L’idea di eugenetica del resto non era nuova in Europa

Il Reich è stato dunque un regime fautore di una politica che ha espresso «il bilancio dei valori vivi di un popolo», assumendo «la cura del corpo biologico della nazione» <138. Era il medico, nel Reich, il primo responsabile dell’economia dei valori umani. Si fa strada, con questo concetto, l’idea di eugenetica, che del resto non era nuova in Europa, essendo già stata proposta nel XVIII secolo. Il nazismo è stato un regime che è riuscito a conciliare la politica con lo sviluppo delle scienze biologiche e sociali dell’epoca, assolutizzando la cura della vita e fondendola con preoccupazioni di ordine propriamente eugenetico. La cura della vita, volendo fortificare la salute dell’insieme del popolo ed eliminare tutte le nefaste influenze che possono ledere a essa, coincide con la lotta contro il nemico. La più rigorosa formulazione biopolitica si trova espressa proprio in un opuscolo scritto da Otmar von Verschuer e pregno di ideologia nazionalsocialista, in cui il dato biologico è immediatamente politico. Vi si legge che «il nuovo Stato non conosce altro compito che l’adempimento delle condizioni necessaria alla conservazione del popolo» <139. È evidente, pertanto, che «il totalitarismo del secolo scorso ha il suo fondamento in questa identità dinamica di vita e politica e, senza di questa, rimane incomprensibile» <140. Le leggi sull’eugenetica, che furono in Germania in breve tempo pensate e promulgate, sono comprensibili solo se si riscontra in esse il carattere eminentemente politico. I crimini dei nazisti emersero a Norimberga, soprattutto quando fu fatta luce sugli esperimenti compiuti dai ‘medici dei lager’ nei confronti delle VP (le cavie umane). Sbaglia chi pensa che questi esperimenti siano stati solo sadico-criminali e non scientifici. Coloro che li fecero erano illustri esponenti del mondo scientifico e non certo persone sprovvedute. Sbaglia anche chi pensa che procedure di questo tipo abbiano interessato solo regimi totalitari. Da quel che si sa, gli Stati Uniti (ma non certo solo loro) non sono affatto immuni dall’utilizzo di queste pratiche, che già cent’anni fa erano soliti compiere a danni di carcerati (l’attenuante del consenso dei detenuti è ipocrita, sapendo benissimo che la loro condizione non era certo quella di persone che potevano decidere liberamente). Dunque, le vittime dei lager, i detenuti nelle prigioni americane e chissà quanti altri soggetti sono stati i nuovi homines sacri (sul significato di questo termine torneremo in seguito) del XX secolo, in un periodo cioè in cui, all’ombra del nuovo orizzonte biopolitico, il medico e lo scienziato si sono addentrati in un terreno che in passato era sola prerogativa del sovrano.
Il discorso può essere analizzato anche sotto un altro punto di vista, ovvero la distinzione tra vite degne e vite indegne di essere vissute.
L’autorizzazione dell’annientamento della vita indegna di essere vissuta è un breve libro scritto nel 1920 da Binding, uno dei teorici precursori dell’ideologia della razza. Il titolo del libro è di per sé illuminante. In primo luogo, parlando del suicidio, l’autore ne sottolinea l’impunità nel nome della sovranità della persona che decide di disporre di se stessa. Poi, però, passando a trattare il tema dell’eutanasia, egli propone la necessità di autorizzare l’annientamento della vita indegna di essere vissuta. In tale affermazione è espressa la struttura biopolitica fondamentale della modernità, la possibilità cioè di decidere se la vita sia degna o indegna di essere vissuta.
Roberto Escobar, in un illuminante passo de ‘Il silenzio dei persecutori’, può essere chiamato a intervenire nel dibattito iniziato da Binding. In altri termini, secondo Escobar, portato alle sue estreme conseguenze, il ragionamento di Binding può arrivare a un punto culmine, quello in cui, come scrive Escobar, distribuire la vita e la morte, se anche non significa più attribuire materialmente la morte ad alcuni individui a scapito di altri, comunque è un fatto tutt’altro che trascurabile anche in epoca odierna, laddove le istituzioni continuano a stabilire chi merita di vivere e chi, di converso, debba morire (basti pensare a quegli ordinamenti giuridici che prevedono la pena di morte). Anche adesso, per Escobar, si continua a distribuire la vita e la morte valorizzando alcuni e devalorizzando altri: «Dai lager hitleriani ai gulag staliniani, dalle celle della morte statunitensi ai plotoni d’esecuzione cinesi, dall’esposizione al rischio di morire dei lavoratori migranti agli attentati terroristici, dalle molteplici “pulizie” etniche alle guerre anch’esse “pulite”, milioni d’uccisioni non sono avvertite come omicidi dalle diverse opinioni pubbliche, e spesso neppure dagli ordinamenti giuridici dei tribunali» <141.
Sì, perché è lo stesso Binding a chiedersi se l’impunità dell’annientamento della vita possa essere limitata solo a se stessi o esteso a terzi. Il nazismo e, più in generale, ogni forma di totalitarismo, hanno purtroppo trovato la risposta a quella che sembra in effetti essere una domanda retorica. Il concetto di ‘vita senza valore’ si applica a quegli individui ‘incurabilmente perduti’. Binding sostiene che a decidere in merito alla loro morte debbano essere medici, psichiatri e giuristi, chiaro riferimento a una vita che cessa di avere valore giuridico e che quindi può essere uccisa senza commettere reato. Ogni politicizzazione della vita implica così una soglia al di là della quale essa non è più politicamente rilevante, ma è solo ‘nuda’ o, che è lo stesso, sacra. Ogni società fissa tale limite e decide quali devono essere questi ‘uomini sacri’.
Escobar chiama persecutori, coloro che avocano a sé il potere di decidere della vita o della morte di queste ‘vittime sacre’. Per lui, i luoghi comuni attraverso cui si distribuiscono morte e vita sono quelli del fanatismo, del nazionalismo, del razzismo.
L’ostinata e arcaica apologia della morte si ammanta ancora di eroi, di martiri, di sacrificio. Sono ancora tanti gli individui che avocano a sé il diritto di amministrare la vita e la morte. I persecutori ci seducono con le loro ‘nobili’ ragioni e, così facendo, banalizzano le vittime, riducendole a insensatezza, silenzio e invisibilità. Non sono persone, sono categorie. Sapendosi innocenti, i perseguitati sono svuotati di ogni capacità di reazione e ribellione, ridotti a ‘completa passività’, come furono le vittime dei nazisti e degli stalinisti che si incamminavano verso i campi di sterminio. Il loro ostinato silenzio, il loro auto-annullamento fino all’invisibilità, possono essere così letti come ultima, inutile, estrema strategia di difesa. Un’altra consiste nel rendersi massimamente visibili come insieme, acquisendo così la titanica forza della massa. I corpi che si stringono e si addensano nella disperata difesa a oltranza sono l’unico (effimero) scudo possente contro le pallottole lanciate dai persecutori. Così facendo essi, confondendosi nell’insieme, non fanno altro che portare al parossismo l’invisibilità cui sono stati condannati dai persecutori <142. I quali persecutori, si badi bene, agiscono in totale buona fede. Non era forse un burocrate modello quell’Adolf Eichmann, indiscusso portatore della ‘banalità del male’? Così, analogamente, non si può dubitare neppure della ‘buona fede’ di Hitler. Questi, infatti, come testimonia sempre Escobar, odiava gli Ebrei, una moltitudine degradata e babelica, infida e velenosa. Nel ‘Mein Kampf’ scriveva che gli Ebrei brulicano come insetti e formicolano ovunque: li si vede dappertutto. Essi non assomigliano al popolo tedesco, che contaminandosi con loro rischia di precipitare verso la degradazione più assoluta. Il singolo è così ridotto a stereotipo, a tipo. L’ebreo (con la minuscola) è il non-umano, il loro foriero di marciume che si oppone alla fierezza del noi. L’essenza dell’ebreo si costruisce sull’assenza. Egli (esso) non è, incarna la negatività. La brulicante presenza di questi negletti inquina la sacralità della domus. Dunque bisogna odiarli, affinché gli spiriti turbati da queste presenze ritrovino la certezza del proprio luogo comune. La questione è tuttavia un’altra, ed è Agamben a sollevarla: «Se al sovrano, in quanto decide sullo stato di eccezione, compete in ogni tempo il potere di decidere quale vita possa essere uccisa senza commettere omicidio, nell’età della biopolitica questo potere tende a emanciparsi dallo stato di eccezione per trasformarsi in potere di decidere sul punto in cui la vita cessa di essere politicamente rilevante. Non soltanto, come suggerisce Schmitt, quando la vita diventa il valore politico supremo, si pone allora anche il problema del suo disvalore. (…). Nella biopolitica moderna, sovrano è colui che decide sul valore o sul disvalore della vita in quanto tale» <143. Poiché nel Reich a decidere erano i medici, ecco che la figura del sovrano e quella del medico tendono a diventare un ibrido e a scambiarsi le parti.
[NOTE]
138 R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, cit., p. 161.
139 Ivi, p. 164.
140 Ibid.
141 R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, il Mulino, Bologna 2002, p. 17.
142 Ibid.
143 G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 158.
Davide D’Alessandro, Filosofie della biopolitica. Figure e problemi, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011