L’inviato del partito aveva in genere il contatto di un italiano/a in zona da qualche anno

Fonte: FILEF Reggio Emilia cit. infra

Anche uno studio di Guillon sulla Resistenza nella regione di Tolone, capitale del dipartimento del Var, rende conto del gran ruolo avutovi dai membri del PCd’I, la cui attività coincise in quest’area con una buona parte del lavoro della MOI. A livello locale, qui come altrove, la nebulosa delle organizzazioni comuniste (JC, CGT, FTP, MOI) rispondeva in realtà ad un’unica struttura centrale, il PCF, nella quale i militanti si dividevano in settori per agevolare lo svolgimento delle diverse mansioni (propaganda sindacale, stampa, lotta armata). Si può dire dunque che alla “base, nelle località di piccola taglia, tutto è confuso e la divisione che avrebbe dovuto separare [le organizzazioni comuniste] è spesso artificiale. […] La separazione è effettiva nella gerarchia” <22, per la tripartizione in settore militare, politico e tecnico. All’interno di tale coesistenza, il lavoro della MOI nel Var sino al 1943 fu essenzialmente a carico della sezione italiana. Quando poi una grossa fetta dei membri del PCd’I passò in Italia, il dialogo con socialisti e GL portò alla nascita del Comitato Italiano di Liberazione nazionale e la lotta armata si internazionalizzò: in agosto il bulgaro Daskalov rimpiazzò il triestino Anton Udmark alla responsabilità del settore tecnico e nel gennaio ’44 il rumeno Petre Mihaileanu Marcel sostituì Primo Serrieri alla responsabilità militare. Uno sguardo più interno all’attività del PCI nel Var è offerto dai ricordi, pubblicati con il titolo di Douce France, di Giuliano Pajetta a lavoro tra le famiglie italiane della regione. L’inviato del partito aveva in genere il contatto di un italiano/a in zona da qualche anno, utile alla descrizione della condizione e delle opinioni degli italiani della regione, da coinvolgere nell’attività del partito. Tale contatto erano spesso vecchi simpatizzanti perfettamente legali o le coniugi di qualche compagno internato, il cui primo incarico era la gestione del Soccorso rosso; si provvedeva cioè a inviare lettere e pacchi ai compagni in carcere, di modo che ne ricevessero anche coloro che non avevano una famiglia ad attenderli. Reclutare qualcuno nell’azione di partito comportava in quella fase grosse difficoltà e incalcolabili rischi: se si individuava in una famiglia di italiani dei possibili simpatizzanti era necessario recarsi da loro, chiarire la propria posizione di rappresentante del partito, cercare un contributo per il Centro Interno che fosse una quota in denaro o la collaborazione nella stampa e nel lancio di volantini. Una presentazione così improvvisa e scoperta contravveniva senza dubbio alle regole cospirative, ma rappresentava anche l’unico mezzo per raggiungere e coinvolgere le famiglie emigrate. Si trovavano così vecchi antifascisti disillusi che non volevano più saper nulla del partito, ma anche uomini adattatisi alla situazione, che lavoravano in Francia ma nutrivano nostalgia dell’Italia e avevano cresciuto i propri figli con i racconti della propria terra natia. A queste famiglie gli emissari del partito affidavano qualche clichés per la stampa di volantini e indicavano di scrivere spesso in Italia, per far sentire la propria presenza ai parenti. Le lettere che giungevano poi in direzione opposta, unico perenne contatto con il paese, erano passate al setaccio e confrontate tra loro, per tentare di ricavare l’umore degli italiani in relazione al fascismo e alla guerra. Sui giovani di queste famiglie e sulle loro prospettive di vita sono stati avviati nel mondo accademico francese dialoghi che auspicano studi più approfonditi, a metà tra la storia delle migrazioni e della Resistenza e la sociologia. Come spesso accade riguardo ai percorsi individuali, il loro carattere variabile e aleatorio non consente la creazione di uno schema di riferimento, al quale verificare poi l’adesione dei casi reperiti. Appare funzionante però la differenziazione già citata, proposta da Jean- Marie Guillon e ripresa da Colin, tra “i rifugiati in attesa del ritorno e gli immigrati in attesa d’integrazione” <23. Se inseriamo senza dubbio nella prima categoria i quadri del Partito comunista italiano in esilio, il discorso si complica per gli altri antifascisti o per i militanti di base, e ancor più per i loro figli, nati e cresciuti in Francia. L’orientamento di questi giovani nella Resistenza francese, verso la liberazione dall’occupante o verso il ritorno in Italia, fu quindi sempre legato a circostanze personali, in particolare all’educazione ricevuta in famiglia. Pajetta offre uno sguardo quotidiano sulle famiglie con cui entrò in contatto nel Var, ricorda ragazzi carichi di ardore, desiderosi di avviare la Resistenza. Quando però prospettava l’invio in Italia molti avanzavano dubbi e timore all’idea del rientro in una patria sconosciuta:
“Però a pensarci bene quello che chiediamo a questi ragazzi è molto davvero; un giovane ha vent’anni, è cresciuto in Francia, qui ha genitori e amici, lavoro e fidanzata, qui ha già visto il posto dove metterà su casa, questa per lui non è una seconda patria ma l’unica patria che conosce, non ha da fare il servizio militare e la guerra ha miracolosamente rispettato la sua città e la sua casa. Adesso noi gli chiediamo di andare a fare il soldato in un misterioso paese, l’Italia, che lui conosce solo per quanto ne han detto i suoi, che a loro volta ne han conosciuto solo un angolo affamato dell’Appennino e delle Prealpi e da cui sono venuti via cacciati dal terrore o dalla fame;” <24.
Seppur manchino uno studio analitico e dati sufficienti, vi fu un certo numero di giovani, cresciuti in Francia da genitori italiani che accettarono di essere inviati in Italia, per arruolarsi nell’esercito, lavorare in una fabbrica o in un ufficio, e reclutare altri che dimostrassero sentimenti antifascisti, con il fine di creare una cellula comunista all’interno. Le ragioni che spinsero ragazzi e ragazze che non avevano mai visto l’Italia a partecipare alla lotta per la sua liberazione sembrano risiedere soprattutto nell’ambiente familiare, come per il giovane Enrico, la cui famiglia fu rintracciata a Hyères da Pajetta, che scrisse:
“la sua vita personale l’ha mantenuto legato all’Italia e ha anche lui il suo fatto personale non solo con il fascismo e la guerra ma anche con Mussolini e i suoi: è colpa loro – lo sa bene- che egli non ha potuto crescere e studiare, vivere come un ragazzo normale nel suo paese, nella sua terra, e ha dovuto venire a fare la più triste delle professioni, lo straniero” <25.
Bechelloni parla di fils du Parti riferendosi a questi ragazzi che “hanno passato gran parte della infanzia e della loro adolescenza in Francia, vi sono stati scolarizzati e spesso non parlano che il francese, [ma] la loro identità di comunisti italiani preme sugli altri aspetti e influisce sulla scelta finale” <26. Le testimonianze a disposizione indicano questa scelta come totalmente volontaria, come per Nello Marcellino e Lina Fibbi, reclutata nel campo di Rieucros da Teresa Noce e Anna Maria Montagnana.
Altri migranti italiani di seconda generazione appartenevano invece, con polarità differenti, alla categoria dei migranti in attesa di integrazione, e le liste dei componenti delle formazioni, stilate dopo la liberazione, rendono conto della partecipazione di alcuni di loro alla Resistenza nelle file dei FTP. Le liste di effettivi depositate presso il Service historique de la Defense furono stilate secondo le richieste di riconoscimento pervenute post liberazione, costituiscono dunque solo un indice, registrando unicamente gli italiani che, rimasti in Francia dopo la guerra, ottennero la ratifica della propria partecipazione alla guerra di liberazione. Prese dunque queste precauzioni, se analizziamo le liste di effettivi dei gruppi MOI dal ’43 alla liberazione in due regioni di massiccia presenza italiana, le Alpi Marittime e il Lot-et-Garonne, si trova traccia dell’affiliazione di italiani o giovani di origine italiana nel gruppo armato del PCF riservato agli stranieri. La lista nominativa dei membri omologati del gruppo MOI in una regione di altissima immigrazione per la vicinanza del confine, le Alpi Marittime, ad esempio, conta 33 persone, delle quali 21 risultano nate in Italia, e dei dodici restanti, cinque portano cognomi italiani (Dani, Dini, Garofalo, Roncaglia, Vacca) <27.
Anche nella regione di Tolosa, seppur in misura inferiore al Lozère o all’Ile de France, esisteva una forte comunità italiana, di contadini, artigiani o lavoratori delle miniere di Carmaux. Tra coloro che si stabilirono tra l’Haute Garonne e il Lot-et-Garonne troviamo Fiore Lorenzi e Aristodemo Maniera, membri del PCd’I che saranno attivi organizzatori del passaggio in Spagna e della tenuta della struttura del partito in quella regione. Il resto della famiglia Lorenzi raggiunse il padre in Francia e fu naturalizzata nel 1934, e, mentre Fiore continuò a lavorare per il PCd’I, il figlio Enzo figura tra i responsabili militari del Battaglione MOI Indomptable, formazione aggregata alla 35° Brigata FTP-MOI, costituita a partire dal novembre ’42. Visto che l’avvio di formazioni armate in zona sud avvenne in concomitanza con l’occupazione, solo all’inizio del ’43 la brigata compì le prime azioni, composta dai capofila Mendel Langer, Joseph Washpress e Jacob Insel, ebrei iscritti alla MOI con alle spalle un passaggio in Palestina. Il 5 febbraio 1943 però Langer fu arrestato alla stazione St. Agne a Tolosa con una borsa carica di esplosivo e, condannato a morte, fu fucilato nella prigione di St. Michel il 23 luglio 1943. Intanto, la formazione, ribattezzata in suo onore, era stata posta sotto la direzione interregionale di Jan Gerhard, responsabile intermilitare, Jacob Insel, interpolitico e Shimmel Gold, intertecnico. La brigata si organizzò dunque a partire da ebrei passati per la Palestina, ma poté contare presto sui più giovani, tra i quali anche i figli e le figlie di quelle famiglie italiane stabilitesi nella regione da più di un decennio, che diedero vita al battaglione Indomptable dopo la caduta del gruppo più anziano. I dossier di omologazione rendono conto di una dozzina di effettivi a fine ’42, che salivano a 32, ovvero un distaccamento, nel maggio ’43 e si assestavano attorno alle 72 unità nella fase di maggiori adesioni, alla fine del ’43. Troviamo nella lista degli effettivi della Brigata Indomptable: Jean e Rosina Bet <28, Henri Zanel, George, Emile, Gerard e Armand Titonel, Enzo, Lucien e Jean Lorenzi, Albert Lesizza (che nella lista nominativa diviene Letizza, verosimilmente per un errore di trascrizione) Cesare Busighin (trascritto Buzzichin) e Bruno Cisilin <29. Si trattava di ragazzi tra i 20 e i 25 anni, in Francia sin dall’infanzia, le cui famiglie, di origine veneta o friulana, in particolare Fiore Lorenzi e Maria Lesizza, avevano continuato ad intrattenere contatti con i gruppi antifascisti italiani. Inoltre per qualche mese nel ‘42 Amendola, Sereni e Dozza avevano abitato assieme in una villetta con giardino nei pressi di Tolosa, intrattenendo regolari contatti con i militanti italiani della regione. Enzo Lorenzi, dopo esser stato inviato nelle Basse Alpi per conto del PCd’I, era stato versato ai FTP-MOI, e ricorda inoltre di aver incontrato tramite il padre Ilio Barontini, che teneva i contatti con Jan Gerhard tramite l’agent de liason Cathrine Varlin. Castelculier e Monclar erano divenuti i centri nevralgici del PCd’I in Garonne, tenuti in contatto con lunghe pedalate in bicicletta, il cui primo scopo fu l’invio dei pacchi agli internati del Vernet. I contatti e i membri in comune tra la base del PCd’I e i membri della MOI mettono in luce su scala regionale “l’imbrication entre PCF et le PCI, entre FTP et FTP-MOI par le Lot-et-Garonne où la séparation entre des militants se connaissant d’avant-guerre n’existait pas” <30. Il PCd’I in lunghi anni di esilio in Francia si era dunque appoggiato alle strutture del PCF per gli stranieri, sino a condividere elementi ed operazioni, ma i suoi membri più anziani, e alcuni dei più giovani, non si riorientarono sulle necessità politiche della Francia, restarono anzi volti verso il ritorno in una patria da liberare. A testimonianza di tale permanente indirizzo d’azione, l’attentato, commesso il 7 gennaio ’44, da Enzo Godeas contro Monsignor Torricelli, rappresentante del Vaticano per l’opera Bonomelli in Lot-et-Garonne, che lanciava appelli ai giovani italiani perché partissero per lavorare in Germania. Inoltre, dalla metà del ’43 i rifugiati in attesa del ritorno cominciarono a confluire verso l’Italia in vista di una nuova guerra contro i tedeschi, alcuni giovani italiani ormai integrati restarono in Francia, altri tornarono in Italia; e non mancarono neppure coloro che, come Fiore Lorenzi, tornarono in Italia per combattere la battaglia finale e poi rientrarono ed invecchiarono in Francia, dove viveva ormai la propria famiglia.
Si può dire dunque che non risulti eccessivo, se non forse per una sopravvalutazione quantitativa, l’omaggio reso da Giorgio Amendola alla migrazione in Francia nel 1965, in occasione di una commemorazione di Barontini a Livorno:
“questa emerita emigrazione in Francia che ha salvato il PCI dalle traversie di molti altri partiti comunisti illegali, perché noi comunisti in Francia abbiamo trovato una base di massa, un milione circa di italiani emigrati, a Marsiglia, a Nizza, a Lione, nella periferia parigina. Perciò noi non eravamo un partito illegale privo di contatti con le masse. E la massa dei lavoratori emigrati ci dava con generosità un forte contributo, uomini da inviare in Italia, combattenti da inviare per fare il lavoro illegale, aiuto politico, coscienza del legame con le masse, che è indispensabile per un partito comunista. E c’era in Francia un partito comunista che permetteva, nelle sue organizzazioni, ai lavoratori comunisti emigrati dall’Italia di trovare un contatto coi lavoratori francesi, e di combattere assieme contro il comune sfruttatore.” <31
Alla metà del 1943 i militanti del PCd’I erano dunque in procinto di intraprendere il passaggio in Italia a lungo atteso. Il ritorno di molti dei comunisti italiani desiderosi di combattere il fascismo avvenne tramite un percorso sulle Alpi trovato da Amerigo Clocchiatti e Domenico Tomat, i primi ad averlo utilizzato nel ’42 per rientrare e prendere contatto con Massola.
[NOTE]
22 J.M. Guillon, http://www.var39-45.fr/theseJMG/partie3/chapitre4/A.php
23 Bechelloni Antonio, Antifascistes italiens en France pendant la guerre : parcours aléatoires et identités réversibles. In: Revue d’histoire moderne et contemporaine, tome 46 N°2, Avril-juin 1999, pp. 286.
24 Giuliano Pajetta, “Douce France”, Editori Riuniti, Roma, 1971, pag.147.
25 Giuliano Pajetta, op.cit., pag.148.
26 Bechelloni, op.cit., pag. 286
27 Liste nominative des membres des groupes MOI du département des Alpes Maritimes, in Service Historique de la Défense, Inventario maquis e forces françaises de l’intérieure, busta GR19 P-613.
28 Informazioni biografiche in Pia Carena Leonetti, op.cit., pag.179.
29 Liste nominative des membres de la formation Brigade MOI- Bataillon Indomptable du département du Lot et Garonne. Service Historique de la Défense, Inventario maquis e forces françaises de l’intérieure, fascicolo GR19 P4719.
30 Jean-Yves Boursier, “La guerre de partisans dans le sud-ouest de la France. La 35° Brigata FTP-MOI”, l’Harmattan 1992, pag. 135.
31 Amendola, op.cit., pag.360.
Elisa Pareo, “Oggi in Francia, domani in Italia!” Il terrorismo urbano e il PCd’I dall’esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

Dal ’41-’42 Giuliano Pajetta si dedicò nella piena clandestinità alla riorganizzazione dei gruppi comunisti dispersi nel Sud della Francia. Nel maggio 1942 fu arrestato a Cannes. Per due anni fu in carcere ad Aix en Provence. Nel febbraio del ’44, con l’aiuto dei Maquis francesi, riuscì a fuggire e fino al mese di giugno rimase con i partigiani francesi.
Armando Addona in (a cura di) Alberto Meschiari, Giuliano Pajetta. Un protagonista del ’900 nei ricordi dei Reggiani, FILEF Reggio Emilia, 2007

Roma, 1 ottobre 1965
Caro Giuliano,
anche tu, dunque, sei arrivato al “confine” dei cinquant’anni, e, se da noi esistesse, avresti già persin diritto al titolo di “veterano” per averne passati ben trentacinque nelle file delle nostre organizzazioni giovanili e del Partito, ovunque si è lottato, in questo lungo scorcio di tempo, per la libertà, per la democrazia, per la pace, per il socialismo: in Francia, in Spagna, nello spaventoso campo di concentramento di Mauthausen, e poi in Italia, prima e dopo la deportazione, in tutti i diversi incarichi che ti sono stati affidati. Ma non te lo daremmo, questo titolo di “veterano”, perché tutti ti consideriamo ancora un giovane, e un giovane ti senti anche tu, pieno di energia e di passione, con un po’ di quello slancio irruente che nei giovani, anche di cinquant’anni, non guasta mai. Ti ho conosciuto e ti ho avuto vicino quand’eri ancora un ragazzo – ma un ragazzo al quale la propria coscienza aveva imposto presto delle scelte precise e dei distacchi dolorosi, come quello che per tanto tempo ti ha tenuto lontano dai tuoi – e sarei perciò tra i più indicati a scrivere della tua vita. Ma so quanto sei schivo di queste cose, e poi, nel mezzo del cammino, è un po’ presto per stendere dei bilanci.
C’è ancora tanto tempo dinanzi, c’è ancora tanto da fare, anche nel campo delle relazioni internazionali, del movimento comunista, e dell’azione per una nuova politica estera, al quale ora dedichi la tua attività, ed è guardando a tutto quello che ti sta ancora di fronte che ti mando gli auguri più affettuosi del Comitato Centrale e miei personali.
Con un fraterno abbraccio,
(Luigi Longo)
Luigi Longo, Lettera a Giuliano Pajetta per i suoi 50 anni
(a cura di) Alberto Meschiari, Giuliano Pajetta. Un protagonista del ’900 nei ricordi dei Reggiani, Filef, Reggio Emilia 2007 – Pubblichiamo, per gentile concessione del curatore e dell’Editore, il testo di questo volume scritto a più mani in memoria di Giuliano Pajetta. Esso contiene anche il testo di alcuni articoli scritti dallo stesso Pajetta nell’immediato dopoguerra su l’Unità, sulla scorta anche della propria esperienza di deportato a Mauthausen – Giuliano Pajetta, Mauthausen, Prima edizione: Orazio Picardi – Milano 1946

Dalla lettura di un documento OSS, con il quale si erano compulsati interrogatori di diverse spie tedesche, si apprende che nel sud della Francia aveva tentato di operare, quantomeno con la distribuzione di volantini alle truppe teutoniche, un “Comitato Germania Libera”. E che di questo gruppo era stato arrestato un membro, Kuballa, catturato insieme a uomini del maquis nel corso di un’operazione nelle vicinanze di Valence. Kuballa, trovato in possesso di un discreto numero di materiali della sua organizzazione, era stato in seguito trasferito a Berlino, da dove – si può tragicamente supporre – scomparve nel nulla.
Adriano Maini