Leone Ginzburg, figura cruciale dell’antifascismo e della cultura italiana fra le due guerre

Leone e Natalia Ginzburg

L’acribia filologica in Leone Ginzburg fu precoce. Già a 13 anni scriveva al Corriere della sera per segnalare alcune imprecisioni contenute in un libro scritto da un esperto di cose militari, un generale che gli rispose credendo il suo interlocutore un illustre studioso.
Perfettamente bilingue, Leone, nato a Odessa in Crimea nel 1909, ma presto trasferitosi con la famiglia in Italia, frequentò a Torino il Liceo d’Azeglio, dove insegnavano due intellettuali antifascisti come Umberto Cosmo, noto dantista, in seguito fra i docenti universitari di Gramsci, e Augusto Monti. Tra i compagni di scuola: Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Carlo Dionisotti. La scuola fu il primo banco di prova per Leone che, secondo le diverse testimonianze, prima di tutte quella di Bobbio, sorprendeva tutti, docenti compresi, per la profondità e la vastità della sua cultura. Non si era ancora diplomato, infatti, quando nel 1927 iniziò a collaborare con la casa editrice Slavia di Torino fondata da Alfredo Polledro, traduttore dal russo. E per Slavia, a 19 anni, il giovane Ginzburg licenziò nel 1928 la traduzione di Anna Karenina, romanzo sul quale aveva scritto il suo primo articolo per il «Baretti», la rivista di Piero Gobetti. Dopo essersi iscritto a Giurisprudenza passò a Lettere, laureandosi su Maupassant. Nel frattempo aveva collaborato assiduamente anche alle riviste «La Cultura», diretta da Ferdinando Neri, «La Nuova Italia» di Codignola e «Pegaso» di Ugo Ojetti.
Un incontro decisivo di questi anni è quello con Benedetto Croce, forse all’origine del cambio di facoltà. Croce era in quegli anni, come ricorderà Bobbio nell’Introduzione agli scritti dell’amico, un autore fondamentale dal punto di vista metodologico prima che teorico: era tutto ciò che si opponeva al pressapochismo nel campo della cultura a favore della serietà degli studi. Ma Croce era anche il promotore del Manifesto degli intellettuali antifascisti, in contrapposizione a quello di Gentile. Un articolo che uscì anonimo, ma è attribuito a Croce e Ginzburg, dal titolo «Note caratteristiche del Prof. Ercole», dileggiava le doti in virtù delle quali costui era diventato ministro dell’Educazione Nazionale. Tra le “fatiche di Ercole”, gli autori ricordavano la delazione ai danni dei docenti restii a piegarsi alla volontà del Partito fascista: «Nel suo nuovo posto il prof. Ercole ha ripreso il suo antico metodo, dimostratosi già tanto sicuro: non solo s’è prestato a soddisfare tutti i desideri del segretario del PNF, Starace, ma ha cercato di prevenirli e suscitarli, per apparirgli subito in veste di benemerito e zelante esecutore di ordini.» (Scritti. p. 25).
La maturazione politica di Ginzburg avvenne a Parigi. Nella capitale francese ebbe modo, infatti, di incontrare personalità che si battevano contro il fascismo, dallo stesso Croce, in quei giorni a Parigi, a fuorusciti come Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Gaetano Salvemini, Carlo Levi, Lionello Venturi. Al suo ritorno a Torino, quindi, s’impegnò in prima persona, costituendo, come scriverà l’OVRA che lo sorvegliava, «l’anima del movimento rivoluzionario di “Giustizia e Libertà”», attorno a cui si muovevano Pavese, Carlo Levi, Barbara Allason, Massimo Mila, e poi Vittorio Foa, Mario Levi (fratello di Natalia, futura moglie di Leone), Carlo Muscetta e Tommaso Fiore […]
Alessandro La Monica, Leone Ginzburg editore in Quaderni di letteratura, Patria Letteratura, 3 dicembre 2012

[…] Figura cruciale dell’antifascismo e della cultura italiana fra le due guerre, uno di quei personaggi che hanno avuto una vita breve e intensa, come Piero Gobetti (che non conobbe) e Giaime Pintor, che invece incontrò nei primi anni Quaranta, Leone Ginzburg nacque a Odessa il 4 aprile 1909 e morì nell’infermeria del carcere di Regina Coeli in seguito alle percosse subite durante un interrogatorio da parte dei nazisti il 5 febbraio 1944. Arrivato a Torino a quindici anni, superò gli esami di ammissione al liceo Massimo D’Azeglio e continuò il brillante percorso di studi con ragazzi che si chiamavano Norberto Bobbio, compagno di classe e coetaneo, Cesare Pavese, di un anno più grande che lo avrebbe considerato come il suo migliore amico, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, cui avrebbe ispirato la fondazione nel 1933 della casa editrice. Un gruppo in cui svolgeva la funzione di maestro e guida spirituale Augusto Monti.
«Augusto Monti – dice Carlo Ginzburg – commentava il “Breviario di estetica” di Benedetto Croce, che per quei ragazzi fu la via verso l’antifascismo». Come ha notato Norberto Bobbio nella introduzione agli “Scritti” di Leone Ginzburg editi nel 1964, Einaudi, «l’adesione a Croce ci faceva sentire estranei alle convenzioni». La precocità intellettuale, politica e persino morale è sottolineata in questo saggio di Bobbio: «La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e più solida, ma anche di una consapevolezza del proprio compito». Non ancora finito il liceo, Leone si mise a tradurre “Taras Bul’ba” di Nikolaj Gogol, poi avviò una versione di Anna Karenina e scrisse un’introduzione a “Guerra e pace” di Tolstoj. Si laureò con una tesi su Maupassant e andò maturando le convinzioni politiche sulla scorta delle discussioni avute con Carlo e Nello Rosselli a Parigi. Ma prima del 1931, anno in cui ottenne la cittadinanza italiana, non si espose pubblicamente. «Fu Vittorio – ricorda Carlo – a segnalarmi l’importanza di questo punto. Mio padre era finito in Italia un po’ per caso ma non tanto, perché suo padre naturale era ebreo di origini italiane e la famiglia aveva passato alcuni periodi di vacanza a Viareggio. Poi però aveva scelto di esserlo e questa decisione fu fondamentale nella costruzione della personalità intellettuale e del percorso politico. Lui, al pari di Vittorio Foa, che ne parla esplicitamente nelle lettere dal carcere, aveva un legame fortissimo con il Risorgimento. Quando era al confino a Pizzoli, il paese vicino all’Aquila dove era stato mandato dopo lo scoppio della guerra, lavorava a una raccolta di scritti sul Risorgimento, di cui è rimasto il saggio “La tradizione del Risorgimento”, che esprime quanto fosse forte il legame di una generazione con quel periodo della storia d’Italia. Di fronte all’ignomia delle leggi razziali, Vittorio Foa e mio padre ebbero reazioni simili: le considerarono un tradimento della tradizione risorgimentale».
L’attenzione al Risorgimento andava di pari passo con gli studi sull’Ottocento: «Curò un’edizione dei “Canti” di Leopardi per la collana Scrittori d’Italia di Laterza fondata da Croce e stava lavorando a un libro su Manzoni che è andato perduto quando lasciò Pizzoli dopo l’8 settembre 1943 per andare a Roma a dirigere l’edizione clandestina dell’”Italia libera”, giornale del Partito d’Azione.
L’Ottocento italiano veniva messo a confronto con quello russo: così nacquero i paralleli Puskin-Manzoni e il saggio “Garibaldi e Herzen”. La scelta di essere italiano venne rinnovata quando dopo le leggi razziali gli arrivò dagli Stati Uniti, credo attraverso Max Ascoli e la fondazione Rockefeller, l’offerta di espatriare. Lui rifiutò, il suo posto era qui».
Di quel periodo a Pizzoli Carlo Ginzburg conserva una foto appesa di fianco a una delle librerie della grande casa bolognese che lo ritrae bambino di due anni, con una matita in mano, in braccio al padre. Sul retro c’è un messaggio di Leone al filologo Santorre Debenedetti, che in quel periodo era il direttore occulto, per via dei divieti razziali, della collana di classici Einaudi. A Pizzoli Leone era stato raggiunto dalla moglie Natalia, la scrittrice da cui ebbe tre figli.
«Leone, la sua passione vera era la politica – scrive Natalia in “Lessico famigliare” -. Tuttavia aveva, oltre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia». Quali di queste vocazioni era la più forte? «Il letterato e lo storico erano molto intrecciati. Resta il problema di capire se la vocazione politica fosse imposta dalle circostanze, dall’esigenza morale di contrapporsi al fascismo o se fosse qualcosa di originario. Per rispondere a questa domanda di nuovo mi viene in mente Vittorio Foa e quel che mi disse una volta in cui mi parlava di Piero Gobetti. Però tuo padre era un filologo, mi disse. Questa vocazione alla filologia non emerse subito, ma negli anni, grazie al decisivo incontro con Santorre Debenedetti, che dopo Croce, con cui mio padre ebbe un rapporto intenso e diretto, divenne il suo secondo maestro. Forse “il maestro”. La vocazione di filologo in qualche modo definisce un atteggiamento che si può trovare sia negli studi sulla letteratura sia in quelli di storia, e paradossalmente, anche nell’atteggiamento di fronte alla politica. Mi spiego: la filologia non nel senso tecnico ma nel senso stabilito da Giovan Battista Vico (qui tra i libri di mio padre conservo un’edizione della “Scienza nuova”) definisce una sorta di abito mentale di chi ascolta e interpreta la voce degli altri, del passato ma anche dei contemporanei, senza prevaricare. A me pare di aver riscontrato questo atteggiamento anche nello scritto politico del 1932, “Viatico ai nuovi fascisti”, di cui ha parlato Carlo Dionisotti negli “Scritti sul fascismo e sulla Resistenza” a cura di Giorgio Panizza. A proposito delle iscrizioni forzate al Partito nazionale fascista dei dipendenti pubblici mio padre scriveva: “Le settecentomila persone che sentono come un marchio questa iscrizione forzata al Partito nazionale fascista hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e alla disperazione”. È un discorso duro e generoso: io non faccio le vostre scelte ma non condanno moralisticamente le vostre, a patto che esse non diventino un alibi per una vita di compromessi». Nel 1934 dopo aver lanciato quell’appello Leone Ginzburg avrebbe lasciato il posto di libero docente di letteratura russa per il rifiuto a prestare fedeltà al fascismo e nel novembre di quell’anno sarebbe stato arrestato e mandato in carcere a Cvitavecchia per due anni.
Il rispetto filologico e la leadership di Leone Ginzburg si vedono soprattutto nella collaborazione alla neonata Einaudi: «Gli studi di Luisa Mangoni lo hanno dimostrato inequivocabilmente e lo stesso Giulio Einaudi lo riconobbe più volte: mio padre uscito di prigione diede un’impronta decisiva alla casa editrice che si sarebbe mantenuta per decenni con la crezione della Biblioteca di cultura storica, le collane Classici stranieri tradotti, i saggi, Classici italiani. Le “Rime” di Dante annotate da Gianfranco Contini erano una via di mezzo tra i classici Laterza privi di note critiche e quelle edizioni in cui i commenti erano preminenti rispetto al testo. La vocazione filologica lo portò a criticare le straordinarie traduzioni che Giaime Pintor aveva fatto delle poesie di Rainer Maria Rilke».
Giaime sarebbe morto il 1° dicembre 1943 nel tentativo di attraversare sul Volurno le linee naziste e a unirsi alla Resistenza Romana. Leone era stato catturato il 20 novembre nella tipografia dell’”Italia libera”. Diede il falso nome di Leonida Gianturco ma fu riconosciuto perché già schedato e consegnato ai nazisti. «Sandro Pertini – ricorda Carlo – ha scritto nella sua autobiografia “Sei condanne e due evasioni” che mio padre dopo l’interrogatorio, con il volto tumefatto, gli disse: non dobbiamo odiare i tedeschi. Perché questa questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La prima si riferisce alle sue convinzioni politiche per la costruzione di un’Europa federalista, in cui la Germania avrebbe naturalmente avuto un posto importante. La seconda è contenuta nell’ultima lettera scritta a mia madre e raccolta nel volume “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”. In essa mio padre invitata al distacco e scriveva: “Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali di fronte al pericolo personale». Leone Ginzburg volle mantenere fino all’ultimo il distacco del filologo.
Dino Messina, Carlo Ginzburg: mio padre Leone filologo della libertà, Corriere della Sera, 8 maggio 2009

Il pensiero di Carlo Rosselli e degli altri dirigenti di Giustizia e Libertà (d’ora in poi GL) non si presentò mai come un semplice tentativo di sintesi di ideologie o esperienze preesistenti. Il suo fascino risiedeva invece nella volontà di contribuire con l’azione e con il pensiero a un rinnovamento delle culture politiche preesistenti. Certo, senza la nascita e l’arrivo al potere del movimento fascista, GL non sarebbe mai nata, ma la sua natura di forza antifascista non impedì ai suoi esponenti di cercare risposte e strade autonome rispetto alle esigenze imposte dalla lotta contro il regime mussoliniano 1.
Per Rosselli e i suoi compagni il problema della libertà si traduceva in una ricerca di autonomia, individuale e collettiva, da costruire attraverso un lungo lavoro di pedagogia culturale e politica. Compito particolarmente impegnativo in un paese come l’Italia in cui « l’educazione dell’uomo, la formazione della cellula morale base – l’individuo – è ancora in gran parte da fare. Difetta nei più, per miseria, indifferenza, secolare rinuncia, il senso geloso e profondo dell’autonomia e della responsabilità» 2.
Gli interessi personali, familiari, della propria fazione cittadina, avevano da molti secoli prevalso sulla necessità di servire e difendere in maniera disinteressata il bene pubblico: ” La nostra storia non offre sinora nessuna vera rivoluzione di popolo. In tutte le epoche della sua storia il popolo italiano ha sprigionato nel suo seno punte altissime, solitarie, inaccessibili ; minoranze eroiche, ferrei caratteri, ma non ha mai saputo realizzare se stesso”. (Ibid., p. 113)
[…] Vi era quindi in Ginzburg una totale consapevolezza del prezzo da pagare all’assunzione di responsabilità collettive. Colpisce la sua modernità : si fece psicanalizzare prima di decidere se diventare o non il capo di Giustizia e Libertà a Torino. Siamo all’inizio degli anni Trenta e la maggior parte dei suoi compagni, al contrario, vivevano e concepivano la loro attività antifascista come una continuazione della loro vita di tutti i giorni, una cospirazione alla luce del sole secondo la definizione di Giovanni De Luna 4.
Luisa Mangoni ha osservato come per Ginzburg, l’antifascismo fosse il risultato di un itinerario non scontato. Era diventato volontariamente cittadino di una nazione – l’Italia – di cui analizzava criticamente la storia e in cui la scelta di opporsi al regime mussoliniano si presentava come il risultato di un processo civile e intellettuale. Ginzburg, dunque, rivendicava il diritto di non aderire alla forma assunta, in quel momento, dallo stato italiano. Non si trattava di questioni astratte : il 21 dicembre 1932 aveva ottenuto la libera docenza all’Università, ma l’8 gennaio 1934 aveva rifiutato di prestare giuramento e aveva perso la possibilità d’insegnare. Egli si sentiva membro e cittadino dello Stato italiano e dunque il suo rifiuto del giuramento non era solo una scelta morale ma la denuncia, in definitiva, del progressivo trasformarsi della cittadinanza e della nazionalità in un pericoloso nazionalismo 5.
Ginzburg apparteneva ad una generazione che non era stata attiva politicamente negli anni Venti, quando il fascismo era arrivato al potere. In lui non si ritrovava nessuna nostalgia verso un mondo che nella sua sconfitta aveva dimostrato la sua fragilità. Nei suoi scritti pubblicati sulla stampa clandestina antifascista, soprattutto nei « Quaderni di Giustizia e Libertà », si occupò piuttosto del futuro, delle basi politiche, economiche e sociali su cui ricostruire la società italiana una volta sconfitto il fascismo. I giellisti avevano a lungo riflettuto sulle conseguenze della crisi economica del 1929 e si erano convinti della necessità di un intervento dello Stato nell’economia, ma questo intervento doveva essere accompagnato dalla formazione di una società civile capace di un rapporto maturo con il potere politico.
[…] “Il problema in Italia é particolarmente arduo: problema di rivoluzione in un paese senza eredità politiche […] noi dobbiamo creare insieme forma e contenuto; e ci troviamo dinanzi a un vuoto attuale, e staccati con un salto da ogni passato : né d’altra parte per la nostra natura é possibile sperar nulla di bene da esperimenti astratti, da rivoluzioni dal di fuori […] La nostra vecchia tendenza anarchica ha oggi trovato una sua soluzione, nella tirannide ; e, non potendo adattarcisi, corre verso lo scioglimento più tragico, il suicidio. Contro il fascismo dobbiamo suscitare lo spirito libertario, e nel medesimo tempo negarlo dandogli una forma : dobbiamo creare uno Stato con i mezzi dell’anarchia. 7
Si tratta di una delle pagine più interessanti della cultura antifascista : l’assenza di una tradizione democratica aveva favorito la vittoria del fascismo ; per sconfiggerlo bisognava risuscitare uno spirito libertario, che, però, doveva essere guidato. Nell’Italia post-fascista, per crescere e rafforzarsi, la società civile avrebbe avuto bisogno di essere diretta da forze politiche capaci di costruire istituzioni democratiche stabili e forti selezionando grazie alla lotta politica le migliori energie del paese. La società civile lasciata a se stessa rischiava, invece, di essere travolta da vecchi vizi nazionali : il familismo e il prevalere dell’interesse privato.
La repressione fascista, però, impedì lo sviluppo di questo dibattito. Nella seconda metà degli anni Trenta, la funzione di stimolo di GL diminuì e anche i suoi dirigenti furono costretti a sperare più nei contraccolpi delle crisi internazionali che nella loro capacità di azione. Pochi mesi prima di essere assassinato in Normandia, Carlo Rosselli pubblicò sulla rivista « Clarté » un articolo dal titolo Où en est le fascisme italien ? 8. Anche in un momento di difficoltà il futuro della lotta dipendeva dalla qualità dell’analisi del rapporto tra il fascismo e la società italiana. Una società, secondo Rosselli, che in quindici anni era rimasta sostanzialmente immobile : « Tout est changé dans la forme et dans les rapports extérieurs, mais bien peu de chose l’est au fond, dans les rapports réels. Le fascisme est une révolution permanente qui sert à couvrir un effort suprême de restauration » (ibid., p. 5). Una restaurazione fondata sul principio del ciascuno al suo posto, sulla negazione della lotta di classe, sulla riduzione della politica a pura tecnica amministrativa. Tutte le istituzioni, anche la monarchia e l’esercito, erano piegate alle esigenze di una dittatura che lungi dal risolvere i problemi « au contraire les aggraves [sic] » (p. 6). Un tale degrado non poteva non avere conseguenze nefaste anche sul carattere delle nuove generazioni, le quali apparivano agli occhi di Rosselli come scettiche e indifferenti di fronte a una propaganda ormai poco credibile e probabilmente disposte a « audaces revolutionnaires » (p. 7) il giorno in cui il regime fosse crollato.
[…] Lasciato il confino di Pizzoli il 5 agosto 1943, Ginzburg aveva scelto Roma, sotto il nome di Leonida Gianturco, come suo campo d’azione intellettuale e politico: alla testa della sede della casa editrice Einaudi e dirigente di primo piano della resistenza all’occupazione tedesca. Il fascismo non era caduto a causa di una rivoluzione del popolo italiano o grazie all’azione della minoranze attive antifasciste e in Ginzburg era viva la consapevolezza di come tale esito fosse destinato a lasciare tracce profonde. Non bisognava illudersi sulle qualità del popolo italiano, anche se l’analisi gobettiana sull’« autobiografia della nazione » doveva essere riletta e interpretata alla luce delle nuove esigenze. Se la si fosse accettata come un elemento indissolubile del carattere degli italiani, allora si correva il rischio – come ha osservato Pier Giorgio Zunino – di aderire a una nuova visione deterministica della storia di tipo morale: ” Una rigida predeterminazione diversa nella sostanza, ma che per essere etica, per cosi dire, non poteva essere meno esiziale di quella economicistica dei marxisti (anzi, lo era forse anche di più perché le « cose » avrebbero pur sempre potuto essere modificate, essendo invece per nulla o assai poco mutabile l’« anima » della nazione, e ciò proprio per la sua impalpabile natura).10
[…] La Resistenza si presentò agli occhi degli azionisti, soprattutto quelli del Nord dell’Italia, come l’occasione per gettare le basi della rivoluzione democratica. Occorreva, nel corso della lotta armata, ottenere conquiste reali e trasformazioni strutturali mentre si disponeva della forza necessaria. Le conquiste dovevano essere realizzate nel corso stesso del conflitto per mettere le altre forze politiche di fronte ai fatti compiuti. Si trattava, ha osservato Carlo Ginzburg, di un’impostazione giacobina 11, il cui documento rivelatore è la Memoria scritta da Giorgio Diena e Vittorio Foa in Val Pellice il 17 settembre 1943 12: “L’iniziativa deve essere rivoluzionaria e svolgersi in sede precostituente : essa deve creare e garantire le condizioni di fatto propizie allo svolgimento delle libertà democratiche. L’iniziativa rivoluzionaria non è incompatibile col principio democratico, anzi consegue direttamente da questo. La libertà si sviluppa da certi dati di situazione : non vi è « a priori » alcuna ragione di preferire i dati di fatto attualmente esistenti a qualsiasi altro dato realizzabile : anzi quando il dato di situazione è – come è attualmente – un elemento negativo per lo svolgimento della libertà, bisogna mutarlo colla forza per creare condizioni favorevoli alla libertà”. 13 […]
1 A più voci su Carlo Rosselli. Scritti dall’esilio, « Il Ponte », XLVII, 6, giugno, 1991, pp. 120-150.
2 C. Rosselli, Socialismo liberale, Torino, Einaudi, 1997, p. 111.
3 Il brano è tratto da un ricordo di Carlo Levi scritto da Aldo Garosci, presente nelle carte di Garosci depositate nell’archivio dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Torino. Citato in G. De Luna, Carlo Levi e Aldo Garosci : i percorsi dell’amicizia, in Gli anni di Parigi Carlo Levi e i fuoriusciti 1926-1933, a cura di M. C. Maiocchi, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Torino, 2003, p. 18.
4 G. De Luna, Una cospirazione alla luce del sole, in Carlo Levi. Un’esperienza culturale e politica degli anni Trenta, a cura di E. Mongiano e I. Massabò-Ricci, Torino, Archivio di Stato di Torino, s.d. (ma 1985), pp. 71-86.
5 L. Mangoni, Prefazione, in L. Ginzburg, Scritti, a cura di D. Zucaro, Torino, Einaudi, 2000, pp. xvi-xviii.
6 Il concetto di autonomia nel programma di GL, firmato M.S., in « Quaderni di Giustizia e Libertà », 4, settembre 1932. Ora in L. Ginzburg, Scritti, cit., p. 4.
7 Ibid., pp. 6-7.
8 C. Rosselli, Où en est le fascisme italien ?, « Clarté. Revue mensuelle d’information et de documentation politique », 8, 16 mars 1937, pp. 127-129. Articolo pubblicato sul sito della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nella collezione Il testo ritrovato, pp. 5-10. Da questo testo trarrò le mie citazioni.
9 Le citazioni sono tratte da due lettere scritte da Leone Ginzburg a Benedetto Croce il 1 e il 24 agosto 1943. Le ho lette in P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 473.
10 Ibid., p. 464.
11 L’osservazione di Carlo Ginzburg si ritrova nel dialogo su Partito d’Azione, moderatismo, radicalismo con Vittorio Foa, Giovanni de Luna e Pietro Marcenaro contenuto in V. Foa, Scelte di vita, Torino, Einaudi, 2010, pp. 129-188. La frase di Ginzburg è a p. 137.
12 Ora pubblicata in V. Foa, Lavori in corso, Torino, Einaudi, 1999, pp. 3-16.
13 Ibid., p. 8.
Leonardo Casalino, Ipotecare il futuro. Le basi democratiche della Repubblica nel pensiero e nell’azione di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione, Laboratoire Italien, novembre 2012

Natalia cara,
ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e così è anche oggi. Bisogna continuare a sperare che finiremo col rivederci, e tante emozioni si comporranno e si smorzeranno nel ricordo, formando di sé un tutto diventato sopportabile e coerente. Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale. La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone. A ogni modo, avere i bambini significherà per te avere una grande riserva di forza a tua disposizione. Rivedere facce amiche, in questi giorni, mi ha grandemente eccitato in principio, come puoi immaginare. Adesso l’esistenza si viene di nuovo normalizzando, in attesa che muti più radicalmente. Ho ripensato, in questi ultimi tempi, alla nostra vita comune. L’unico nostro nemico (ho concluso) era la mia paura. Le volte che io, per qualche ragione, ero assalito dalla paura, concentravo talmente tutte le mie facoltà a vincerla e non venir meno al mio dovere, che non rimaneva nessun’altra forma di vitalità in me. Non è così? Se e quando ci ritroveremo, io sarò liberato dalla paura, e neppure queste zone opache esisteranno più nella nostra vita comune. Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero, Natalia?
Sii coraggiosa.
Leone
L’ultima lettera di Leone Ginzburg alla moglie Natalia, Fondazione Feltrinelli, 24 aprile 2020

[…] Leone nasce a Odessa il 4 aprile del 1909, da Fëdor Nikolaevič e da Vera Griliches, in una famiglia ebrea laica, ultimo di tre fratelli. Il padre è un industriale; la madre, di Pietroburgo, è attiva in opere sociali e nel campo educativo. Dal punto di vista politico, la famiglia del Ginzburg presenta un ampio arco di posizioni diverse: il padre è un liberale, vicino ai «cadetti», mentre la madre simpatizza per un partito minore della sinistra, quello dei «nazional-socialisti»; il fratello Nicola è socialdemocratico e la sorella Marussa è invece vicina ai socialisti rivoluzionari. Di seguito allo scoppio della Rivoluzione, tutta la famiglia si trasferisce a Torino, dove Ginzburg sostiene la licenza ginnasiale al liceo Massimo d’Azeglio e, per un periodo, a Berlino. In classe spicca per la sua grande cultura e per una certa intransigenza etica di sapore kantiano che lo caratterizzano per tutta la vita. Iscrittosi a giurisprudenza, ha come compagni di corso Bobbio, Foa e Galante Garrone. Conosce anche Pavese, che è iscritto a lettere, tramite lui incontra Garosci e Argan. In questi anni si astiene da ogni attività di opposizione fino all’ottenimento della cittadinanza italiana (1931), da lui chiesta al raggiungimento della maggiore età: la premessa, quasi il prerequisito necessario, della sua azione politica. Il senso di appartenenza alla comunità nazionale italiana si accompagna sempre (fin dagli scritti infantili) a una decisa polemica contro ogni nazionalismo ed a un profondo e radicato europeismo. Nel 1928, conosciuto Croce, decide di trasferirsi a lettere.
Nel 1932, una borsa di studio lo porta a soggiornare nell’aprile-maggio a Parigi. Qui rivede Garosci (che aveva abbandonato l’Italia), frequenta l’ambiente dei fuorusciti, conosce Rosselli e Salvemini. Decide così di entrare nel movimento antifascista clandestino. Quando rientra in Italia, le fila dell’antifascismo torinese sono state da poco scompaginate dalle dure condanne comminate dal tribunale speciale e Ginzburg decide di ricostituirle, avviando una serie di contatti e dando vita, nel corso dell’estate, a un nuovo gruppo torinese di Giustizia e libertà. Ne fanno parte, oltre al Monti, Carlo Levi, Barbara Allason, Mila, Mussa-Ivaldi, il professor Michele Giua e il figlio Renzo. Più tardi si aggiungono anche Foa, Mario Levi, Sion Segre, e vengono presi contatti con Muscetta e Fiore. Fra la fine del 1932 e l’inizio del 1933 Ginzburg cerca di organizzare la fuga di Ernesto Rossi dal carcere di Piacenza, ma il tentativo rimane senza esito, anche a causa del trasferimento del prigioniero ad altro carcere. Intanto, ottiene la libera docenza in letteratura russa, ma quando il regime stabilisce di chiedere il giuramento di fedeltà anche ai liberi docenti, non esita a scegliere la rinuncia definitiva a un’attività accademica che pur gli si prospetta brillante.
Nel 1934 il suo nucleo di GL subisce una sessantina di arresti e lui stesso è incarcerato. Uscito di prigione il 13 marzo 1936, è ormai costretto a condurre una vita da vigilato speciale. Due anni dopo, in seguito alle leggi razziali, viene anche privato della cittadinanza, e condotto allo stato di apolide. Il 12 febbraio del ’38 sposa Natalia, figlia del professor Giuseppe Levi e si impegna nell’attività della casa editrice Einaudi. Nel giugno 1940, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia, viene inviato, come «internato civile di guerra», nel paese di Pizzoli (L’Aquila) come «antifascista pericoloso» ed è sottoposto a un regime di sorvegliato speciale.
Il 26 luglio 1943, caduto il regime, Ginzburg parte per Roma e riprende contatto con il gruppo dirigente del Partito d’azione, incontrando fra gli altri Rossi-Doria, Muscetta, Carandini, La Malfa e Venturi. Con Venturi parte per Torino per riallacciarvi altri contatti, e il 27 agosto è a Milano, dove in casa Rollier, partecipa alla fondazione del Movimento Federalista Europeo. Pochi giorni dopo, fra il 5 e il 7 settembre, partecipa a Firenze a un congresso clandestino del partito, cui sono presenti anche Parri, Lussu, Lombardi, Bauer, Agnoletti e molti degli azionisti che aveva già conosciuto. La stima e la fiducia nei suoi confronti sono tali che, dopo l’8 settembre, gli viene affidata la direzione del giornale clandestino “L’Italia libera”, pubblicato a Roma. Nella capitale, dove ha anche ricevuto l’incarico di dirigere la sede romana della Einaudi, vive sotto il falso nome di Leonida Gianturco.
Il 20 novembre del ’43 è arrestato nella redazione dell’Italia libera e condotto a Regina Coeli. Ai primi di dicembre viene scoperta la sua vera identità ed è trasferito al braccio controllato dai tedeschi. È torturato e colpito a sangue durante gli interrogatori. Sandro Pertini, detenuto insieme con lui, ricorda di averlo incontrato, sanguinante, dopo l’ultimo interrogatorio; e che Ginzburg è riuscito a dirgli «Guai a noi se domani […] nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. Dobbiamo distinguere tra popolo e nazisti».
Il 4 febbraio si sente molto male; la sera, scrive un’ultima lettera alla moglie Natalia e chiama un infermiere, che però si rifiuta di far venire il medico. La mattina del 5 febbraio viene trovato morto, e solo allora la moglie potrà vederlo […]
Giulio Saputo, Un ricordo di Ginzburg a 75 anni dalla morte, EUROBULL, 14 febbraio 2019

La nostra storia la facciamo iniziare a Torino, a metà marzo 1934, con il fermo di Sion Segre e Mario Levi al confine italo-svizzero di Ponte Tresa; Levi, figlio del professore di Anatomia Giuseppe e fratello di Natalia, riesce a mettersi in salvo fortunosamente lanciandosi nelle acque del Ticino. Seguono nelle ore successive arresti di un gruppo di intellettuali cittadini, quasi tutti trattenuti in prigione per qualche giorno e poi rilasciati con provvedimenti come l’ammonizione o il confino, spesso condonato. Sono giovani di buona famiglia. E hanno relazioni di un certo peso. Del resto l’Ovra – la polizia segreta creata da Benito Mussolini – ha in programma un’azione più generale, e dunque preferisce lasciarli fare. Ci sarà in effetti una seconda retata, decisiva per sgominare completamente la “banda” di Giustizia e Libertà, nel maggio del ’35. Fra coloro che non vengono rilasciati nel ’34 v’è Leone Ginzburg, oltre allo stesso Segre. Due anni dopo altri pesci grossi cadranno nella rete: Carlo Levi, Vittorio Foa, Franco Antonicelli, Augusto Monti, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio… Anche in questo caso alcuni verranno rimessi in libertà poco dopo (Einaudi e Bobbio), altri subiranno la pena del confino di polizia (Pavese, Antonicelli, Carlo Levi).
Negli interrogatori di polizia non tutti si comportano dignitosamente, posti sotto pressione da abili investigatori. Fra gli inquisiti molti usano la tattica di confessare il confessabile senza mettere nei guai amici e compagni, e tuttavia non sempre vi riescono; in generale, stando alla successiva memorialistica, viene praticato una sorta di nicodemismo: apparente o anche dichiarata fedeltà al regime, nel foro esteriore, e sentimenti antifascisti preservati nel foro interno, confidati sommessamente ad amici e congiunti. Quasi tutti, prima o poi, compiono gesti che vorrebbero essere riparatori: la classica “lettera al Duce”, l’iscrizione al Fascio, messaggi encomiastici a gerarchi.
Alcuni vivranno il carcere e il confino in modo sereno (come Levi), altri drammaticamente (come Pavese), altri useranno il carcere per studiare (Monti, Mila…) o continuare a cospirare contro il fascismo (Foa).
Su tutti si staglia la figura gigantesca di Leone Ginzburg, prima privato della libera docenza, per aver rifiutato di sottoscrivere la nuova formula quella imposta ai professori ufficiali nel ’31 (che richiedeva fedeltà al regime) ed estesa due anni dopo ai titolari di libera docenza, che Ginzburg ha ottenuto meritoriamente subito dopo la laurea. Dopodiché quel russo che aveva scelto l’Italia, sarà rinchiuso prima nel carcere di Civitavecchia, poi subirà le discriminazioni razziali in quanto ebreo, dal ’38 e, ormai privato della cittadinanza, verrà spedito al confino tra le montagne d’Abruzzo, dall’entrata in guerra dell’Italia, nel ’40. Vi rimarrà fino al 25 luglio del ’43, quando, precipitatosi a Roma per inserirsi nelle file della resistenza in seno al Partito d’Azione, esito naturale del gruppo di GL, verrà arrestato, torturato e morirà a Regina Coeli nel febbraio ’44.
[…] Tutto si può capire, e non è compito dello storico assolvere o condannare, ma nulla deve nascondere, tutto contestualizzare, cercare di comprendere, ma non rinunciando a un giudizio etico prima ancora che politico. Così fece appunto Leone Ginzburg, nel 1933, con un articolo Viatico ai nuovi fascisti pubblicato a Parigi nei “Quaderni di Giustizia e Libertà”, nello stesso anno in cui dava vita alla casa editrice dello Struzzo, con gli amici Giulio Einaudi e Cesare Pavese, e aveva già chiara la sua scelta antifascista. Traendo spunto dall’offensiva del regime, il quale stava imponendo in determinati settori l’iscrizione al Partito, a coloro che stavano per prendere la tessera del PNF Ginzburg con un atteggiamento non di ripulsa, ma di pietà, metteva in luce che costoro erano innanzi tutto degli infelici, dei vinti, che «si vergognano di questa irreggimentazione forzata», e dunque non è il caso di «avvilirli di più». Tutti, tranne «certi intellettuali» di cui egli sottolineava «il cinismo». «Per molti giovani l’iscrizione, avvenuta o prossima, comunque praticamente inevitabile, è stato il primo compromesso con la propria coscienza, e sarà il primo rimorso». Pur rivendicando la propria diversità, egli continuava: «noi, che abbiamo scelto vie più difficili, e cerchiamo di lavorare per tutti», dichiarava il diritto, che è anche un dovere, di «manifestare l’immensa pietà di loro» e, soprattutto, di «soccorrerli».
Fra quei giovani che, per debolezza o per necessità, avevano dato la loro adesione al fascismo, Ginzburg pensava di sicuro ad alcuni amici: Bobbio, già tesserato del PNF, fin dal 1928, o Pavese, che pencolava e finì per cadere nella trappola fascista, iscrivendosi al Fasci solo sperando gli servisse a non avere “grane”, ma che però più tardi, nei primi anni Quaranta affidava alle pagine di un diario segreto, parole di imbarazzante ammirazione per i tedeschi, mentre copriva di ingiurie i suoi connazionali italiani.
Incertezze e oscillazioni, sottovalutazione dei gesti «formali» (una tessera, un giuramento, la partecipazione alle “adunate in camicia nera” con tanto di distintivo del Partito posto in evidenza, una lettera di encomio ai potenti o una supplica al «Capo»…), caratterizzano del resto molti dei giovani che gravitavano intorno a Leone, i quali, ben diversamente da lui, privilegiarono il proprio genio di letterati, artisti, la carriera di studiosi, o intesero il mestiere intellettuale nei termini di un sapere tecnico che tutt’al più andava difeso dalle intrusioni della politica, nella convinzione che a salvarsi l’anima bastasse andare per la propria strada, magari fingendo che il fascismo non esistesse; oppure ritenendo di riuscire a «fare» i fascisti senza essere fascisti. Ma – avvertiva Ginzburg – «La maschera, quando è portata a lungo, non vuol più staccarsi dal volto».
[…] A nessuno si può chiedere di essere Gramsci o Ginzburg. Ma questo non può diventare un alibi per un silenzio complice o vile. C’è sempre modo di salvare almeno la dignità, sacrificando magari la genialità, secondo un aureo motto di Piero Gobetti. Purtroppo si tratta di un insegnamento che anche nella blasonata Torino intellettuale fra le due guerre, abbiamo visto troppo spesso negletto, e che oggi, chi osasse proporlo verrebbe addirittura deriso. La storia non ci insegna dunque nulla? O forse, per citare un’ultima volta Antonio Gramsci, essa ci insegna ma «non ha scolari».
Angelo d’Orsi (Università degli Studi di Torino), Il fascino discreto del potere. Gli intellettuali a Torino (e oltre), tra le due guerre, in Italia: design, politica e democrazia nel XX secolo – Atti del IV Convegno AIS/Design Associazione Italiana Storici del Design – Torino, Salone d’Onore Castello del Valentino 28-29 giugno 2019 – (a cura di) Elena Dellapiana (Politecnico di Torino), Luciana Gunetti (Politecnico di Milano), Dario Scodeller (Università degli Studi di Ferrara) – Politecnico di Torino, 2020