Maggio 1944: eccidi nazifascisti in Val Sangone

Giaveno (TO). Fonte: Wikipedia

A Giaveno, lungo la strada che dalla Parrocchiale di San Lorenzo punta diritta ad ovest verso Coazze, passando da Pontepietra, l’edificio più imponente è Villa Garrone. Si trova sulla destra ai confini dell’abitato.
[…] Nel 1944 la villa era di proprietà del Commendator Garrone, un ricco industriale che possedeva alune fonderie.
Il 10 maggio di quell’anno viene occupata dai tedeschi, che vi stabiliscono il comando dell’Operazione Habicht: il tragico rastrellamento di maggio.
Il fatto, come tutta la cronaca di quei giorni, è raccontato nel Diario dell’allora podestà Giuseppe Zanolli, che va dal 9 settembre 1943 al 30 aprile 1945. Il testo, ora dattiloscritto e conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza in Piemonte, costituisce una fonte importante di notizie per ricostruire la storia locale di quel periodo.
Zanolli è protagonista di un difficile equilibrismo tra le minacce tedesche e la tutela della popolazione: il 12 maggio, chiamato a Coazze dal comandante del presidio tedesco è obbligato a fare anche lì il podestà.
La sua risposta è chiara: “Sta bene, io provvederò, però potrò e dovrò intervenire anche in favore della popolazione che provvisoriamente mi viene affidata. Quindi chiedo che siano messi in libertà alcuni uomini di Coazze anziani e che nulla hanno a che fare con i partigiani”. Concesso.
Nei giorni del rastrellamento continua ad aiutare popolazione e partigiani, fino a diventare sospetto alle autorità fasciste: “Sappia che abbiamo tante denunce contro di lei. È protetto dalla Prefettura ma badi che da un dato punto le protezioni non contano più. Stia attento.”
Finirà in carcere dal 25 settembre al 22 dicembre 1944. Nel dopoguerra verrà eletto Sindaco di Giaveno, restando in carica dal 1951 al 1956.
Il 4 maggio è avvertito che le truppe inviate a Rubiana, finito il rastrellamento, raggiungeranno Giaveno. Appena i militari saranno in paese verranno richiesti ostaggi “come da tutte le altre parti, per mettersi le spalle al sicuro da eventuali cattivi intendimenti della popolazione. Avverto di tutto popolazione e partigiani”.
Il 10, alle ore 5, salgono da Avigliana e Orbassano camion e carri armati. Gli uomini impiegati sono fra i 2000 e i 3000: poco meno della consistenza di una divisione.
Ci sono le compagnie di SS italiane, una compagnia di metropolitani, il corpo che sostituisce quello soppresso dei vigili urbani, comandata dal tenente Saia, un pattuglione di carabinieri che ha aderito alla Guardia Nazionale Repubblicana e, soprattutto, quattro compagnie di Alpenjager, gli sciatori tedeschi addestrati alla guerra in alta quota, che scendono dalla montagna, attraverso il Colle della Russa e il Col Bione.
È una vera e propria occupazione della vallata: una risalita dal fondovalle ed una conversione dai colli vicini.
L’operazione è affidata al colonnello Ludwig Buch, comandante del 15° reggimento di polizia SS, coadiuvato dal tenente colonnello Otto Böckeler, arrivato da Pinerolo alla guida del reggimento di sicurezza 38, specializzato nell’organizzazione di operazioni antipartigiane.
Tre tedeschi armati scortano in piazza San Lorenzo il podestà al cospetto del tenente colonnello che vuole una “buona casa o villa per collocare il comando”. Alla risposta che tutte le abitazioni sono occupate dagli sfollati chiede di essere accompagnato a Villa Garrone.
“Si vede che conosce come me ed anche meglio dove si può star bene. Mi fa salire in macchina e, senza mio intervento, questa si ferma davanti al cancello che viene tosto aperto dal portinaio. Dopo un lungo suonare alla porta interna della Villa si presenta personalmente – in veste da camera – il commendator Garrone. Forse arrabbiato per la insolita sveglia il commendatore alla richiesta di locali risponde negativamente e male al tenente”.
Il militare, arrabbiato, “mi fa dire dall’interprete che il Garrone è certamente un antitedesco ed un favoreggiatore ,per cui intende sloggiarlo completamente, indi arrestarlo e distruggere poi la villa intera”.
Ribatto che “il Garrone è un povero vecchio che, svegliato all’improvviso dal sonno, è imbronciato come un bambino, ma che, se lascia fare a me, la questione sarà liquidata. Infatti mentre entro in casa scende dalle scale la figlia del Garrone, che presento al tenente e si trovano subito d’accordo”.
Servono altri alloggi per gli ufficiali, che Zanolli sceglie di far dormire “negli alberghi che da varie lettere anonime sono stati segnalati quali favoreggiatori. Essendo da essi occupati tali alberghi potranno sfuggire ad eventuali rappresaglie”.
Il tenente richiede quindi una trentina di ostaggi da scegliere tra gli uomini dai 20 ai 50 anni: risponderanno con la loro vita di qualunque “incidente” avvenga a Giaveno e Coazze ai soldati tedeschi e italiani.
Giuseppe Zanolli si offre al posto dei suoi paesani: “Dica al suo comandante che rimango io a disposizione come ostaggio e cola mia vita rispondo di ogni azione della mia popolazione”.
Il Colonnello Comandante approva la proposta purché dia la sua parola d’onore: non si allontanerà da Giaveno fino a operazione conclusa: “Non si parli più di ostaggi per questi due comuni ma, intendiamoci, stia ben attento perché ad un minimo accenno di conflitto ad una ferita o peggio ancora ad una uccisione di soldato mio dipendente la faccio fucilare immediatamente”.
“Sta bene – risponde Zanolli – credo di essere al sicuro, nessuno sarà tanto cretino da voler scatenare queste bestie”.
Alle 8 transita per Giaveno il commendator Garrone: “Ho dovuto sottostare all’ordine del comando tedesco e cedere la mia casa, ma io, per non vederli, me ne vado a Torino e ritornerò solo quando saranno partiti”.
La reazione del podestà è di sollievo e perplessità: “anche questa è una consolazione… ma tutti i gusti sono gusti. Io veramente sarei rimasto perché non facessero dei danni alla casa; ma lui è contento così, e così sia”.
In comune l’ufficio del podestà intanto è adibito a sala interrogatori. La prigione è la camera di sicurezza dei carabinieri o il teatro Alfieri.
Inizia un grande e sanguinoso rastrellamento: oltre 100 partigiani uccisi, diverse borgate devastate, un numero imprecisato di deportati e tre stragi di massa: Pinasca, Sant’Antonino e Forno di Coazze. Qui, il 16 maggio, 23 partigiani vengono prelevati dalle improvvisate carceri di Giaveno e Coazze, costretti a scavare una fossa comune ed a disporsi lungo il ciglio per essere gambizzati e lasciati morire dissanguati.
Le bande partigiane riescono in alcuni casi a conoscere in anticipo il luogo e l’ora degli attacchi nazifascisti. Ad informarli degli attacchi di maggio è, tre giorni prima, un ufficiale in servizio presso la Ortskommandatur di Rivoli: Ernst Hermann Schindler Pappenheim, conscio dell’imminente sconfitta delle forze tedesche.
L’allerta non è però sufficiente: le bande partigiane sono prive di coordinamento, non hanno ancora pienamente assimilato le strategie di guerriglia e l’assenza di un comando unico rende impossibile una risposta decisa. Nessuno, poi, ha pensato ad un attacco proveniente dalle montagne e a una convergenza dalle vallate laterali. A tutto ciò si deve aggiungere lo scarso armamento e le poche munizioni.
Tatticamente impreparati e divisi, i gruppi vengono sorpresi da un’offensiva che le autorità militari germaniche hanno preparato nei dettagli.
Alle sei di mattina del 10 si spara già in vari punti della vallata e cadono i primi partigiani. Si va avanti per più di una settimana: il 18 “se Dio vuole i tedeschi se ne sono andati durante la notte”, ma il 20 in località “Bonaria della Braida”, ai confini tra i comuni di Giaveno e Chiusa S. Michele, due ufficiali tedeschi sono uccisi.
Uno di essi è un amico personale di Hitler: la rappresaglia è immediata e durerà per mesi, mettendo a dura prova la resistenza dei residenti e delle formazioni partigiane.
Franca Nemo, Giaveno, 1944: il comando tedesco si insedia a Villa Garrone, Laboratorio Alte Valli, 15 novembre 1922

La giornata del 10 maggio è interminabile e cruenta per tutta la vallata. Il bilancio è terrificante: 50 morti tra i partigiani e 10 tra i civili, a cui si aggiungono numerosi feriti e più di 100 case incendiate.
Il rastrellamento non si limita ad una sola giornata, ma dura un’intera settimana. Esso si rivela un’esperienza di violenza e di resistenza che accomuna partigiani e popolazione civile, cementandone l’unione e il sentimento antitedesco.
Ad aiutare ciò contribuiscono anche eventi tragici, come le esecuzioni di massa. Il 16 maggio 23 partigiani vengono prelevati dalle improvvisate carceri di Giaveno e Coazze e portati al Forno. Si tratta di uomini catturati nei giorni precedenti. Tutti portano i segni di torture e sono costretti a scavare una fossa comune e disporsi lungo il ciglio, per essere gambizzati e lasciati a morire dissanguati.
Il 18 maggio è l’ultimo giorno del rastrellamento: il bilancio finale recita più di un centinaio di partigiani fucilati, insieme a diciotto civili, oltre a cinquanta deportati in Germania e due paesi interi, Forno e Pontetto, incendiati.
I partigiani commettono inoltre un grave errore. Spinti dal desiderio di vendetta, il 20 maggio compiono una rappresaglia alla Braida, dove uccidono due ufficiali tedeschi. Il giorno dopo una colonna autotrasportata della Falk entra in Giaveno e prende tutti gli uomini che trova in piazza per poi dirigersi verso Valgioie. In poche ore circa 300 persone sono raccolte al colle della Braida e sono spaventate con spari sopra i loro capi, prima di essere liberate verso le 18. Le repressioni però non si limitano a questo avvertimento. Il 26 maggio arrivano in vallata 41 prigionieri prelevati dalle carceri Nuove di Torino e divisi in quattro gruppi: 11 alla Bonaria, 10 rispettivamente a Valgioie a Giaveno e Coazze, dove sono fucilati di fronte alla popolazione.
“i tedeschi avevano capito che in val Sangone non c’era più nessun margine di consenso da difendere e per questo hanno fatto un attacco a fondo, contro di noi e contro i civili. Pensavano di fare un’azione conclusiva, di chiudere definitivamente il problema. Ma hanno sbagliato i calcoli. Ci hanno solo dimostrato che non c’era nulla da perdere, che l’alternativa alla lotta di liberazione era la loro bestialità: paradossalmente, credo che abbiano ottenuto l’effetto opposto a quello voluto, anche se nell’immediato ci hanno dato un colpo molto duro” <46.
46 Testimonianza di Giulio Nicoletta contenuta in G. Oliva, La Resistenza cit., p. 206.
Francesco Rende, Mario Greco e la Resistenza in val Sangone, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno accademico 2016-2017

Il 10 maggio del 1944 la val Sangone viene investita da un massiccio rastrellamento: l’operazione denominata Habicht si conclude il 18 maggio e registra oltre cento partigiani e circa diciotto civili (le fonti tedesche parlano però di centocinquantasei morti) uccisi tra combattimenti ed eccidi, borgate saccheggiate e bruciate (in particolare Forno e Pontetto), deportazioni. L’operazione coinvolge l’area di Cumiana, Barge e le valli di Susa, Chisone, Germanasca, Sangone e Troncea ed è condotta da reggimenti di Polizia SS, da reparti di polizia militare, da compagnie di Battaglioni dell’Est, da un plotone di gendarmeria tedesco a cui si aggiungono gli italiani: la compagnia Arditi del Battaglione Guardie Confinarie della Guardia Nazionale Repubblicana; la compagnia OP della Guardia Nazionale Repubblicana di Torino; cinquanta legionari del Gruppo “Leonessa”. Sono circa millecinquecentodieci gli uomini impegnati nelle operazioni. I documenti delle Brigate Garibaldi denunciano le violenze e le torture subite dai partigiani prima di essere sommariamente giustiziati. In molti casi si parla di uomini sepolti ancora vivi. A Forno di Coazze il 16 maggio ventiquattro uomini, in gran parte partigiani catturati durante le operazioni dei giorni precedenti e detenuti fino a quel momento nelle carceri improvvisate di Giaveno e Coazze, sono fucilati davanti a una fossa probabilmente scavata da loro e lasciati morire per dissanguamento senza che nessuno possa avvicinarli. La casa canonica e la Chiesa sono gravemente danneggiate e il parroco arrestato e portato alle Nuove, in quanto colpevole di avere provato a intercedere per i rastrellati. La borgata viene incendiata. A Forno di Coazze il 16 maggio oltre all’eccidio della fossa comune, altri quattro partigiani sono sommariamente fucilati. Tra questi il giovane Renato Ruffinatti, torturato e mostrato col volto tumefatto agli abitanti di Giaveno, Coazze e Presa Garida dove trova la morte insieme agli altri 3 compagni.
Barbara Berruti, Episodio di Forno di Coazze e Grange Garida, Coazze, 16.05.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Il 19 maggio 1944, terminata l’operazione Habicht (che ha visto dispiegarsi operazioni di polizia dal 10 al 18 maggio in tutta la valle), un gruppo di partigiani fa fuoco contro una camionetta della Flak, in perlustrazione sul colle Braida: due soldati tedeschi rimangono uccisi. Il 26 maggio trentun prigionieri sono prelevati dal Carcere delle Nuove di Torino e portati in val Sangone. Qui insieme a dieci ragazzi del luogo sono trasportati su un carretto e mostrati vivi alle popolazioni, in seguito vengono fucilati in quattro luoghi diversi: undici alla Bonaria, dieci a Coazze, Valgioie, e a Giaveno. La “Stampa” del 27 maggio scrive che dopo aver fatto evacuare le popolazioni, i tedeschi hanno proceduto, secondo le leggi di guerra, alla distruzione delle case che hanno presumibilmente ospitato i partigiani. Nei ricordi del podestà di Giaveno, Giuseppe Zanolli, l’ufficiale tedesco al comando dell’operazione dispone a esecuzione
avvenuta che i cadaveri uccisi a Giaveno restino esposti alla vista della popolazione per tre giorni e poi sepolti, come gli altri trentuno, senza funerali, senza onori e nella fossa comune.
Barbara Berruti, Episodio di Giaveno, 26.05.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Il 18 maggio, dopo oltre una settimana di rastrellamenti e violenze, i nazi-fascisti abbandonano la Val Sangone. Il bilancio era pesantissimo: quasi cento partigiani e diciotto civili uccisi, cinquanta arrestati e deportati, due borgate (Pontetto e Forno) e numerose altre abitazioni incendiate.
Appena tre giorni dopo, però, una autocolonna tedesca ritornava in valle. Il 20, infatti, due ufficiali tedeschi erano stati uccisi durante una imboscata nei pressi della Bonaria, nel territorio del Comune di Chiusa San Michele. L’azione, organizzata da alcuni uomini della banda «Genio» tra cui il vice-comandante Rinaldo Baratta, è sicuramente dettata dal grande sgomento per la strage di Forno. La reazione dei nazi-fascisti (i caduti erano due ufficiali delle SS ed uno di essi, secondo quanto riporta Zanolli, era amico intimo di Hitler) non si fa attendere e si concentra subito sui civili. Una prima retata viene fatta nella zona della Bonaria ed anche la Sacra di San Michele viene perquisita. Il giorno successivo veniva fatto un nuovo rastrellamento più ad ampio raggio con l’obiettivo di catturare i responsabili dell’uccisione dei due graduati. La banda «Genio», però, era stata tempestivamente smobilitata ed i suoi componenti non vengono coinvolti nel rastrellamento. A farne le spese, loro malgrado, sono tre soldati britannici che – dopo essere fuggiti da un campo di prigionia – si erano rifugiati nei boschi nella zona di Pian Aschiero, a monte della borgata Selvaggio in attesa di trovare un’occasione per riuscire a rientrare in patria. I tre vengono intercettati alle prese Rastrello nei pressi di Pian Aschiero. Due di essi, George Bambridge ed Harry Cockburn vengono uccissi, un terzo – Eric Latter – viene catturato. In seguito a torture Latter rivelerà che la popolazione di Selvaggio era stata solidale con loro e gli aveva spesso offerto vitto ed alloggio. Intanto, alle prese del Colonnello, sempre nella zona di Selvaggio, viene nuovamente ucciso un civile. Si tratta dell’anziano contadino Demetrio Tessa[48] a cui i tedeschi avevano intimato l’alt, ma questi – forse in preda al panico – invece di fermarsi si era messo a correre. La punizione più dura toccherà però al Selvaggio ed ai suoi abitanti. Il 22 maggio viene incendiata una casa sita alla Bonaria in prossimità del luogo dove sono stati uccisi i due ufficiali delle SS. Un successivo comunicato tedesco, distribuito tramite volantini, annuncia quindi che gli abitanti del Selvaggio e quelli della zona Braida-Valgioie dovranno abbandonare le loro case perché queste verranno presto cannoneggiate. Per i primi la colpa era quella di aver dato assistenza ai tre soldati inglesi, per gli altri quella di essere vicini al luogo in cui erano stati uccisi i due ufficiali. Dopo essere venuti a conoscenza dell’ultimatum sia il podestà Zanolli che il Prefetto di Torino Zerbino (ma anche esponenti del clero locale come don Crosetto che interessò anche la Curia di Torino) ed altre autorità si impegnarono per scongiurare queste azioni. Il giorno dopo, 23 maggio, i nazisti comunicarono che avrebbero risparmiato le case della zona Braida-Valgioie, mentre riguardo al Selvaggio si dimostravano irremovibili. Una trentina di abitanti del luogo, inoltre, vengono arrestati e condotti presso il comando tedesco di Valsalice a Torino e lì interrogati. Al termine degli interrogatori la maggior parte di essi verrà liberata. Altri, ritenuti collaboratori degli inglesi, saranno incarcerati ed in seguito deportati in Germania. Martedì 24 maggio gli abitanti di Selvaggio vengono fatti uscire dalle loro case e radunati in piazza. I tedeschi, dopo aver razziato quelle poche cose che erano rimaste nelle abitazioni, incendiano le case con i lanciafiamme e subito dopo iniziano a colpire a cannonate (vi saranno 102 colpi in tutto) la zona di Selvaggio Rio, la più popolata. Alla fine dell’azione vi saranno trentadue case distrutte. Veniva risparmiato, in extremis, solo il Santuario di Nostra Signora di Lourdes per la diretta intercessione di alte cariche ecclesiastiche (tra cui il cardinal Fossati).
Ad ulteriore suggello di quello che sarà chiamato «Maggio di sangue», appena due giorni dopo giungevano in valle quarantuno prigionieri prelevati dalle carceri torinesi. Si trattava di partigiani (appartenenti a bande della zona ma anche del Canavese o della Val Chisone) catturati nel corso di precedenti rastrellamenti. Verranno tutti fucilati. Significativamente, però, a differenza di quanto avvenuto a Forno, l’esecuzione non avverrà in una sola località ma in quattro posti diversi così da ottenere maggiore efficacia deterrente soprattutto nei confronti della popolazione.
Andrea Mortara, Guerra e Resistenza. Tra memoria e rappresentazione. Il caso di Coazze, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2011-2012, qui ripresa da La Resistenza in Val Sangone