
Il caso dell’Agnese va a morire, invece, diverso ma quasi contemporaneo, mette in luce altri aspetti del lavoro editoriale e della scrittura di Ginzburg. È noto come la scoperta del romanzo sia avvenuta quasi per caso:
“Cara Signorina Viganò,
il Suo romanzo, l’Agnese va a morire, è molto bello. Il dattiloscritto era sul mio tavolo da un pezzo, senza nessuna lettera accompagnatoria: io avevo un mucchio di manoscritti, ed ho pescato su a caso il Suo dal mucchio. Un bel romanzo. Tra i migliori romanzi partigiani che ho letto” <274.
S’instaura presto un rapporto di vicinanza tra le due autrici, che si esprime in un costante scambio epistolare nei mesi successivi, fondato su un’affinità di scrittura che trova le sue radici in esperienze biografiche e politiche <275 simili, come non mancava di farle notare Viganò: “Io già conoscevo lei, signora, come scrittrice da prima della guerra, quando era ancora “Antonietta Torninparte” [sic], e dopo, per È stato così. Perciò tengo tanto al suo giudizio, anche per una certa, direi, affinità, che ho sempre sentito leggendo i suoi libri. Di me è presto detto. Ho quarantotto anni. […] Nel 1936 ho sposato un comunista, da poco uscito di carcere per una condanna del Tribunale speciale, e per molto tempo la nostra vita fu piuttosto dura, difficile. Abbiamo un bambino che ora ha undici anni. Nel 1943 entrammo nell’illegalità, e per tutto il tempo della lotta clandestina io e il bambino abbiamo seguito mio marito, comandante partigiano nelle diverse brigate cui egli ha appartenuto nell’Emilia e Romagna. Siamo stati lunghi mesi, fino alla liberazione, nelle Valli di Argenta e Comacchio, dove ho raccolto le esperienze che poi mi hanno permesso di scrivere il mio libro. I personaggi infatti sono, ognuno, la somma di diverse persone e caratteri riuniti, ma i fatti sono autentici” <276.
Proprio sulla veridicità del punto di vista attraverso cui i fatti sono narrati, oltre che su quegli aspetti stilistici che contribuiscono a creare l’affinità riconosciuta da Viganò, si sofferma il parere di lettura di Natalia:
“Renata Viganò – L’Agnese va a morire
Un bellissimo romanzo partigiano. Magnifico stile misurato, sobrio, magnifici effetti di paesaggio. Tra i migliori libri sulla resistenza che si possano leggere.
È la storia di una staffetta partigiana, una contadina; i tedeschi le portano via il marito, lei ammazza un soldato tedesco e va coi partigiani. Alla fine viene uccisa.
La resistenza è vista proprio con gli occhi dei contadini. Da farsi. Da farsi. Da farsi”. <277
Sul parere di lettura, inoltre, è presente un’aggiunta manoscritta nella calligrafia di Pavese, «A Vittorini», che è stata cassata: quello di Viganò è forse l’unico caso, infatti, in cui Ginzburg non chiede un confronto con il parere di Vittorini; «Parere che del resto ha sempre richiesto» nota Einaudi «fatta eccezione per L’Agnese va a morire dove la scoperta era troppo bella perché Natalia non volesse farsene un merito esclusivo» <278.
[NOTE]
274 AE, Viganò, Renata. Ginzburg a Viganò, 27 ottobre 1948. La lettera appare in diversi studi, tra cui Mangoni 1999, p. 448.
275 L’aspetto politico è particolarmente sottolineato da Viganò nelle lettere successive: «Cara compagna» scrive a Natalia «dopo quanto mi ha riferito il compagno Pistillo di ritorno da Torino: “Natalia Ginzburg è una vera comunista, tratta semplicemente con affetto e fraternità”, mi permetto lasciare il tono cerimonioso ed assumere quello più semplice, da compagni, il rapporto del nostro partito […]» (AE, Viganò, Renata. Viganò a Ginzburg, 2 luglio 1949).
276 AE, Viganò, Renata. Viganò a Ginzburg, 31 ottobre 1948.
277 Sottolineato tre volte. AE, Viganò, Renata. Parere di lettura di NG su L’Agnese va a morire di Renata Viganò, s.d. [ma ottobre 1948]. Una parte in Mangoni 1999, p. 448.
278 Einaudi a Vittorini, 28 ottobre 1948, in Mangoni 1999, pp. 449-450.
Giulia Bassi, «Con assoluta sincerità». Il lavoro editoriale di Natalia Ginzburg (1943-1952), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Siena, Anno Accademico 2021-2022
[…] L’Agnese va a morire è diviso in tre parti e queste, a loro volta, in capitoli la cui lunghezza media è di una decina di pagine, talora con frequenti spezzature interne la cui funzione è quella di accorciare il racconto per evitare particolari non interessanti. Si ha talora l’impressione di trovarsi davanti a una serie di racconti, nonostante che vi sia lo svolgimento di una storia e che l’opera debba essere letta nella sua completezza.
Sul piano formale si osserva che la descrizione sembra predominare sulla narrazione; le parti narrative prevalgono, quantitativamente, su quelle dialogate; le battute del dialogo sono brevissime, spesso sostituite da gesti (come nella frase seguente: «Tom disse – lascia andare, tanto… e fece un piccolo segno rapido colla mano»); è più frequente il commento del dialogo («Andarono via il Comandante, Clinto e Tom; “in borghese” disse il Cino, come quella volta della spia. Avvertirono di non aspettarlo fino al giorno dopo. Tutti i partigiani furono subito inquieti e curiosi. Vanno a prelevare qualcuno, – dicevano – si scava una buca»).
Una delle caratteristiche costanti dello stile della Viganò è l’uso di frasi molto brevi, al fine di creare un effetto di realismo, che sono più frequenti alla fine dei capitoli e dei paragrafi. Ci si chiede il motivo di tale posizione di privilegio riservata alla notazione oggettiva. Ciò che gli intellettuali avevano sempre interpretato attraverso un registro alto – le azioni eroiche compiute da gente semplice, durante la Resistenza – si scopriva ora nella sua reale radice di quotidianità: nel romanzo, le frasi semplici e oggettive, si trovano spesso nel momento della massima tensione drammatica: «Agnese riuscì a stento, per la distanza, a compitare la parola in grande sul cartello dell’impiccato. C’era scritto partigiano». Si crea, quindi, un divario tra la brevità della scrittura e la grandezza della passione che veicola. Trascrivendo l’eroismo in azioni puramente fisiche si suggerisce che dietro la semplicità di quelle azioni stanno valori assai più nobili: «Agnese finì che era già notte. In casa aveva il fuoco spento, non ebbe voglia di accenderlo. Andò a letto così, con un piatto di minestra fredda per cena. All’alba le mani le facevano ancora male».
I momenti più patetici sono inoltre volutamente accostati a quelli di pù concreta prosaicità: «Cominciò a piangere e le lacrime cadevano sulle cucchiaiate piene» (Agnese sta mangiando).
Altra costante stilistica del testo è l’uso di frasi ricche di parallelismi e di ripetizioni, poiché l’autrice parte anche qui da un’esigenza realistica, che è quella della precisione descrittiva, dell’elenco: «Di giorno i partigiani dormivano, mangiavano si distendevano al sole. Il sole era sempre su di loro bruciava la schiena, anneriva la faccia, pesava come un carico sulle spalle. La terra, le canne la legna secca si riempivano di calore si sentiva allora l’odore morto degli stagni, odore di muri marci, di stracci bagnati, di muffa, come nelle case dei poveri».
Sul piano linguistico (qui, secondo Battistini, non nel sostrato ideologico sta l’assoluta originalità) la Viganò rifiuta l’enfasi oratoria del ventennio fascista e la sua retorica e propone un lessico povero con una doppia finalità: da un lato rendere accessibile il romanzo a strati più vasti di lettori, e dall’altro evidenziare come i protagonisti della Resistenza appartengano alle classi subalterne. L’autrice utilizza il registro del parlato-informale, con solo qualche voce dialettale (cicchetto, boccione di vino, balle, Pippo), per non far perdere al lettore il valore nazionale della guerra di Liberazione. È la lingua quotidiana con un’unica concessione al dialetto nei nomi dei partigiani, Magòn, Cappùcc, Piròn, l’Agnese (con l’articolo), per rafforzare il momento di unione, di solidarietà. Di questo ultimo aspetto una controprova è data dal fatto che i fascisti non hanno mai nome, non sono degni di passare alla storia.
Andrea Battistini propone, in uno dei pochi studi critici su L’Agnese va a morire, un’analisi stilistica molto approfondita, ricca di spunti interessanti soprattutto dal punto di vista didattico. Si può infatti notare come l’uso che la Viganò compie della similitudine non sia quello di fornire «neutre descrizioni o vivaci tocchi espressionistici ma esse rivestono un valore argomentativo, implicito nella scelta del secondo termine di paragone». L’autrice utilizza i termini grandine, tuono, tempo nero, per indicare gli spazi tedeschi, il fronte della guerra (Manzoni nei Promessi sposi riferiva gli stessi alla folla quando assale la casa del Vicario). E ancora usa rimpicciolire il senso del concetto con una figura che trova negli animali somiglianza più efficace (e ci ricorda la poetica pascoliana del fanciullino). I fascisti sono seccanti, noiosi come mosche; la folla anonima è come un branco di pecore; il ricco possidente è avaro come una formica; l’orrore dei combattimenti è guerra di talpe.
La lingua, in sintesi, può apparire dimessa, ma in realtà lo stile è sapientemente orchestrato a mostrare come la lotta partigiana del mondo contadino non abbia bisogno di molte spiegazioni: è un evento naturale, ineluttabile.
[…] La figura di Agnese assume talvolta un ruolo simbolico: è il caso del ruolo materno che le viene per esempio attribuito nei confronti di Palita, il marito («Palita era ardito e pareva molto più giovane, tanto che il dottore credette che lui fosse la mamma»).Un’ulteriore e interessante interpretazione della funzione di Agnese viene proposta da Sebastiano Vassalli, per il quale la donna, nell’assistere i partigiani, fa per loro tutto ciò che farebbe una buona madre; ma non è madre e forse non è nemmeno buona. Lo sarebbe senz’altro se non ci fosse l’idea di assorbire tutte le sue energie, a renderla quasi incapace di affetti. Però non è neppure cattiva: anche nel momento culminante del dramma, l’uccisione del tedesco, non è tanto l’ira a spingerla, quanto piuttosto la certezza che così deve avvenire.
Se si prosegue nell’itinerario di decodifica del testo secondo reticoli simbolici, dando cioè valore simbolico a dati apparentemente realistici, si possono fare altri esempi: la linea interpretativa Agnese-madre consente di individuare altre contiguità: la protagonista è costantemente accompagnata da immagini di terra e di acqua. A partire dal mestiere che svolge, la lavandaia, fino alle scene in bicicletta attraverso la campagna sotto la pioggia. L’Agnese comincia poi a rassomigliare alla terra e all’acqua: «Le fissava i piedi: erano scuri e deformi con le dita tutte a nodi e storte, sembravano le radici scoperte di un vecchio albero». Viceversa, l’acqua sembra favorire la somiglianza assumendo caratteristiche umane: «L’avanzata dell’acqua era lenta, annegava dolcemente il terreno, sommergeva con pazienza i campi bruni già seminati a grano, s’introduceva con curiosità nelle case vuote». La valle è il luogo che nel romanzo unifica acqua e terra, una zona intermedia, una sorta di palude nella quale i partigiani combattono la loro lotta; la stessa Agnese si identifica con la valle: «ora stava meglio, respirava nel fresco dell’acqua come la valle».
L’Agnese non è, inoltre, solo la protagonista del romanzo ma è soggetto e oggetto del sacrificio, reale sotto certi punti di vista ma disumana nella sua grandezza, per la sua capacità, spinta fino all’assoluto, di annullarsi nei fatti, nelle vicende. Si veda l’epilogo del libro preparato – come una messa a fuoco – dalle conclusioni della prima e della seconda parte.
[…] Una prima analisi del romanzo potrebbe anche concludersi qui, tuttavia è possibile aprire un altro terreno di indagine e rileggere oggi L’Agnese sulla base di nuovi strumenti di conoscenza; si pensi a quel filone di ricerca che, a partire dalla fine degli anni ’70, dagli studi sulla storia delle donne della Resistenza si intreccia alla storia di genere e del femminismo. E questo per alcuni buoni motivi: perché la protagonista è l’Agnese, partigiana; per l’unanime riconoscimento attribuito alla Viganò per la sua attività di scrittura unita a un’intensa attività politica; per quel tanto di non detto che riguarda la presenza femminile nella Resistenza.
Oggi con la storia orale, con il recupero della memoria, con l’apporto di Istituti della Resistenza e di associazioni di storiche si sono avviati studi e approfondimenti in questa direzione. Le ricerche sono comunque in buona parte ancora in itinere; alcune di loro ci offrono comunque spunti interessanti di riflessione, per esempio Ernesto Galli della Loggia ritiene che, sullo sfondo del conflitto con regimi costruiti sul mito della virilità, si sviluppi un’immagine della seconda guerra mondiale come guerra “femminile” di contro al carattere maschile e mono-sessuale della prima, e questo proprio a partire dai gruppi clandestini e della lotta partigiana, dove vicinanza e familiarità favoriscono valori e comportamenti libertari ed egualitari nel rapporto uomo-donna.
È indubbio infatti che la guerra fu un evento totale che impegnò a fondo la quotidianità di ciascuno; è da questa demilitarizzazione del confronto bellico che trae origine il carattere “femminile” della seconda guerra mondiale.
Su questa presenza ci sono però molti vuoti, c’è un vasto non detto e soprattutto non pensato. Sarebbe importante affrontare storicamente e politicamente lo studio delle presenze femminili, analizzare per esempio in profondità l’esperienza estrema delle partigiane inserite nel microcosmo della banda o costrette alla clandestinità o nel rapporto con altre donne partecipi del clima eccezionale della guerra di Liberazione. Valga solo un esempio: quello relativo alla tendenza all’asessualità delle donne della brigata, che rendeva possibile la convivenza in un collettivo prevalentemente maschile, ne favoriva il clima di amore fraterno dovuto alla particolarità del momento. Queste presenze inquietano, giovani donne mischiate ai maschi nelle formazioni sfidano troppe ideologie sul femminile, a partire da quella relativa al rapporto donne-armi; e non è certo un caso che, finita l’emergenza, vengano messe ai margini. Così come non è casuale che la partigiana ideale, il modello della resistenza femminile sia la protagonista de L’Agnese va a morire, ossia una donna informe, materna e in età.
Per molte partigiane, comunque, il ritorno alla normalità, dopo il 1945, fu difficile, e non solo per la delusione politica. Nell’esperienza fatta si erano varcati i confini della famiglia e del paese, superati i limiti del proprio sesso, delle condizioni date. Infatti, come scrisse in una sua poesia Renata Viganò, per entrare nella Resistenza occorreva uscire «fuori della vita».
Maurizia Morini, Renata Viganò, L’Agnese va a morire (1949), La Clé des Langues, ottobre 2007