Nei primi giorni di giugno i partigiani liberano tutti i paesi intorno a Montefiorino

Montefiorino (MO) – Fonte: Mapio.net

Montefiorino è un comune delle montagne modenesi, in un comprensorio che include le valli Dolo, Dragone e Secchia. Aveva 4500 abitanti, in base al censimento del 1936. Nel giugno del 1944 divenne la capitale di un territorio libero che includeva anche i comuni di Frassinoro, Ligonchio, Piandelagotti, Prignano sulla Secchia, Palagano, Polinago, in territorio modenese; Baiso, Ceredolo, Toano, Villa Minozzo in territorio reggiano; cioè un’area di circa 1.200 chilometri quadrati con 50.000 abitanti. Si tratta di un territorio fertile, con un’agricoltura molto sviluppata che produce soprattutto grano. Vi è anche un notevole patrimonio zootecnico e una fiorente industria casearia. Le comunicazioni contano su una fitta rete di strade, mentre l’energia è fornita da due centrali elettriche della zona.
Allo scoccare dell’armistizio, l’8 settembre 1943, gli allievi ufficiali della Scuola Militare di Modena si trovavano al campo estivo su quelle montagne; in mancanza di ordini, i militari si disperdono abbandonando le armi, che vengono subito recuperate dalla popolazione.
Nella zona operavano la I Divisione Garibaldi al comando di Mario Ricci, “Armando”, con Osvaldo Poppi, “Davide” come commissario politico. Una delle brigate di questa formazione era comandata da una giovane donna, Norma Barbolini, che alla fine della guerra ebbe il grado di capitano dell’esercito italiano.
Una formazione cattolica aveva sede a Fontanaluccia, frazione di Frassinoro, ed era comandata da Ermanno Gorrieri, che dopo la guerra sarà giornalista, politico della Democrazia Cristiana e sull’esperienza di Montefiorino scriverà un libro. Nella zona di Monchio operava poi una formazione di Giustizia e Libertà al comando dello studente universitario Mario Allegretti, ucciso in combattimento con i tedeschi. Vi era poi il “battaglione sovietico d’assalto”, composto da circa 200 prigionieri russi fuggiti dai campi di prigionia italiani, sotto il comando del russo Vladimir Pereladov, di Mosca. Un’altra piccola unità era composta da disertori dell’esercito germanico, mentre un altro gruppo di combattenti comprendeva jugoslavi, francesi, belgi, polacchi, cecoslovacchi, sudafricani e altri, fuggiti dai campi di internamento in Italia. Nell’estate del 1944 le formazioni partigiane avevano raggiunto la cifra di 5.000 uomini.
Dopo la strage di Monchio, dove i tedeschi uccisero 136 persone e distrussero 150 case, i fascisti avevano lasciato a Montefiorino un presidio di un centinaio di uomini della Guardia Nazionale Repubblicana, installati all’interno della poderosa Rocca medievale. Il territorio, a ridosso della linea di difesa tedesca, aveva un valore strategico altissimo, e di ciò si resero conto anche i comandi alleati, i quali non fecero mancare il loro appoggio alle formazioni partigiane, con lanci quasi giornalieri di armi leggere, viveri e abbigliamento.
All’inizio dell’estate parte una grande offensiva partigiana, con un’azione concordata e tempestiva, che investe dapprima i ponti sulle strade di accesso alla zona per impedire l’uso dei mezzi motorizzati, isolando i presidi nazifascisti sulle montagne. Nei primi giorni di giugno i partigiani liberano tutti i paesi intorno, ma Montefiorino con la sua Rocca continua a resistere. Alle brigate garibaldine condotte da “Armando” si unisce il battaglione sovietico d’assalto e insieme hanno ragione della resistenza fascista. I nazifascisti perdono oltre 1.300 uomini, un gran numero di automezzi, armi e munizioni, e quattro autoblindo. Montefiorino è libera e il 18 giugno il comando partigiano si installa nella Rocca.
Molto presto si manifestano i primi contrasti fra le forze comuniste – numericamente soverchianti – e i gruppi democristiani. L’intransigenza dei garibaldini era dovuta al carattere violento e spietato imposto alla lotta dai fascisti e dai nazisti, oltre che alle necessità oggettive – a volte crudeli – della guerra partigiana. I democristiani tendevano invece a “umanizzare” la lotta, evitando gli spargimenti di sangue. I contrasti dovevano continuare e anzi accentuarsi con il tempo.
Il primo organismo civile, insediato il 13 di giugno, fu il Comitato comunale di Toano, che non venne eletto, ma nominato con un accordo fra il comando partigiano e gli esponenti locali. Il Comitato era composto dai rappresentanti delle varie frazioni del comune; non era del tutto autonomo, in quanto gli atti dovevano essere controfirmati dal Comando partigiano, ma era pur sempre una prima separazione fra comando militare e amministrazione civile.
Pochi giorni dopo, il 26 giugno, a Montefiorino si procede all’elezione del sindaco, dopo un comizio tenuto da Davide, il quale propone alla carica Teofilo Fontana, un vecchio antifascista. La proposta viene approvata per acclamazione. Per eleggere i rappresentanti delle frazioni viene richiesta la collaborazione dei parroci. Non esistono documenti sulle elezioni nelle frazioni, ma pare che siano state radunate le assemblee dei capi famiglia e che i nomi proposti dal Comando partigiano siano stati approvati per alzata di mano o per acclamazione. Lo stesso succede negli altri comuni.
Non ci fu però la formazione di un unico organo amministrativo civile che esercitasse la propria autorità su tutta la zona liberata. Ogni comune agì per conto proprio, con amministrazioni che avevano un certo grado di autonomia, ma non comprendevano tutte le forze politiche impegnate nella Resistenza, e soprattutto non erano coordinate fra loro.
Come nelle altre zone libere, la prima preoccupazione è per i rifornimenti e il controllo delle derrate alimentari
[…]
L’azione di polizia per garantire l’ordine pubblico e reprimere le scorribande di pretesi combattenti che commettevano furti e rapine, era affidata a speciali gruppi partigiani. Per evitare i giudizi sommari presso i comandi, viene costituito un tribunale, con un presidente, un pubblico ministero e due giudici; il difensore è il prete. Si procede a formulare un progetto di codice che definisce i reati politici e comuni e fissa le pene. Purtroppo tale tribunale non riuscirà a entrare in funzione, per la brevità dell’esperienza democratica. Viene anche organizzato il carcere, presso la locale caserma dei carabinieri, dove sono detenuti prigionieri tedeschi e fascisti, spie e partigiani colpevoli di furti o rapine.
Nella zona di Fontanaluccia viene attrezzato un piccolo ospedale, diretto dal dottor Luigi De Toffoli, che dispone di qualche decina di letti e perfino di una sala operatoria. Le medicine provenivano da un paio di farmacie della zona e dagli aviolanci degli Alleati. L’ospedale curava gratuitamente sia le formazioni partigiane che la popolazione civile. Per i partigiani feriti vennero predisposti anche infermerie distaccate e convalescenziari.
Le unità partigiane riescono anche ad organizzare una sartoria e una calzoleria per fabbricare e riparare scarpe, che sono notoriamente uno dei punti deboli dei rifornimenti.
A Montefiorino si trovano numerosi veicoli, ma manca il carburante. Nella zona però passa una conduttura di metano, che viene captata e fornisce circa ottanta bombole al giorno. Un garage e un’officina di riparazioni assicurano la corretta manutenzione dei veicoli.
In tutta la zona liberata il lavoro era febbrile e l’atmosfera di gioiosa libertà si nutriva della consapevolezza di operare per la costruzione di qualche cosa di nuovo, per il mondo di domani.
La posizione di forza e la sicurezza della zona libera si dimostra anche all’esterno: infatti il generale nazista Messerle inoltra al comando partigiano la proposta di un “patto di non aggressione”, garantendo di non effettuare alcuna azione di rastrellamento se i partigiani si impegnavano a non ostacolare il passaggio delle truppe tedesche. La proposta fu respinta.
Quanto agli Alleati, essi erano grandemente interessati alla crescente possibilità di sabotaggi e attacchi alle vie di comunicazione tedesche; vennero paracadutati tre ufficiali inglesi, di cui uno restò nella zona. Si progettò anche il lancio di un grosso contingente del ricostituito esercito italiano: è la rinata divisione Nembo, che doveva partire da Brindisi per sostenere i partigiani e rafforzare la zona. Alla fine di luglio vennero infatti paracadutati sei radiotelegrafisti e un ufficiale, e l’arrivo della divisione era previsto per la notte del 2 agosto. Troppo tardi. Alla fine di luglio inizia infatti il grande rastrellamento tedesco.
E’ una vera battaglia manovrata: i tedeschi concentrano su Montefiorino tre divisioni con artiglieria, mortai e lanciafiamme, un reparto corazzato, nonché due battaglioni della Guardia nazionale repubblicana. Divisi su tre colonne il 30 luglio attaccano rispettivamente da nord, da Carpineti e Sassuolo, e da sud, da Piandelagotti. Una classica manovra a tenaglia che doveva serrarsi su Montefiorino e imprigionare le formazioni partigiane. La battaglia dura quattro giorni; a Monte Falò il battaglione sovietico infligge un duro colpo ai reparti provenienti da Sassuolo e li costringe a segnare il passo. A Villa Minozzo si combatte casa per casa finché il paese è praticamente distrutto. A Monchio la popolazione – memore della strage – combatte compatta con forche, fucili da caccia, falci, in un furioso corpo a corpo col nemico.
La missione inglese però rifiuta di distribuire ai partigiani le armi e le munizioni accantonate in attesa dell’arrivo dei paracadutisti della Nembo. I partigiani resistono valorosamente, ma alla scarsità dei mezzi segue ben presto l’esaurimento delle scorte. Solo allora si decide il ripiegamento. Sul terreno restano 250 partigiani morti e 70 feriti, ma i nazifascisti pagano un altissimo prezzo per la loro vittoria: le loro perdite infatti ammontano a circa 2.000 uomini. La popolazione civile fugge e molti partigiani si disperdono, ma il grosso, diviso in piccoli gruppi, riesce a rifugiarsi in Toscana. La tenaglia non si è richiusa, la preda è sfuggita. La rabbia nazifascista si scarica sui paesi: Montefiorino e la sua Rocca, Piandelagotti, Toano, Villa Minozzo vengono incendiati, i pochi civili rimasti vengono deportati al campo di concentramento di Fossoli, e poi in Germania.
Già poche settimane dopo le formazioni partigiane rinascono. E anche la Repubblica cova sotto le ceneri degli incendi. Infatti la relazione scritta dal sindaco Teofilo Fontana in data 1 novembre 1944 informa che l’attività dell’amministrazione democratica è ripresa solo una settimana dopo l’incendio della sede comunale. Si sono ripresi i contatti gli uffici provinciali repubblicani per ottenere l’assegnazione di generi alimentari e di sussidi. Per dare veste burocratica corretta ai rapporti con le autorità fasciste di Modena, viene nominato Commissario prefettizio un agricoltore di Casola, Domenico Bertolai, che da parte sua non era affatto entusiasta della carica, e ci volle una forte opera di convincimento per fargliela accettare. E il vecchio antifascista e partigiano Teofilo Fontana verrà confermato sindaco di Montefiorino alle prime libere elezioni amministrative, dopo la guerra.
Redazione, Montefiorino, 1944 – Le Repubbliche Partigiane

La Repubblica di Montefiorino, sull’Appennino modenese, è istituita il 18 giugno 1944, e comprende, oltre al “comune-capitale”, altri sei paesi. Nell’area, le forze partigiane, sostenute dalla popolazione e dal clero, sono attive fin dall’autunno del 1943. Le bande scelgono presto di porsi sotto un comando unificato, riuscendo così a condurre una guerriglia efficace che, nel marzo 1944, garantisce loro il controllo dell’area. Nel giugno di quell’anno la Guardia Nazionale Repubblicana è costretta a ritirare i propri reparti dall’Appennino modenese-reggiano. I fascisti di Montefiorino si trovano, a quel punto, isolati e assediati dai partigiani, e sono costretti a cedere.
La Repubblica incarica i capifamiglia di Montefiorino di eleggere una giunta e un sindaco, che si insediano il 25 giugno. La stessa cosa accade in quasi tutti gli altri comuni (sul versante reggiano, però, Villa Minozzo e Ligonchio sono presto nuovamente sotto attacco da parte dei nazifascisti). Il tempo breve dell’esistenza della Repubblica non impedisce alla giunta di Montefiorino di introdurre provvedimenti importanti, come «quelli nel campo degli approvvigionamenti (denuncia e conferimento del bestiame, controllo della trebbiatura, distribuzione del grano), della produzione (riapertura dei caseifici, messa in opera di trebbiatrici, reperimento di carburante per l’agricoltura), delle imposte (revisione delle esenzioni tributarie, imposte di consumo), dei prezzi ([…] adeguati alle possibilità economiche della zona), dei sussidi ai bisognosi».
I partigiani della Repubblica proseguono con un’intensa attività di guerriglia, che colpisce le retrovie della linea Gotica e a un certo punto spinge i tedeschi a cercare un accordo. Le formazioni, tuttavia, non trattano, e ciò scatena la reazione. Montefiorino è attaccata dalla fine di luglio e, nonostante la disparità di forze, le formazioni si difendono accanitamente. Alla fine, però, sono costrette a sganciarsi, pur non rinunciando a combattere fino alla liberazione del territorio. La Repubblica crolla il 2 agosto 1944.
(fonte: L. Casali, Montefiorino, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006, pp. 509-512).
Redazione, La Repubblica di Montefiorino, toscano, 3 settembre 2016

All’ingresso della Rocca di Montefiorino è affissa una grande lapide con incise queste parole:
Il 18 giugno 1944 / vinto l’ultimo presidio fascista / questa rocca / assurse a simbolo
di libertà / Dalle vicine valli / dalle città dai campi di prigionia / a migliaia /
giovani ribelli alla tirannide / qui accorsero / ad unirsi ai montanari / impugnando
le stesse armi / per la libertà / la pace la giustizia / fra i popoli / perché cronaca e
sangue non siano solo bronzo / sulla pietra dei monti / ma storia / nel cuore delle
libere genti.
L’indicazione temporale è quella di un’unica data: il giorno in cui i partigiani occuparono la Rocca, allora presidio della Repubblica sociale, instaurando il proprio controllo su Montefiorino e la sua ampia area di pertinenza. L’assenza della data di conclusione di quell’esperienza su questo segno commemorativo induce ad alcune riflessioni.
La scelta sembra infatti sottendere l’intento politico di segnare una continuità tra quella prima esperienza amministrativa “libera”, nel senso di non più fascista, e la nuova gestione successiva alla liberazione. In questo senso fu emblematica la designazione, dopo le prime elezioni libere vinte dal Pci, di Teofilo Fontana come nuovo sindaco, che era stato nominato per quella stessa carica dalla Giunta popolare già nel giugno 1944. Ma potrebbe sussistere un’altra ipotesi sui motivi per cui a Montefiorino l’esperienza della repubblica partigiana venne immediatamente ricordata e celebrata nel dopoguerra <7.
La peculiare vicenda di Montefiorino unisce sia il caso di una “zona liberata” che di una “zona (lasciata) libera”.
L’esperienza della zona liberata dai partigiani il 18 giugno 1944, e amministrata direttamente, si concluse alla fine di luglio, con un duro rastrellamento nazista che portò alla dispersione dei vari gruppi di combattenti: una parte passò oltre il fronte per raggiungere gli alleati, una parte si disperse, la Rocca venne attaccata e incendiata.
Dopo una fase di difficoltà, nell’autunno si ricostituì una rete di gestione da parte del comando partigiano di matrice cattolica, mentre quel territorio perdeva man mano crucialità nella mappa del conflitto.
Nel 1966 Ermanno Gorrieri, allora esponente del mondo sindacale e politico cattolico ma soprattutto uno dei protagonisti di quella vicenda resistenziale, pubblicò un corposo volume sulla Repubblica di Montefiorino, che si proponeva «di ricostruire i fatti nella loro realtà, sul piano della fedeltà storica, al di là delle rappresentazioni oleografiche, proprie di troppi scritti sulla Resistenza» [Gorrieri 1966, 5].
L’analisi di Gorrieri, molto dettagliata ma anche molto dura rispetto all’iniziativa partigiana e alla frammentazione dei diversi gruppi e comandi, evidenziò anche la successiva fase della gestione democratica di quel territorio, definendola “seconda Repubblica di Montefiorino”:
“Il rastrellamento di luglio-agosto non aveva provocato la scomparsa delle Amministrazioni comunali nate durante la Repubblica di Montefiorino. Esse erano sopravvissute e avevano continuato a funzionare alla meglio, ciascuna per proprio conto, provvedendo alle attività essenziali nell’interesse delle popolazioni amministrate: prevalentemente, approvvigionamenti alimentari e assistenza” [Gorrieri 1966, 545].
Gorrieri descrive come per tutto l’inverno del 1944 e la primavera del 1945 il Comitato di liberazione nazionale per la montagna (Clnm), esercitò la propria influenza e opera di governo sui quattro comuni partigiani modenesi: Montefiorino, Frassinoro, Polinago e Prignano.
Secondo l’autore, mentre nella prima gestione partigiana del territorio la forma governativa non corrispose esattamente a una “repubblica” – l’autorità del comando partigiano rimase forte – in questa seconda fase funzionò, accanto al comando militare, anche un organo di governo civile [Gorrieri 1966, 545-566].
La sede principale di questa seconda gestione territoriale non si trovava più a Montefiorino, dove la Rocca era inagibile e probabilmente troppo “in vista” (anche sul piano del significato simbolico), ma nella località di Farneta, dove divenne operativo il tribunale e il comando centrale del nuovo corpo di polizia [Gorrieri 1966, 558].
Dopo la pubblicazione del volume di Gorrieri il suo punto di vista venne contestato, sollevando obiezioni relative a una lettura “di parte” dei fatti. In particolare, in un intervento al Convegno internazionale di Domodossola del 25-28 settembre 1969, Luigi Arbizzani e Luciano Casali negarono l’esistenza di una “seconda repubblica di Montefiorino”, partendo dal fatto che in quella fase si trattò non di “territorio libero partigiano” ma di zona lasciata libera [Arbizzani e Casali 1974].
Nell’appendice alla seconda edizione del proprio volume, Gorrieri esaminò e commentò la relazione dei due studiosi, i quali a loro volta replicarono [Arbizzani e Casali 1970].
In questo clima di acceso dibattito politico locale e, più ampiamente, di attenzione per il tema della repubbliche partigiane, nel 1970 il Comune di Montefiorino venne insignito della Medaglia d’oro al valor militare (la decorazione venne consegnata nel 1972) con la seguente motivazione: «Vessillifero della Resistenza fra numerosi comuni appenninici anticipava le libertà democratiche conquistando per primo a ‘Repubblica’ partigiana una vasta zona montana, sul tergo e a insidia di importante settore difensivo della linea gotica» <8.
[…] All’interno delle diverse narrazioni museali della Repubblica di Montefiorino vi è stata sempre una parte dedicata alle stragi di Monchio, Susano e Costrignano, avvenute il 18 marzo 1944. Questa drammatica vicenda occupa infatti un ruolo importante sia per la reazione che suscitò nelle diverse compagnie di partigiani della zona, che, dopo quei fatti, rinsaldarono il proprio legame con il territorio, sia per la costruzione memoriale negli anni successivi alla fine del conflitto.
L’attacco nazifascista scattò in conseguenza ad alcuni scontri avvenuti nella seconda settimana di marzo tra partigiani, Guardia nazionale repubblicana (Gnr) e, successivamente, tedeschi. La miccia di quegli scontri era stato il bando di arruolamento che prevedeva la pena di morte per i renitenti.
All’alba del 18 marzo 1944 iniziò un lancio di bombe dagli spalti della Rocca di Montefiorino, allora sede della Gnr, diretti contro i nuclei abitativi posti sul versante opposto. Questa operazione spinse la popolazione, impossibilitata a fuggire lontano, a nascondersi nelle cantine o a trovare riparo nei boschi: all’arrivo delle truppe tedesche – formate in parte dalla gendarmeria, in parte da compagnie della divisione “Hermann Göring” – iniziò un durissimo rastrellamento in cui vennero uccisi soprattutto gli uomini, ma in certi casi intere famiglie, comprese le donne e i bambini di pochi anni, incendiate le case, razziati o abbattuti i capi di bestiame, colpendo duramente le tre frazioni <9. Se l’obiettivo di questa operazione era stato quello di togliere l’appoggio della popolazione ai partigiani, ottenne in realtà la reazione opposta: dopo un primo momento di crisi, le forze partigiane locali ripresero i combattimenti, spinte anche dal desiderio di vendicare «l’insensatezza e le proporzioni del massacro» [Fantozzi 2006, 437].
Non va però dimenticato il difficile rapporto tra la popolazione della montagna e i partigiani: le azioni di guerriglia esponevano gli abitanti alle conseguenze, spesso terribili. Nel caso delle stragi del 18 marzo bisogna tuttavia sottolineare l’assenza di precedenti noti di rappresaglia: si tratta di una “precoce” strage di civili, dato che l’eccidio delle Fosse Ardeatine avvenne il 24 marzo ed erano ancora lontani i drammatici rastrellamenti dell’estate e dell’autunno 1944 in Versilia e nell’appennino tosco-emiliano <10.
Dopo la fine del conflitto la strage venne dimenticata, rimanendo viva solo nella dimensione privata della comunità colpita.
Montefiorino restò il comune di afferenza della frazione di Monchio: mentre la memoria della Repubblica assunse un forte rilievo, anche a livello nazionale, quella della strage rimase a lungo un fatto poco più che familiare e comunitario.
[…] La vicenda delle stragi di Monchio, Susano e Costrignano appare profondamente legata a quella della repubblica di Montefiorino sia dal punto di vista storico che nella costruzione memoriale.
Per alcuni decenni la memoria dei fatti della Resistenza ha catalizzato l’attenzione ufficiale, pubblica, storiografica, mentre il ricordo della strage non è riuscito a travalicare la dimensione privata. Questo aspetto riproduce una dinamica memoriale diffusa: ad esempio, è stato dibattuto e approfondito il caso della memoria della strage di Monte Sole, in cui la dimensione dell’attacco ai civili è stata assimilata e “assorbita”, nella retorica ufficiale, alla lotta partigiana [Baldissara e Pezzino 2009; Ventura 2016].
La consapevolezza della natura di attacco alla popolazione (prevalentemente uomini nel caso di Monchio, ma altrove, come a Monte Sole e a Sant’Anna di Stazzema, anche e soprattutto donne, bambini, anziani) spesso è maturata solo dopo i processi, avvenuti a grande distanza dai fatti a causa dell’“archiviazione provvisoria” dei fascicoli giudiziari a Palazzo Cesi, occultati e ritrovati solo nel 1995 (nel cosiddetto “armadio della vergogna”) [Giustolisi 2004; Buzzelli, De Paolis e Speranzoni 2012; Speranzoni 2014].
Il caso di Monchio è peculiare anche da questo punto di vista: la sua conoscenza era labile già nell’immediato dopoguerra, quando vennero raccolti i materiali relativi all’indagine. Poche e scarne notizie, in cui persino la localizzazione della frazione “Monchio” destava problemi [Fantozzi 2006, 429-432]. Il procedimento per i fatti del 18 marzo 1944 si è infine aperto nel 2005, arrivando a sentenza nel luglio 2011 con la condanna all’ergastolo per sei ex militari nazisti, ribadita in Cassazione. Tuttavia, in questo caso come in tutti quelli analoghi, la sentenza è rimasta inapplicata a causa della scelta, da parte della Germania, di non concedere l’estradizione né i risarcimenti alle vittime <11. D’altra parte, questo processo, come quelli relativi ad analoghi casi di stragi nazifasciste, ha avuto un importante ruolo nella costruzione della consapevolezza da parte delle vittime di avere subito violenza: un “risarcimento” morale il cui significato personale e sociale non deve essere sottovalutato. Alle vittime, infatti, spesso viene chiesto di concedere il proprio perdono prima ancora che i colpevoli dimostrino di avere compreso la propria colpa [Baldissara e Pezzino (eds.) 2004; Id. (eds.) 2005]. Questo cortocircuito si può vedere anche nel caso delle stragi del 18 marzo 1944, per le quali la retorica politica ha costruito una narrazione “sacrificale” (il sacrificio delle popolazioni locali in nome della guerra partigiana) e quella ecclesiale, invece, una sublimazione volta al perdono (inneggiando alla fratellanza e all’amore fra i popoli). Dall’iconografia della Pietà per evocare la guerra e la Resistenza, si è passati all’immagine del Cristo redentore: ma se le madri, in questa guerra, sono morte quanto e come i figli, quel Cristo ha le braccia rivolte al cielo, più che in un abbraccio verso gli uomini. L’esperienza della guerra – e della violenza – moderna travalica i canoni iconografici tradizionali.
[NOTE]
7 Tuttavia, questo avvenne non senza tensioni, causate dalla divisioni politiche, come testimoniato dall’episodio avvenuto in occasione del decennale. Le celebrazioni furono promosse solo dall’Anpi: il Comune di Montefiorino, allora amministrato dalla Democrazia cristiana, non permise l’ingresso all’interno della Rocca per la deposizione delle corone di fiori, facendo trovare il portone chiuso [Silingardi 2009, 176].
8 Il testo integrale è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, del 15 maggio 1970.
9 Per un approfondimento si vedano Alberghi 1969; Fantozzi 2006. Per una riflessione sul rapporto tra popolazione e combattenti, e sull’evoluzione di questo stesso rapporto, cfr. Rovatti 2009. Alle stragi in area modenese seguì, il 20 marzo, la strage di Cervarolo, frazione in territorio reggiano.
10 Il complesso rapporto tra partigiani e popolazione civile si riverbera sulle memorie dei fatti. In molti casi si delineano “memorie divise”, che vanno analizzate puntualmente, approfondendo contesti e relazioni esistenti in quel dato territorio. Gli storici, soprattutto a partire dagli anni Novanta, hanno affrontato le difficili memorie delle stragi, con particolare attenzione per i casi toscani: cfr. Battini e Pezzino 1997; su Sant’Anna di Stazzema, Rovatti 2004, Pezzino 2008, Di Pasquale 2010; su Civitella, Paggi (ed.) 1996, Contini 1997; su Guardistallo, Pezzino 1997; sul peculiare caso di San Miniato, Paggi (ed.) 2005. Più in generale si veda Paggi (ed.) 1999, Id. 2009. Per il caso Monte Sole/Marzabotto, si veda oltre. L’analisi dei fatti ha fatto emergere come le operazioni tedesche fossero spesso indipendenti dagli interventi e dall’aggressività dei partigiani presenti, e dettate prevalentemente da azioni di “pulizia del territorio” o di ritirata aggressiva. Il progetto dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste (www.straginazifasciste.it), curato da Anpi e Insmli e recentemente andato in rete, mostra come il numero di queste azioni sia estremamente alto, delineando un modus operandi bellico.
Elena Pirazzoli, I due versanti della memoria. La repubblica di Montefiorino e la strage di Monchio in «Il paradosso dello Stato nello Stato». Realtà e rappresentazione delle zone libere partigiane in Emilia Romagna, (a cura di Roberta Mira, Toni Rovatti), E-Review Dossier 3, 2015

Tra il luglio e l’agosto del 1944, mentre gli Alleati ancora avanzavano, lasciando sperare in una totale liberazione dell’Italia, la Resistenza intensificò la sua attività, e nella zona di Montefiorino, in Emilia, sostenne contro i tedeschi quella che può essere definita una battaglia campale di tipo classico. Alle spalle della linea gotica, sulle propaggini dell’Appennino, i partigiani presidiarono in quell’area (tra le province di Reggio e di Modena) un territorio di cinquanta chilometri per ottanta: e i tedeschi impegnati a fondo contro gli anglo-americani ne erano così allarmati che nella seconda metà di luglio proposero alle forze ribelli, comandate da un contadino improvvisatosi capo militare, Armando Ricci, una tregua. Fu promessa la sospensione dei rastrellamenti e la liberazione degli ostaggi, a patto che i partigiani interrompessero la loro attività. Ricci respinse il documento del generale Messerle che a fine mese lanciò, con effettivi secondo il Battaglia equivalenti a tre divisioni, la sua offensiva. I partigiani, che erano stati abbondantemente riforniti con aviolanci alleati, combatterono bravamente ma non furono in grado di bloccare l’attacco. Riuscirono tuttavia a ripiegare ordinatamente in una «zona di salvezza» montana. Le perdite furono pesanti da entrambe le parti, con qualche centinaio di morti.
A Montefiorino era stata creata, per il tempo in cui la zona fu sgombra dai tedeschi, una mini repubblica, con ordinamenti embrionali.
Indro Montanelli – Mario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983