuto diventare pericolose, per l’importanza delle posizioni occupate, nel caso di un paventato sbarco degli Alleati sulle coste liguri.
Il comando della Wehrmacht, infatti, riteneva probabile uno sbarco angloamericano nel Mediterraneo nordoccidentale, nella Francia meridionale oppure sulle coste ligure o toscana settentrionale e, in questa eventualità, i luoghi minacciati sarebbero stati quelli dotati di una buona attrezzatura portuale: Genova o Livorno. L’annientamento delle formazioni partigiane in quella zona non era necessario tanto per la loro pericolosità, quanto per l’esigenza di non avere ostacoli nell’eventualità di dover transitare con la massima celerità attraverso quelle montagne, sulle strade che collegavano il litorale con l’entroterra.
Perciò, tra il 3 e 6 aprile ’44, reparti tedeschi appoggiati da quattro compagnie della Guardia Nazionale Repubblicana italiane (provenienti da Alessandria e Genova) e da un reparto del reggimento di Granatieri di stanza a Bolzaneto accerchiarono la zona del Tobbio. Si calcola che abbiano partecipato non meno di cinquemila uomini, appoggiati da autoblindo, carri armati, pezzi di artiglieria e un aereo “Cicogna”.
Il 6 aprile iniziarono gli scontri armati e, mentre la Brigata Liguria ruppe l’assedio dividendo i propri uomini in piccoli gruppi, la Brigata Autonoma Alessandria cercò una disperata difesa alla Benedicta e a Pian degli Eremiti.
Il monastero della Benedicta, in cui si erano rifugiati gli uomini disarmati o meno esperti, fu minato e fatto esplodere. Circa centocinquanta i partigiani fucilati, sepolti in fosse comuni, e oltre duecento i prigionieri; sbandati e dispersi tutti gli altri, contro quattro morti e ventiquattro feriti lamentati dai rastrellatori.
Dei morti partigiani, trenta morirono in combattimento; gli altri, spogliati di ogni effetto personale, furono fucilati in diverse località dai Granatieri della RSI., in ottemperanza al bando emanato dal maresciallo Graziani che prevedeva per i renitenti alla leva la pena di morte da eseguire “se possibile, nel luogo stesso di cattura del disertore”; alla Benedicta, in particolare, furono fucilati settantacinque partigiani, perlopiù giovani sui 19-20 anni. Dei prigionieri, diciassette furono trasferiti nelle carceri di Genova e poi fucilati al passo del Turchino il 19 maggio successivo, come rappresaglia per un attentato contro alcuni soldati tedeschi; centonovantuno uomini vennero inviati pochi giorni dopo al campo di concentramento di Mauthausen e solo una trentina sopravvisse. […]
Silvia Boverini, La strage nazifascista della Benedicta, Me-Dia-Re, 7 aprile 2019

[…] Il 6 aprile 1944 le truppe italo-tedesche fanno saltare la cascina della Benedicta dove i partigiani della 3a Brigata Liguria avevano insediato il loro comando, catturando molti uomini e incendiano numerose cascine. Il giorno dopo (è il Venerdì Santo) i prigionieri vengono fucilati da un plotone di esecuzione composto da bersaglieri italiani comandati da un ufficiale tedesco.
I cadaveri vengono sepolti in una fossa comune insieme a quelli di alcuni giovani catturati e trucidati nei boschi lì vicino, altri, fatti prigionieri, saranno poi fucilati il 19 maggio al Passo del Turchino, altri ancora saranno catturati e avviati alla deportazione, quasi tutti a Mauthausen. Alcuni di loro riusciranno fortunosamente a fuggire, ma in tantissimi perderanno la vita.
Il 16 aprile il quotidiano Il Secolo XIX, pubblicherà in seconda pagina il seguente comunicato: “Operazioni contro banditi in provincia di Genova: duecento morti e quattrocento prigionieri. Da qualche tempo gruppi di banditi si aggiravano nel territorio montano ai confini delle province di Alessandria e di Genova. Per eliminarli è stata ordinata un’operazione alla quale, insieme a reparti dell’esercito e della polizia germanica, hanno partecipato reparti di un reggimento bersaglieri e quattro compagnie della G.N.R. di Alessandria e di Genova. Oltre duecento banditi sono stati uccisi e circa quattrocento catturati. Tra i morti sono alcuni capibanda”.
Il rastrellamento della Benedicta, che nelle intenzioni dei nazisti e dei fascisti avrebbe dovuto fare terra bruciata intorno alla Resistenza, non riuscirà a piegare lo spirito popolare. Anzi, proprio dalle ceneri della Benedicta il movimento partigiano riuscirà a riprendere vigore.
Racconterà una testimone, Martina Scarsi (il racconto è disponibile sul sito dell’Istituto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Alessandria Carlo Gilardenghi):
” Nel corso di quelle giornate drammatiche noi fummo praticamente isolate. Chiuse in casa, nella impossibilità di potere fare qualcosa. Il nemico spadroneggiava, crudele, arrogante, sicuro e metodico nell’organizzare, nel terrorizzare e nel colpire. Sentivamo il rumore continuo dei camion tedeschi. Li potevamo vedere circolare e salire verso la Colma, verso i laghi della Lavagnina. (…) Capivamo che qualcosa di terribile stava accadendo senza ancora avere un’idea precisa di quello che poi sarebbe accaduto effettivamente. E questo era un po’ lo stato d’animo di tutti. In quella Pasqua furono ben pochi coloro i quali si sentirono di approntare il tavolo come era usanza e tradizione. Le famiglie erano spezzate, quasi tutte avevano uno dei loro cari o un amico in pericolo, legate alle sorti dei combattenti della Benedicta, o forse già colpito mortalmente dai fascisti.
(…) Partimmo e andammo avanti senza più fermarci sino a giungere finalmente al luogo dell’eccidio. Incontrammo per primo un prete domenicano, vestito di bianco, si aggirava attorno a quelle fosse e sembrava pregasse. Poi subito dopo incontrammo una donna con addosso un grembiulino bianco e in mano una bottiglia d’alcool e del cotone. Non lontano un uomo stava seduto su di una pietra e lui stesso, immobile, pareva una pietra. E poi vicino alla donna c’era un bel ragazzo di 12-13 anni con occhi azzurri e capelli ricci e nerissimi. Era in piedi e non diceva nulla. Questo fu il nostro primo incontro. Erano i genitori e il fratello minore di due partigiani fucilati che stavano cercando tra i tanti cadaveri della Benedicta. Eravamo soli, in tutto sei persone vive in mezzo a tanti morti trucidati dalla barbarie nazista.
Mi avvicinai ad un albero. Era da tempo un albero secco e vidi in terra tanto sangue e poi dei pezzi di cranio. Uno spettacolo spaventoso. Cominciammo ad alzare una di quelle sette pietre e a scoprire il volto di quei sette caduti. Il primo fu per noi sconosciuto. Il secondo anche. Finalmente con la terza pietra scoprimmo che si trattava del povero Romeo. Lo dissotterrammo. Aveva il volto intatto, pareva sereno. Spostammo poi le altre e trovammo anche Aldo Canepa. Continuammo a piangere in silenzio. Andammo al grande cascinale “La Benedicta”. Trovammo in terra tutto attorno, carte da gioco, spazzolini, dentifrici, ogni cosa e tanta legna bruciata. La “Benedicta” era stata fatta saltare con la dinamite. Recuperammo tutti i pezzi di legna possibile e con essi andammo a coprire il volto di quei ragazzi. Ritornammo poi vicino ai genitori di quel ragazzo. Aiutammo quella povera donna. Il padre non era più in grado di fare qualcosa. Era impietrito. Stava solo, e guardava nel vuoto. Anche il ragazzo continuava a rimanere immobile e ci guardava. (…) Che cosa fare ora? I fascisti erano baldanzosi ed erano convinti che quella loro lezione sarebbe servita a debellare una buona volta per sempre il movimento partigiano. Pensavano certamente di averci piegati e sottomessi. Molti tra noi in quella tragica primavera del 1944 speravamo nell’avanzata degli alleati e in una liberazione non lontana dell’Italia. Ma le cose poi non andarono proprio così. Ma cosa fare subito? Non prevalse né la rassegnazione, né la paura. Davanti all’arroganza ed alla ferocia del fascismo, non disarmammo. (…) Da lì ripartì con slancio la riscossa e ben presto i tedeschi e i fascisti a loro asserviti si accorsero di avere fatto con i partigiani della Benedicta conti sbagliati. Era la strada giusta per stare vicini ai martiri della Benedicta, rispettarne la volontà e continuare quel glorioso cammino che il nazismo aveva creduto di interrompere per sempre nell’aprile 1944″.
Similmente diceva il 28 giugno 1960 nelle calde giornate di Genova il futuro presidente della Repubblica, il partigiano Sandro Pertini: “Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere ‘no’ al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa”. […]
Ilaria Romeo, I martiri della Benedicta, Collettiva, 6 aprile 2021

La mia memoria di sessant’anni fa è legata a un funerale.
Sono grato a mio padre per avermici accompagnato.
Le quindici bare erano allineate lungo i due lati della piazza del Mercato.
Ciascuna di esse era attorniata dai genitori e dai parenti, che hanno potuto accogliere le salme dei giovani solo un anno dopo che erano stati trucidati dai tedeschi alla Benedicta nella notte del 7 aprile 1944.
Nell’inverno 1943-1944 intorno al Monte Tobbio, nell’Appennino ligure-piemontese, si erano rifugiati i primi nuclei di giovani renitenti alla leva e partigiani, che rifiutavano di continuare la guerra e iniziavano il loro percorso di opposizione al fascismo.
Nella primavera 1944 i giovani affluiti in montagna erano ormai diverse centinaia e facevano capo alla Benedicta, un cascinale annesso ad un convento benedettino medioevale.
Anche se molti di questi giovani erano male armati e privi di istruzione militare, la loro presenza rappresentava un pericolo potenziale per tedeschi e fascisti, che decisero di organizzare un rastrellamento, allo scopo di sgominare le bande e di creare il terrore nella popolazione civile.
Il 7 aprile 1944 ingenti forze nazifasciste circondarono la Benedicta e le altre cascine dove erano dislocati i partigiani e colpirono duramente i giovani, impossibilitati a difendersi per mancanza di un adeguato armamento e di esperienza militare.
Il rastrellamento proseguì per tutto il giorno e nella notte successiva.
Molti partigiani, conoscendo il territorio, riuscirono a filtrare tra le maglie del rastrellamento, ma per centinaia di loro compagni non ci fu scampo.
In diverse fasi i nazifascisti fucilarono 147 partigiani, altri caddero in combattimento, altri, fatti prigionieri, furono poi fucilati il 19 maggio al passo del Turchino.
Altri 400 partigiani furono catturati e deportati in Germania, dove circa la metà lasciarono la vita nei campi di concentramento.
Come si può facilmente immaginare, la notizia di questo eccidio si diffuse rapidamente e suscitò una grandissima impressione nella popolazione di tutta la zona e nei paesi da cui provenivano i giovani partigiani.
Anche in una cascina isolata tra le colline, lontano dai paesi, come quella dove io ero nato e abitavo, le notizie della guerra si sapevano e si vivevano con grande trepidazione, anche perché vi erano coinvolti alcuni familiari.
E ricordo bene, pur essendo un bambino, come la milizia fascista faceva sentire tutta la sua pressione sulle famiglie dei renitenti alla leva. La guardia comunale veniva da noi ogni due o tre giorni a cercare mio zio Talino. E un giorno arrivarono in gruppo i militi armati di tutto punto, sottoposero mio nonno ad un pesante interrogatorio, salirono sul fienile e lo passarono col tridente, pensando che mio zio fosse nascosto sotto il fieno…
L’eccidio della Benedicta non ottenne lo scopo di piegare lo spirito popolare e di fermare il movimento partigiano. Che, anzi, dopo una seria riflessione sugli errori compiuti, riuscì a riprendere vigore e a riorganizzare nuove formazioni di resistenza, che intensificarono le azioni contro i nazifascisti, soprattutto in Val Borbera, dove alle “Strette di Pertuso” un centinaio di partigiani tenne testa per tre giorni, dal 25 al 27 agosto ’44, a 3.000 militari tedeschi e fascisti.
Pochi giorni dopo l’eccidio, alcuni parenti delle vittime salirono alla Benedicta per recuperare le salme dei loro congiunti. Trovarono più di novanta corpi sotterrati in due fosse comuni… Li ricomposero nelle bare che avevano portato sui carri, nascoste sotto il fieno, e scavarono una fossa per ciascuno di loro.
Sono rimasti sepolti alla Benedicta fino alla fine della guerra.
«Finita la guerra, un gruppo di parenti e volontari risalì alla Benedicta per restituire i corpi alle famiglie e ai cimiteri dei paesi. Li hanno portati a valle nelle nuove casse su delle slitte trainate dai buoi. Poi con le bare sui camion sono arrivati a Serravalle, alla Porta Genova, dove aspettava la gente, tantissima gente… una fiumana, che ha accompagnato in corteo i Martiri della Benedicta alla piazza del Mercato, dove sono stati vegliati tutta la notte…».
Con la fine della guerra la gente ha tirato un sospiro di sollievo.
Ma in molte case le sofferenze non terminarono…
Molte famiglie si ricomponevano per il ritorno a casa dei congiunti dalla guerra. Di alcuni di loro non si avevano notizie da molto tempo.
Ma di altri non si ebbero mai più notizie… Molti, come i ragazzi della
Benedicta, ritornarono in una bara…
Ora riposano insieme nella cappella del cimitero costruita per loro.
Ormai non si ricordano più come “i ribelli”, e neanche come “partigiani”, ma al mio paese vengono chiamati “Martiri”, perché sono «Morti nel tramonto della tirannia e Risorti nell’alba della libertà».
Al centro del mio paese c’è una lapide che ammonisce «Non dimenticate i Martiri della Benedica».
Piero Montecucco, Mai dimenticare l’eccidio della Benedicta, Patria Indipendente, 30 giugno 2005

Nel 1999 sorse il Comitato per il recupero e la valorizzazione della Benedicta, su iniziativa del Consiglio Regionale del Piemonte, della Provincia di Alessandria, dell’Associazione Nazionale Partigiani d’ Italia di Alessandria, del Comune di Bosio, dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Alessandria, della Città di Ovada, della Comunità Montana Alta Val Lemme e Alto Ovadese, del Parco delle Capanne di Marcarolo e dell’Associazione Amici della Colma.
La successiva adesione da parte di moltissimi Comuni, Enti locali, Associazioni partigiane ed Istituti culturali, ha portato, nel novembre 2003, alla trasformazione del suddetto Comitato in “Associazione Memoria della Benedicta”, la quale si propone la gestione, la valorizzazione e la promozione della zona monumentale, e destina la stessa ad attività culturali, attraverso un centro di documentazione ed un museo.
Negli ultimi anni, infatti, la capillare informazione mediante la circolare telematica “Benedicta News”, le pubblicazioni e i filmati, nonché l’ apporto del laboratorio didattico “Benedicta scuola di Pace”, realizzato dall’ ISRAL (Istituto Storico della Resistenza in provincia di Alessandria), hanno giocato un ruolo importante per l’incremento delle visite presso i luoghi dell’eccidio.
L’Associazione, consapevole del difficile clima del luogo che rende tali iniziative non sempre operabili, si è quindi impegnata a dar vita ad una rete di centri e musei sul territorio delle due province di Alessandria e Genova.
Questo percorso della memoria è possibile anche attraverso la riscoperta e la segnalazione dei sentieri che collegavano tra loro i vari distaccamenti partigiani, ed essi con la Benedicta; ripercorrendo poi gli itinerari per i quali, trainate dalle lese dei contadini, le salme dei Martiri vennero portate a valle per ricevere degna sepoltura.
L’obiettivo è quello di diffondere i valori per i quali questi giovani, pieni di speranze e desiderio di libertà, lottarono e sacrificarono la propria vita.
Alice Laura Muratore, Comunicare la strage – Nuove e vecchie memorie sulla Benedicta, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, Anno accademico 2009/2010