Nelle Marche la Resistenza nasce per il convergere in un comune obiettivo di alcune realtà diverse tra loro

Ancona – Fonte: Mapio.net

La guerra, che si prolunga dal 1940 e sembra non finire mai, tra la primavera e l’estate del 1944 comincia a dare segnali evidenti che si è intrapresa la strada che può portare al compimento della tragedia e alla vittoria sul fascismo e sul nazismo. Lo sbarco in Normandia ha riacceso grandi speranze e altri fronti in Europa e nel mondo sembrano confermare che questa volta le attese della fine possano ragionevolmente realizzarsi. Anche la campagna d’Italia, una volta superato il durissimo scoglio della linea Gustav sembra promettere un favorevole esito non tanto lontano.
Ai primi di giugno del 1944 il II Corpo d’armata polacco è fermo intorno a Campobasso a “leccarsi le ferite” dopo le gravi perdite subite a Montecassino. Poi arriva l’ordine del maresciallo Alexander che sposta la divisione indiana sul fronte occidentale e indica ai polacchi l’assunzione del comando sul settore adriatico al posto del V Corpo britannico. L’obiettivo è ora quello di conquistare il porto d’Ancona, punto strategico di fondamentale importanza, soprattutto per accorciare le linee di comunicazione alleate e per rifornire più facilmente le truppe al fronte.
Le forze in campo sono costituite da circa 43.000 soldati polacchi, ben armati e addestrati, comandati dal generale Wladislaw Anders, un reggimento corazzato britannico (il VII reggimento Ussari), 25.000 italiani comandati dal generale Umberto Utili che formano il CIL (Corpo Italiano di Liberazione) e circa 400 partigiani della “Maiella”, comandati da Ettore Troilo. Dal canto loro i tedeschi possono difendersi con due divisioni di fanteria, prive di copertura aerea e di carri armati, ma dotati di una efficace artiglieria e di cannoni d’assalto.
La guerra sul fronte adriatico si concentra nei mesi estivi e vede pian piano liberato quasi tutto il territorio marchigiano con numerosi scontri sanguinosi e un ingente numero di morti. Inoltre l’avanzata procede lentamente per l’accanita resistenza tedesca, per le demolizioni operate dai genieri e dalle numerose mine lasciate sul terreno.
Nella provincia di Ancona, dopo i primi scontri all’inizio di luglio, che partono dalla conquista di Loreto per condurre nei giorni successivi gli alleati alle posizioni dominanti di Castelfidardo, Filottrano, Osimo, Cingoli (prima battaglia di Ancona), si arriva allo scontro decisivo per l’occupazione della città dorica. Due attacchi pressoché simultanei e particolarmente cruenti, all’alba del 17 luglio, portano allo sfondamento della linea Monte della Crescia, Polverigi, Agugliano (seconda battaglia di Ancona). Il giorno seguente le truppe polacche entrano in Ancona.
Ora la guerra si sposterà più a nord con la liberazione di Pesaro (il 2 settembre) e con il blocco sulla Linea Gotica.
La liberazione delle Marche è opera delle truppe alleate, ma anche del determinante apporto del ricostituito esercito nel CIL, che non lesina un apporto rilevante alle vittorie alleate, pur con gravi limiti soggettivi (inadeguatezza di molti ufficiali) e oggettivi (scarsità di mezzi). E non va dimenticato che dopo la liberazione di Ancona numerosi partigiani, costretti a deporre le armi, continuarono a combattere nel CIL, in particolare in Emilia e in Romagna.
Non marginale è il contributo dei partigiani, sia locali che abruzzesi, come quelli della brigata “Maiella“. L’impegno instancabile (senza soste e senza ricambi) di questi ultimi, soprattutto nell’avanzata all’interno della regione, nella zona collinare, è decisivo. Esemplare il caso della difesa di Montecarotto, dove ottengono un importane successo dopo una tenace resistenza. Come strategicamente importanti furono la conquista di città come Arcevia e Pesaro.
Ma la guerra ai tedeschi gli italiani l’avevano cominciata più di dieci mesi prima, subito dopo l’8 settembre. Questa data infatti, se segna la morte della patria fascista, segna l’inizio del riscatto di quella democratica.
Anche nelle Marche nasce la Resistenza, anzi si può dire, senza esagerata enfasi, la Resistenza nasce nelle Marche. Dopo l’8 settembre del 1943 in Italia non ci fu solo lo scontro a Porta San Paolo a Roma, ma anche la tenace resistenza di militari al Colle San Marco sopra Ascoli Piceno.
Come poi ha scritto Roberto Battaglia nella sua celebre e pionieristica storia della Resistenza italiana questa regione fu il centro principale della Resistenza nell’Italia centrale nei primi mesi del ’44, specialmente dopo che era fallito nel suo obiettivo immediato lo sbarco anglo-americano ad Anzio (22 gennaio).
Se poi non sarà determinante (e come avrebbe potuto esserlo) nello scontro finale a ridosso della liberazione, la Resistenza lo sarà nella continua azione di guerriglia nelle retrovie del fronte. In particolare i partigiani rendevano insicure le vie di comunicazione, strade e ferrovie, essenziali per i movimenti dell’esercito tedesco. I nazisti, non potendo contare più di tanto sul rinato fascismo, ora repubblicano, ormai privo di consenso e di appoggio da parte delle popolazioni locali, furono costretti a impegnare diverse divisioni per cercare di annullarne gli effetti e, in fin dei conti, con scarsi successi.
Inoltre in alcuni scontri armati (vere e proprie battaglie) i partigiani, pur in inferiorità numerica e meno dotati di armi, riuscirono a infliggere delle sconfitte ai tedeschi. Tra queste si possono menzionare le vittorie di Cantiano, in provincia di Pesaro, il 25 marzo e di Monastero, in provincia di Macerata, il 13 maggio.
Esemplare poi il caso di Chigiano, tra il Monte San Vicino e Cingoli, dove il 24 marzo, con una sola mitragliatrice (quella prelevata il 2 febbraio nell’assalto al treno nella stazione di Albacina, a opera dei partigiani dei gruppi “Lupo” e “Piero”), si riuscì a rendere efficace il convergere di tre formazioni partigiane da posizioni diverse e in momenti diversi. Una vittoria che resta tra le più significative della guerra nell’Italia centrale.
Questo successo rese meno drammatica la fase dei rastrellamenti tedeschi, superata la quale, dal mese di giugno, con l’accordo tra tutte le componenti della resistenza e la formazione della brigata “Spartaco” e della brigata “Ancona”, si ebbe finalmente un’efficiente organizzazione militare con un accresciuto numero di combattenti. Urbino e Pesaro, ultime città importanti della regione a essere liberate, vedranno l’apporto tutt’altro che marginale delle brigate “Bruno Lugli” e “Pesaro”, pur essendo quest’ultima stata costretta dagli inglesi a disarmare proprio nei giorni precedenti la liberazione.
Ma tutto questo all’inizio non era affatto scontato, non c’erano le armi e soprattutto non si aveva idea di cosa fare. Si deve alla già citata storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia (del 1953) la prima riflessione sulle “premesse della Resistenza” e quindi sulla lettura di lungo periodo della guerra partigiana come pagina non breve della storia d’Italia. Nelle Marche la Resistenza nasce per il convergere in un comune obiettivo di alcune realtà diverse tra loro, quella dei militari (la prima ad agire), quella dell’antifascismo (proveniente dalla clandestinità ma ancora poco organizzata e con poco seguito, tranne tra i comunisti) e quella degli stranieri (soprattutto inglesi e slavi) reclusi e poi fuggiti dai nostri campi di prigionia.
I militari sono quelli che combattono contro i tedeschi sul Colle San Marco, sopra Ascoli Piceno. Ufficiali sono i primi comandanti partigiani, come Spartaco Perini e Ivo Paolini nell’ascolano, Augusto Pantanetti e Mario Batà nel maceratese.
Dall’antifascismo e in particolare dal Partito comunista provengono comandanti di primo piano come Pompilio Fastiggi nel pesarese e l’anconetano Gino Tommasi (Annibale), questi a capo della V brigata “Garibaldi”, ucciso il primo, deportato a Mauthausen il secondo, da dove non farà più ritorno. Tra i comunisti poi alcuni sono profughi come l’istriano Mario Depangher, comandante nella zona di San Severino Marche.
All’origine vi sono ispirazioni diverse, nazionali, internazionali e di classe, ma nessuna prevale nettamente sulle altre e nessuna può fare a meno dell’altra. In comune c’è anche l’odio per il nemico, che ha rovinato l’Italia, e l’amore per la pace, come premessa essenziale per una nuova vita collettiva fondata sulla democrazia e la libertà. In sostanza si può dire che per i più c’è una scelta di carattere etico, tanto che, in qualche modo, anche per i partigiani in armi si può usare la definizione di “resistenza civile”, intendendola non come partecipazione senza una divisa militare, ma come impegno per la realizzazione di valori umani e di ideali condivisi.
Ma alcuni problemi posti dal sorgere prevalentemente spontaneo, senza una direzione valida per tutti, rimasero e caratterizzarono la Resistenza marchigiana, marcandone alcuni limiti difficilmente superabili. Vi saranno addirittura casi di insubordinazione come quello di alcuni “mitici” comandanti, come Decio Filipponi (poi rientrato) e, soprattutto di Emanuele Lena, più noto con il nome di battaglia di “Acciaio”, che non accetteranno l’ordine di una sospensione dei combattimenti in vista del lancio di armi e rifornimenti da parte degli Alleati.
Soprattutto in alcune zone, come nel maceratese (laddove cioè la motivazione politica e l’egemonia del PCI non erano affatto prevalenti), si avranno poi grosse difficoltà a riunire tutte le bande sotto le insegne delle brigate “Garibaldi” e a sottostare a un comando unico. Se si può dire che nelle Marche non vi furono bande gielliste o cattoliche o badogliane come in altre regioni, ma l’effige dell’eroe dei due mondi comprese tutte le ispirazioni politiche, rimase il fatto che era comunque difficile imporre una disciplina e ordini validi per tutti e non sempre gli emissari mandati dal Governo del Sud riuscirono a dare frutti positivi alle loro missioni.
Con il passare dei mesi la resistenza si espande piano piano, grazie anche all’affluire di operai che hanno perso il lavoro, di antifascisti vecchi e nuovi, ma soprattutto di giovani renitenti alla leva. Sono loro a costituire buona parte della massa partigiana. Per loro la motivazione sta essenzialmente nel rifiuto di combattere con i fascisti a fianco dei tedeschi.
Il tema della scelta è stato, com’è noto, la novità storiografica più rilevante degli anni Novanta, a seguito del libro di Claudio Pavone, il quale individuava in essa “la moralità nella Resistenza”. Nelle Marche forse, però, la scelta fu meno importante e drammatica che nel nord. L’opzione partigiana venne più spontanea di quello che si immagini, mentre sin dall’inizio ebbe pochi proseliti (specie tra i giovani) l’intenzione di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Casomai la scelta fu tra il prendere le armi e il darsi alla macchia, cercando in qualche modo di sopravvivere fino alla fine della guerra. In questo caso lo sfollamento fu per molti una sorta di rifugio proprio dalla guerra.
Più complicata fu l’intenzione di far partire la macchina da guerra partigiana partendo da zero; anzi verificando l’impossibilità di ostacolare l’occupazione tedesca, dopo la mancata difesa di Ancona e la sconfitta del Colle San Marco ad Ascoli Piceno. La scelta strategica della montagna e della divisione in bande è così, specie all’inizio della fase resistenziale, oggetto di un dibattito tra i dirigenti politici più importanti (specie nel pesarese, dove vi era una più accentuata diffidenza riguardo al reclutamento dei giovani) e la scelta della guerriglia sarà accettata solo dopo le prime scaramucce, i primi scontri con il nemico e, soprattutto, dopo i primi rastrellamenti tedeschi.
Nelle città, lungo la costa, resta una presenza partigiana, ma più con funzioni tattiche che con propositi bellici. Qui si nascondono e agiscono nell’ombra i GAP (Gruppi di Azione Patriottica).
Particolarmente dura è la vita dei partigiani. La loro è una realtà di ribelli, di irregolari, che faticano a darsi una organizzazione, ma soprattutto ad accettare una disciplina di tipo militare.
L’organizzazione partigiana avviene quindi per bande. La banda è la cellula di base e il microcosmo in cui si sperimentano quotidianamente i vincoli politici, militari e di amicizia. Ma è anche la base di una struttura democratica fino ad allora impensabile. Una società gerarchica e autoritaria quale quella fascista non aveva permesso espressioni di democrazia al proprio interno. I partigiani si rivelano ribelli, quindi, non solo perché si contrappongono all’ordine costituito ma anche perché ne contestano le basi ideologiche e morali.
E ciò avviene non solo per i militanti politici o per gli sbandati in genere, ma anche per coloro che provengono dall’esercito e hanno una cultura militare. La fedeltà al re, che giustifica in primis la loro azione, piano piano si integra con la cultura della guerriglia, della precarietà, della solidarietà nelle scelta, con l’integrazione con uomini che vengono da esperienze molto diverse.
La loro vita è precaria e irta di difficoltà in quanto devono presidiare un territorio e al tempo stesso procurarsi il necessario per la sussistenza e anche se spesso i rapporti con la popolazione sono buoni, devono stare attenti a non infrangere alcuni codici di comportamento in modo da non alimentare diffidenze. Per questo i comandanti e i commissari politici devono vigilare perché i rapporti siano sempre corretti e gli atteggiamenti dei partigiani verso la popolazione (in genere contadini) siano esemplari. Purtroppo queste relazioni non furono sempre sufficienti a preservare la vita delle popolazioni e dei giovani combattenti. La guerra era particolarmente dura per la volontà dei tedeschi e dei fascisti di eliminare questa fastidiosa presenza partigiana alle spalle del fronte e diversi furono i casi di esecuzioni sommarie e di vere e proprie stragi, come a Umito, vicino ad Acquasanta, a Montalto, a Capolapiaggia, nei pressi di Camerino, a Poggio San Vicino, a Valdiola, ad Arcevia, a Fabriano, a Jesi, a Urbino, a Fragheto, nel Montefeltro, ecc. Inoltre l’inesperienza o la difficoltà di mantenere una costante rete di contatti fu a volte causa di morte per i patrioti ribelli.
Ma costoro ebbero un comportamento esemplare anche nel momento più drammatico della loro vita, di fronte alla morte. Anche nelle Marche non furono rari i casi di eroismo. Spesso ne furono protagonisti personaggi privi di tradizioni militari alle spalle, come tre giovani di Ostra (i primi martiri della resistenza) con una chiara consapevolezza politica o altri privi di cultura e di coscienza di classe, ma capaci di grande prova di solidarietà nei momenti estremi, in genere accompagnata da un’incoscienza senza pari. È questo il caso (per fare esempi poco noti) di Giannino Pastori, del gruppo “Tigre”, che affronta da solo i tedeschi a Poggio San Vicino per coprire la fuga dei suoi compagni o di Gino Capriotti che nell’ascolano, da solo con una mitragliatrice “Breda”, protegge la ritirata della banda Paolini. Per entrambi una morte gloriosa.
Per i comunisti la questione dell’eroismo si presentava in modo un po’ più contraddittorio. Se infatti veniva da un lato esaltato il coraggio nei combattimenti fino all’abnegazione, dall’altro la coscienza politica esigeva frequenti appelli alla cautela e a rifuggire da atteggiamenti spavaldi in quanto ogni vita era preziosa alla causa. Ma al dunque tutti si mostrarono più che degni del compito che si erano assunti e cercarono di dare un grande valore simbolico ai loro gesti estremi.
Le lettere dei condannati a morte della Resistenza ne sono un’altra fulgida testimonianza In esse vi è la prova di un amore profondo non solo per i cari, per i familiari (ai quali addirittura si chiede perdono), ma anche per l’Italia. Se per qualcuno l’8 settembre ha siglato la morte della patria, queste lettere ne hanno determinato la resurrezione. Anche perché in esse non vi è solo l’addio, ma vi è anche e perfino il pensiero al domani, a una società nuova (magari al comunismo o persino a Stalin!) per la quale il sacrificio estremo assume un significato.
Anche nelle Marche vi sono testimonianze particolarmente toccanti, come quelle (per fare dei nomi tra tanti) degli ufficiali Mario Batà e Achille Barilatti, dei cattolici fratelli Brancondi di Loreto, di Antonio Balducci di Pennabilli, o come quelle di giovanissimi partigiani come Ivan Silvestrini a Fabriano ed Eraclio Capannini ad Arcevia e altre ancora. Esse spesso venivano oggettivamente a svolgere la funzione di non abbattere il morale dei partigiani ancora in vita nei momenti più difficili e a dare un senso alla scelta, per quanto dura e rischiosa.
Del resto i momenti difficili, lo scoraggiamento, il venir meno della fiducia nella vittoria ebbero il loro effetto soprattutto dopo la prima fase dei rastrellamenti tedeschi, tra aprile e maggio. I partigiani subirono sconfitte, dovettero fuggire e nascondersi, addirittura sbarazzarsi delle armi lasciandole in qualche rifugio con la speranza di riprenderle in tempi migliori. Molti si ritrovarono privi di munizioni senza potersi approvvigionare di armi e dell’essenziale per sopravvivere, anche per il ritardare dei lanci dal cielo da parte degli Alleati.
In questo frangente sembra che vi siano stati anche casi di trattative segrete per una reciproca intesa (tentativi peraltro sperimentati ben più apertamente in altre regioni e comunque frutto di una vischiosità che in certe realtà locali non sempre ebbe risvolti negativi). Nel pesarese il Comando di divisione dovette intervenire con un duro comunicato contro ogni possibile tentativo di istituire una tregua.
In questo clima non certo esaltante alcuni partigiani tornarono a casa, crebbe il numero delle spie e dei delatori, tanto da non potersi fidare che dei più intimi. I contadini stessi ora avevano paura e se continuavano a non far mancare il cibo, erano poco propensi a offrire ospitalità. Il pericolo di rappresaglie e di fucilazioni era tutt’altro che remoto. I tedeschi ora più che mai intendevano difendersi mettendo in atto la pratica del terrore tra le popolazioni.
In certi casi però le bande si sciolsero per poi riorganizzarsi in forme nuove. Si potrebbe dire, si parva licet, che in poco tempo, come lo spirito del Piave prese il posto alla depressione di Caporetto, così la voglia di riscossa ebbe il sopravvento sulla depressione. Infatti questa fase della fuga fu breve e in genere i partigiani si riorganizzarono e rioccuparono i territori che erano stati sotto il loro precedente controllo.
Ma se nell’esperienza partigiana vi furono momenti terribili, vi furono anche momenti di gioia e addirittura di euforia al limite dell’incoscienza, come quando si festeggiò il primo maggio in diversi paesi, come ad Arcevia e a Cingoli.
Va poi tenuto presente che erano più i giorni dell’attesa che quelli del combattimento. Per questo lo svolgersi della vita quotidiana assumeva un’importanza fondamentale. Era in quelle fasi di forzato riposo che si formava la coscienza del giovane partigiano tra discussioni politiche e altre forme di cameratismo. Come non sono da trascurare i momenti dell’educazione sentimentale dei resistenti. Occorre infatti tenere sempre presente che i partigiani erano per la quasi totalità giovani e giovanissimi a cavallo dei vent’anni, con la voglia di vivere, e di vivere intensamente, propria di questi anni. Molti tenevano rapporti anche intimi con la propria donna, per quanto le regole della clandestinità erano ovviamente ferree. Eppure vi furono le dovute eccezioni proprio tra alcuni comandanti. Achille Barilatti, la notte in cui fu arrestato, fu colto d’improvviso a letto con la sua compagna. Augusto Pantanetti, anch’egli ufficiale e alla guida delle bande “Nicolò” accolse nel suo nascondiglio una giovane profuga ebrea polacca, Ruth, con la quale condivise la vita partigiana, oltre che il resto della vita. Mario Depangher ebbe al suo fianco una fiera combattente, molto attiva nella Resistenza, Lina Sabaz.
Ciò fu motivo di scandalo per altri partigiani che vivevano la presenza delle donne come un ostacolo e come un peso alla guerra di liberazione. Ma non va trascurato che alla base delle motivazioni più profonde dei resistenti vi era un grande attaccamento alla vita, basato proprio sul primato dell’amore, a tutti i livelli.
Del resto, come notava Italo Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno, il significato generale della lotta di resistenza era in una spinta di riscatto umano, anonimo, da tutte le umiliazioni. Vi era in tutti coloro che avversavano la guerra, e non solo nei partigiani in armi, l’aspirazione a una redenzione dell’uomo, a una umanità liberata, finalmente espressione dei propri bisogni più intimi e sempre meno costretta da imposizioni secolari o ideologiche. Non è quindi giusto restringere il campo della tanto discussa “resistenza civile” al solo ambito delle forme di sopravvivenza proprie di ogni guerra. In questa guerra vi era qualcosa di più: un’aspirazione universale che, pur in modi diversi, contagiava ampi strati della popolazione.
Quello della resistenza civile è appunto uno dei temi più dibattuti dalla storiografia più recente ma anche per la nostra regione va analizzato a fondo per evitare facili generalizzazioni ed esaltazioni acritiche di comportamenti non sempre omogenei. Lo stesso legame della popolazione con la Resistenza non è stato omogeneo; si presenta più forte laddove vi era un rapporto di lungo periodo tra l’antifascismo urbano e il movimento contadino (come nell’anconetano e nel pesarese) e più difficile nelle altre province.
Per quel che riguarda il rapporto tra contadini e resistenza la questione è problematica e spesso si è enfatizzato il rapporto, sottovalutando la persistenza di culture e tradizioni ataviche, nonostante l’impatto della modernità che le popolazioni urbane portavano specie con lo sfollamento. Per la verità occorrerebbe articolare il giudizio anche dal punto di vista geografico per evitare generalizzazioni improprie.
Appaiono così un po’ sopra le righe le considerazioni che valenti storici espressero anni fa in un importante convegno, tenutosi a Pesaro, sulla Linea Gotica, sia quella di Roger Absalom, per il quale in questo periodo i contadini sfruttarono gli sfollati, i militanti antifascisti e gli stessi padroni per riaffermare l’autonomia e il rispetto, sia quella di Enzo Santarelli per il quale con la resistenza si poneva fine al blocco agrario-rurale nato con il Patto Gentiloni e sorgeva “una classe che lotta e si organizza”. Senz’altro vi una sorta di “rivincita” dei mezzadri, i quali non solo gestirono in prima persona (almeno per un breve periodo) l’economia regionale, altrimenti in mano esclusivamente alla “borsa nera”, ma furono per la prima volta protagonisti della vita politica e sociale della regione. Ciò però fu dovuto – e preziose sono le considerazioni in proposito di Doriano Pela in un suo fortunato libro – anche e soprattutto al persistere delle caratteristiche proprie della famiglia mezzadrile, che non solo non vennero messe in discussione nel rapporto con la Resistenza, ma anzi ne connotarono persino gli aspetti più rivoluzionari o trasgressivi.
Non furono così pochi i casi nei quali le campagne operarono una sorta di resistenza civile, sia nel nascondere e proteggere i giovani renitenti alla leva (spesso braccia essenziali per il lavoro dei campi), sia nel sostentamento e nell’appoggio logistico ai partigiani e ai prigionieri stranieri, sia, infine, nel boicottaggio, nella sottrazione delle consegne dei prodotti alimentari e nella disobbedienze alle ordinanze delle autorità fasciste e tedesche. Inoltre vi furono zone nelle quali vi fu un’adesione esplicita alla guerra partigiana con contadini armati e combattenti, sostenuti dalle proprie famiglie. In molti casi c’era la consapevolezza, o quanto meno la speranza, che con la cacciata dei fascisti sarebbero migliorate le condizioni della mezzadria, cambiati i patti colonici, come lo stesso CLN e la stampa clandestina promettevano.
Un altro capitolo della resistenza civile, forse quello su cui negli ultimi ani si sono scritte un maggior numero di pagine, riguarda le donne. In un primo momento la storiografia locale ha cercato di dimostrare che tra i partigiani vi erano anche delle donne e poi che anche le staffette erano da considerarsi combattenti per la libertà alla stregua degli uomini. Infine si è sottolineato il modo diverso di vivere la guerra e di operare in tutti modi possibili per lenirne le più dure conseguenze e per far sì che si affermasse una cultura della pace anche in quei frangenti terribili.
Nelle Marche non furono molte le partigiane in armi. Alcune ebbero anche la responsabilità del comando come Walchiria Terradura nel pesarese, altre ebbero il coraggio di affrontare grossi rischi come staffette, a cominciare dalla medaglia d’argento Bianca Sarti, autrice di imprese memorabili. Molte aiutarono i partigiani soprattutto nel provvedere alla loro sussistenza, anche se andrebbe ridimensionata l’immagine di madre oblativa che certa memorialistica ha voluto tramandare. Forse certo sentimentalismo è un sovrappiù letterario rispetto alla consapevolezza di una scelta che spesso non si limitava agli aspetti assistenziali.
Addirittura in certi drammatici frangenti si verificò il caso di un conflitto lacerante tra la scelta politica di accettare la disciplina partigiana e la naturale vocazione materna. Antonietta Albanesi di Acquasanta fu punita dai compagni della sua banda per averli abbandonati per cercare la piccola figlia catturata dai fascisti.
Ma non tutte le donne sostennero la Resistenza, altre erano apertamente schierate contro e svolsero un ruolo di persecutrici, come Adriana Barocci, detta “la belva di Fabriano”, che, tra l’altro, fece arrestare e uccidere il dottor Engels Profili, capo della locale organizzazione partigiana.
Ma nel complesso la volontà di operare per la sopravvivenza e per accorciare i tempi della sospirata pace, accanto a una spontanea ripulsa per la violenza e la prepotenza degli invasori e dei loro sostenitori, fu merito prevalente delle donne. A volte con maggior coraggio, sfidando il nemico, come nello sciopero delle filandaie di Osimo, o utilizzando ogni mezzo (persino la carrozzina con il proprio bambino, come Adriana Rumori di Ancona) per nascondere al nemico documenti importanti. Il più delle volte sperimentando le occasioni che la guerra offriva per la propria emancipazione, soprattutto avendo molte più occasioni di far sentire la propria capacità di prendere autonomamente decisioni per sé e per i propri cari.
Anche per quel che riguarda il clero, altro soggetto della cosiddetta resistenza civile, l’analisi storica non può che essere articolata e tutt’altro che lineare. Vi furono vescovi, come quello di Camerino che si sentì in dovere di trattare con i comandanti partigiani, altri, come quello di Recanati che addirittura simpatizzò per i nazisti. Per lo più svolsero una proficua opera di assistenza morale e pratica ai più bisognosi, anche se nelle loro pastorali non mancarono considerazioni poco evangeliche, come quella che voleva intendere la guerra come punizione divina per i peccati della popolazione […]
Massimo Papini, “La Resistenza nelle Marche”, La Clé des Langues, 2008

Nell’Umbria, Abruzzo, Marche e buona parte della Toscana, l’attività partigiana iniziò quasi subito dopo l’occupazione tedesca ed ebbe notevole importanza durante il periodo inverno 1943-primavera 1944, quando questa parte d’Italia costituiva zona immediatamente contigua alla zona del fronte e comprendeva, quindi, buona parte delle linee di comunicazione tedesche.
In tale zona erano particolarmente importanti i sabotaggi alle strade ferrate e alla viabilità stradale, che causavano intoppi e ritardi all’afflusso dei rifornimenti e dei rinforzi. Inoltre l’attività partigiana distoglieva parte delle forze che, altrimenti, i tedeschi avrebbero potuto destinare alle operazioni militari.
In uno dei primi duri scontri contro le forze tedesche cadeva a Colle San Marco, nelle Marche, il 3 ottobre 1943, il marinaio Adriano Rigantè, che era stato posto a difesa di un caposaldo dal quale aveva inflitto notevoli perdite al nemico, di gran lunga superiore per forze e mezzi; fu colpito a morte da una raffica di mitragliatrice.
Il 28 novembre, dopo una breve preparazione, partiva per le Marche il sottocapo radiotelegrafista Silvio De Arcangelis. Raggiunto il reparto di patrioti presso il quale doveva operare, riusciva a superare le non lievi difficoltà e stabiliva il collegamento radio con la base, che manteneva anche quando, rimasto momentaneamente privo di direttive, con encomiabile spirito di iniziativa continuava nella sua opera fino alla completa liberazione della zona (giugno 1944).
Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale – Anno XXIX – 2015, Editore Ministero della Difesa

[…] È in questo quadro che i fratelli Vincenzo e Luigi Biondi, nati a Foggia, rispettivamente il 28 agosto 1924 e il 7 gennaio 1927, la cui madre, Cupo Antonietta è prematuramente morta nel cuore della loro infanzia, decidono di prendere la via del Nord, pare, senza una meta precisa, non altrettanto per lo scopo che si prefiggono. Non è dato sapere con precisione quando partono, come viaggiano e come si sostengono in un’Italia spezzata in due, con vie e mezzi di comunicazione ridotti al minimo. Le notizie più datate, forse le uniche e poche, che li riguardano più direttamente ce le ha lasciate, racchiuse in due pubblicazioni, il Sig. Aldo Pedretti, socialista foggiano, che conoscevo personalmente e che ho visto sfilare, finchè è vissuto, orgoglioso e impettito alla testa dei cortei cittadini del 25 Aprile, o della commemorazione dei Caduti in guerra, con al collo il fazzoletto dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia). E proprio da questi scritti si rileva che i due fratelli, Vincenzo e Luigi Biondi, “ironici e beffardi, sono pronti a fischiettare “Bandiera rossa” quando i giovani fascisti si recano a prendere il loro fratello maggiore, Peppino, che si rifiuta di osservare all’obbligo della premilitare o delle adunanze del partito fascista”.
Vincenzo e Luigi, componenti di una modesta e numerosa famiglia, un’infanzia poco felice, partono non certo per motivi di studio o alla ricerca di lavoro, i tempi non sono certo ideali, lasciano la loro città natale, certo disastrata, ma prossima alla liberazione, in quanto Foggia è uno degli obiettivi principali dell’operazione Avalanche (Valanga) da parte degli alleati. Infatti, l’occupazione tedesca avrà fine il 27 settembre 1943 con l’ingresso in città dell’ottava armata inglese al comando del Generale Bernard Law Montgomery.
Foggia è avara con i propri figli, poi questi, Vincenzo e Luigi Biondi, popolani, quasi adolescenti, addirittura Partigiani.
Ascoli Piceno 12 settembre 1943
Una colonna di soldati tedeschi entra nella città e subito viene fatta segno a colpi di fucile da alcune guardie forestali. Per tutta la giornata si avranno scontri fra i tedeschi e le truppe italiane di stanza in città, oltre che con gruppi di civili armati. Le alterne vicende portano i più temerari, soldati, civili, sbandati, a risalire le pendici del Colle San Marco per difendersi e attendere l’arrivo degli alleati che ritengono imminente.
Chi preme e organizza per questa soluzione è il sottotenente Spartaco Perini, figlio di un noto comunista, anch’egli comunista, in licenza-convalesceza dalla campagna di Russia, dove è arrivato dopo essere stato in Grecia. Qualcuno dirà di lui: “è tornato con le pezze, tanta sofferenza e rabbia”.
Vincenzo e Luigi Biondi, nel loro viaggio, sicuramente avventuroso, raggiungono Ascoli Piceno, circa 300 chilometri da Foggia, e lì, racconta il Pedretti “trovano ospitalità e comprensione”.
Gli sfollati non si allontanano tanto dalle loro città bombardate, c’è il desiderio di riunirsi con il resto delle proprie famiglie, Vincenzo e Luigi hanno ancora il padre ed alcuni fratelli, l’interesse per le proprie cose ed i propri beni, li porta a ritornare con una certa frequenza per verificare se la casa è ancora in piedi, se non è stata oggetto di atti di sciacallaggio. Ascoli Piceno, peraltro, non è sulla direttiva adriatica, è internata di circa 30 chilometri.
Non è stata una casualità quella che ha portato i due fratelli ad Ascoli Piceno, ci deve essere stato qualcosa per forza: un parente sul posto! Poco probabile. Delle amicizie! Troppo giovani loro. Forse una notizia, una informazione carpita chissà come durante il viaggio circa i preparativi che si facevano nella zona di Ascoli Piceno per opporsi e resistere ai tedeschi. Non lo sapremo mai, allora diciamo che l’orologio della storia aveva fissato per loro quell’appuntamento, e loro non si sono sottratti neanche quando “conoscono” il quadro della situazione.
“Gli avvenimenti dell’8 settembre li trovano lì”, ad Ascoli Piceno, racconta il Pedretti. Ma questa data, forse, è solo indicativa; le ricerche sul vasto mondo di internet permettono solo di abbozzare una cornice intorno alla decisione maturata dai due fratelli Biondi, al loro coraggio e sacrificio finale.
Colle San Marco (AP) fine settembre 1943
La formazione partigiana “Bande Colle San Marco”, sottovalutando la potenzialità numerica e d’armamento delle forze tedesche, fa alcune puntate alla periferia di Ascoli P. ingaggiando combattimenti a fuoco e ferendo alcuni soldati tedeschi.
Vincenzo e Luigi sono già inseriti, a tutti gli effetti , nella formazione partigiana “Bande Colle San Marco” al comando del Capitano Tullio Pigoni e del sottotenente alpino Spartaco Perini.
COLLE SAN MARCO (AP) 3-5 ottobre 1943
Nella mattinata del 3 ottobre, “Era una giornata di nebbia, una nebbia terribile, che non si riusciva a vedere niente”, racconta William Scalabroni, partigiano combattente a Colle San Marco, in un frammento di intervista rilasciata (Archivio della Resistenza), le truppe tedesche, fra i 400 e i 600 uomini, sferrano l’attacco ai partigiani che presidiano il colle, e che costituiscono una spina nel loro fianco. Meno di 200 sono i partigiani presenti in quel momento: militari, sbandati e civili, un gruppo di una trentina di prigionieri angloamericani liberati andrà via verso il Sud, incontro alle linee alleate, alle prime cannonate. I combattimenti, preceduti da un rastrellamento, si inaspriscono verso le 13, ma continuano fino al giorno 5 allorchè la formazione partigiana viene completamente dispersa.
Vincenzo e Luigi Biondi cadono entrambi il 3 ottobre 1943 sul Colle San Marco di Ascoli Piceno. Forse il luogo più preciso è in località Pagliericcio, comune di Civitella del Tronto alle pendici della Montagna dei Fiori.
COLLE SAN MARCO (AP) 6 ottobre 1943
Si contano i morti.
Partigiani caduti in combattimento: Serafino Cellini, Luigi Biondi, Vincenzo Biondi, Ignazio Cossù, Luigi Ferri, Pietro Marucci, Giacinto Neri, Alberto Paci, Alessandro Panichi, Francesco Paliotti, Adriano Rigante, Emilio Rozzi, Salvatore Spataro.
Partigiani catturati e poi fucilati: Carlo Grifi, Mario Carucci, Silvio Angelini, Dino Angelini, Emidio Bartolomei, Paolo Cagnetti, Nino Giabattoni, Natale Ciampini, Marcello Federici, Narciso Galliè, Marcello Giovannielli, Attilio Lelli, Pietro Pagliacci, Antonio Pagliacci.
“È con l’animo addolorato che in questo momento vi annuncio la morte dei vostri cari congiunti Luigi e Vincenzo Biondi, entrambi caduti il 3 ottobre 1943 sul Colle S. Marco di Ascoli Piceno mentre partecipavano volontariamente alla lotta contro i tedeschi. Li ammirai subito per il loro coraggio, per il loro elevato spirito di amor di patria e per le loro doti morali che li fecero distinguere tra i migliori partigiani del gruppo Bande “Colle S. Marco”. La loro attività in quel periodo fu senza soste, attivissimi, sempre pronti ad ogni prova, di esempio ai compagni che amavano. Si arrivò al 3 ottobre in cui fummo attaccati da forze rilevanti tedesche appoggiate da artiglieria e mortai. La lotta ineguale ma accanita si protrasse per tre giorni ma ormai le nostre posizioni erano state accerchiate, nei combattimenti durissimi più volte vedemmo l’indimenticabile Luigi incitare con l’esempio i compagni prodigandosi senza risparmio nella lotta in cui già i tedeschi avevano subito perdite gravi. Ma mentre più si accendeva la battaglia Luigi e Vincenzo cadevano da Eroi per la Patria che tanto avevano amato”.
IL COMANDANTE
Spartaco Perini
Spartaco Perini fu insignito in vita della medaglia d’argento al valor militare.
Non sappiamo come e quando la notizia dell’olocausto dei fratelli Biondi arrivò a Foggia, la riproduzione della lettera di Spartaco Perini non porta data, ma le ricerche del Pedretti evidenziano che solo a distanza di circa tre anni, 9 aprile 1946 per Vincenzo e 10 aprile 1946 per Luigi, avverrà la registrazione della loro morte nei registri comunali di Foggia; mentre, alla loro memoria viene concesso “Diploma di medaglia Garibaldina”, dati in Roma l’8 settembre 1947 a firma del Commissario Generale Secchia e del Comandante Generale Longo della Brigata d’Assalto “Garibaldi”.
Il racconto del Pedretti, oltre che toccante, è più preciso, sicuramente per testimonianza diretta, circa il rientro a Foggia delle salme dei due giovani, richiesto al Comune di Ascoli Piceno dai familiari. […]
Alberto Mangano, I fratelli Biondi, Memoria condivisa, 20 aprile 2018

Monumento ai caduti partigiani di Colle San Marco

La fucilazione avvenne in provincia di Teramo, nel comune di Civitella del Tronto, in terra di confine tra le Marche e l’Abruzzo, e la vicenda si inserisce nel quadro della resistenza ascolana del Colle San Marco. Il Colle San Marco sovrasta maestosamente Ascoli Piceno e divide le due regioni, e data la posizione divenne luogo di raccolta degli antifascisti. Dopo la prima battaglia contro i tedeschi che ci fu ad Ascoli Piceno il 12 settembre, la sera stessa gli antifascisti capitanati dal sottotenente degli alpini Spartaco Perini si diressero al San Marco. La sera del 2 ottobre i tedeschi iniziarono un’ampia manovra di accerchiamento, la mattina del giorno dopo all’alba un intero battaglione di paracadutisti attaccò il presidio partigiano di San Giacomo. Una forte scossa di terremoto generò il panico favorendo la fuga di molti partigiani sul versante abruzzese. Tuttavia molti antifascisti vennero catturati alle Rocce e alle Vene Rosse, circa 35 uomini persero la vita in quell’operazione, altri vennero catturati e deportati nei campi di lavoro.
I 9 uomini erano stati catturati la mattina del 3 ottobre ma non vennero subito uccisi, in quanto i tedeschi li ritennero utili per il trasporto delle cassette di munizioni nei faticosi sentieri di montagna, furono, quindi, costretti a marciare seminudi, nell’acqua e nel fango, senza mangiare e senza dormire, incalzati dai tedeschi che li costringevano ad andare in avanscoperta per evitare eventuali imboscate.
Una volta a Ripe, nonostante le implorazioni di Don Rapali, il parroco del luogo, i tedeschi uccisero brutalmente due uomini di cui è rimasta sempre sconosciuta l’identità, e proseguirono la loro marcia.
Una volta a Pagliericcio i tedeschi fucilarono gli altri 7 prigionieri, spaventando a morte gli abitanti del piccolo paese. I tedeschi prima di dirigersi a Villa Lempa, saccheggiarono le case degli abitanti alla ricerca di armi e patrioti. […] Furono diverse le violenze connesse all’episodio, in quanto avvenne all’interno della vicenda del rastrellamento al Colle San Marco, in quell’operazione persero la vita all’incirca 35 persone (di queste si hanno notizie anagrafiche certe di 27 persone, gli altri caduti sono rimasti privi di identificazione). Ben 62 persone vennero condotte al campo di concentramento di Spoleto e poi nei campi di lavoro in Germania, di queste 7 riuscirono a fuggire ed altri uomini più fortunati tornarono a casa dopo la guerra.
Diversi inoltre furono i saccheggi e gli incendi perpetrati ai danni di famiglie e abitazioni.
I cadaveri vennero lasciati abbandonati in mezzo alla campagna di Pagliericcio, solo successivamente vennero riuniti a tutti gli altri caduti e portati al cimitero di Ascoli Piceno.
Un incompleto organigramma degli ufficiali inquadrati in questa unità e l’elenco delle zone d’operazione nelle quali essa fu impiegata si rintracciano nella sezione Armée de l’Air, 2ème Division de Parachutistes del dattiloscritto Ordre de Bataille de l’ex-wehrmacht. Tale dattiloscritto è conservato presso l’archivio del Deutsche Dienstelle (WASt) di Berlino e fu redatto dopo la guerra per ordine delle autorità militari francesi d’occupazione allo scopo di ricostruire la storia delle forze armate tedesche nel secondo conflitto mondiale.
Si trattava di circa seicento esperti combattenti comandati dal maggiore Hans Pelz.
A condurre le operazioni relative al Colle San Marco furono le divisioni tedesche arrivate in città, ma prezioso fu l’aiuto dei numerosi fascisti locali che aiutarono i tedeschi nelle manovre di accerchiamento dei partigiani rifugiati al colle. Diverse spie fasciste, infatti, aiutarono i militari tedeschi indicando sentieri secolari e viottoli non segnalati nelle carte topografiche.
[…] La strage di Pagliericcio, così come quella di Cerqueto, a differenza di altre vicende legate al rastrellamento del San Marco, non fu il risultato di decisioni prese sul posto dai vari comandanti delle unità che eseguirono le operazioni, ma fu il risultato di un ordine dello stesso Pelz. Difatti, dato che la sera del 3, mancavano tra gli elenchi dei caduti in combattimento alcuni dei principali organizzatori della resistenza al colle, in primis Spartaco Perini, Pelz emise un ultimatum in cui si intimava ai ricercati di consegnarsi spontaneamente alle autorità tedesche entro le ore 20 del 5, pena la fucilazione degli ostaggi (a nulla valsero le suppliche a Pelz a desistere dal suo proposito. da parte del podestà Carlo Tacchi Venturi, del tenente colonnello dei cc.rr. Enrico Carlesi, del questore Minervini, di diversi notabili appartenenti al Comitato civico e di un rappresentante del vescovo).
Ovviamente Perini non si presentò, anche perchè la cosa equivaleva a morte certa. La questione dell’ultimatum ai capi della banda, inoltre, è piuttosto contorta. Non si trattava di una manifesto pubblico ma di una presunta lettera che qualcuno avrebbe dovuto recapitare allo stesso Spartaco ma che non risulta essere stata consegnata. In più c’è da dire che la sera del 3 ottobre i partigiani reclusi al Forte Malatesta, ai tempi carcere della città, avevano dato generalità false proprio per complicare i riconoscimenti.
Claudia Piermarini, Episodio di Ripe di Civitella e Pagliericcio di Villa Lempa, 05.10.1943, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

[…] La notte tra il 17 e il 18 è fatale per la 278 divisione tedesca. Il 992 e il 993 reggimento sconfitti , il 278 artiglieria distrutto.
18 Luglio 1944 martedì. “Alle ore 11 il comandante della divisione prendeva la decisione di sgomberare la città di Ancona. Difesi dalla linea di sbarramento Adam-Broecker, il 993 granatieri, I due battaglioni di sicurezza del “Gruppo Peter” e lo scaglione di marina di stanza in Ancona defluivano sulla via Adriatica in direzione est e venivano ad integrarsi al 278. battaglione complementi che era impegnato sul fiume Esino fra Chiaravalle e la costa. Alle due estremità di Chiaravalle venivano impiegate alcune squadre del battaglione Wildflecken e quando a mezzogiorno al tenente Boehme della seconda compagnia del 278 gruppo genieri riusciva a far saltare in aria il grosso ponte di Chiaravalle la gravissima crisi era superata. Sull’ala destra dello schieramento il 994 granatieri manteneva ancora le sue posizioni a sud dell’Esino sulla linea Hildegard e sulle alture di Santa Maria Nuova respingeva con facilità l’attacco di battaglioni italiani. Alla sera del 18 luglio I reggimenti nella loro consueta disposizione – sull’ala destra il 994, al centro il 992 ed all’ala sinistra il 993 granatieri – e la guarnigione di Ancona si trovavano schierati sulla linea Ingeborg che correva lungo la riva occidentale dell’Esino. Anche il Comando della divisione, che si era venuto a trovare sottoposto ad un pesante fuoco d’artiglieria, veniva trasferito più indietro in località Santa Lucia” . (Hoppe p.32)
“Il passaggio del Musone e le difficoltà del terreno al nord di esso, impediscono alla 6 Brigata di fanteria Leopoli di raggiungere la costa prima di mezzogiorno ciò che permette al nemico di ritirare parte delle sue forze dalla zona di Ancona. Alle quattordici i Lancieri di Carpazia entrano in Ancona. ” (Anders). Sulla zona di operazione tedesca arriva il capo dello stato maggiore colonnello Klincowstrom.I tedeschi prendono la decisione di ripiegare sul lato sinistro della linea Hildegard in modo da evitare l’accerchiamento al 993 del gruppo Petter.
I polacchi della 5 divisione spingono i loro carri armati sopra Agugliano sino a Galignano. Alle 6 del mattino l’aiutante di divisione maggiore Adam riceve l’ordine di attraversare l’Esino con due compagnie e di costruire una difesa in linea da Camerata e Cassero sbarrando la strada per Castelferretti. Il colonnello Brocher che si trova a nord di Gallignano costruisce un fronte di ritirata con il resto del 1/993 e del 3/278 artiglieria. Alle 11 il quartier generale della divisione tedesca dà l’ordine di lasciare Ancona e di attestarsi in serata sulla linea Jngeborg sul fiume Esino.
Nelle prime ore del mattino del 18 luglio 1944 giunsero al fronte, venendo subito avviate in prima linea, due compagnie raggruppate nel cosiddetto Battaglione Wildflecken, dal nome della località dove era dislocato il campo permanente di istruzione. Secondo il tenente viennese Alfred Peichel, che allora comandava uno dei due reparti, e come confermato dal tenente Ludwig Heymann, a quel tempo Aiutante presso il I Battaglione del 992 Granatieri, la gran massa dei componenti di tale reparto era costituita da provati reduci del fronte russo che erano originari della Germania meridionale e dell’Austria. Ma non dovrebbero essere mancate anche reclute della classe 1926, come attestato da una fotografia in cui appaiono quattro giovanissimi soldati.
Di primo mattino le avanguardie alleate autotrasportate procedono lungo la strada che da Osimo porta al crocicchio dell’Aspio. Da qui dopo aver percorso la strada statale sino all’altezza di Candia si inoltrano sulla strada laterale prendendo la provinciale per passo Varano. Poi attraverso le Tavernelle, Le Grazie, Vallemiano, scendono da S.Stefano in via Montebello e quindi a Piazza Cavour dove sono ad attendere i liberatori i componenti del comitato comunale di liberazione, il comando GAP dell’ospedale civile ed i gappisti che erano già entrati in città.
Alle 14,30, per la strada statale 16 dalla direzione del finto attacco, entrano in Ancona i carri armati del reggimento di Ulani Karpaty e i lancieri di Karpazia. La colonna di centro alle 17 raggiunge Chiaravalle. Il CIL sgombra definitivamente i tedeschi dal Musone attestandosi a Rustico. Il territorio di Numana è completamente liberato.
Redazione, La battaglia per Ancona, ANPI Osimo