Nelle ricostruzioni di quel periodo, la figura del giornalista Pecorelli viene presentata sinteticamente

La sera del 20 marzo 1979, Carmine Pecorelli, appena uscito dalla redazione di «Op – Osservatore politico», venne ucciso nella sua Citroën verde parcheggiata all’angolo tra via Tacito e via Orazio a Roma. Il giornalista, all’interno della vettura, venne raggiunto in bocca da un proiettile sparato attraverso il finestrino sinistro e successivamente da altri tre colpi esplosi a portiera aperta. I due colleghi del giornale Franco Patrizi e Franca Mangiavacca, compagna di Pecorelli, ed il carabiniere ausiliario Ciro Formuso furono i primi ad arrivare sul luogo del delitto. Il colonnello Antonio Cornacchia <1, comandante del Reparto operativo di Polizia giudiziaria dei Carabinieri di Roma, insieme ai magistrati Eugenio Mauro e Domenico Sica, al capitano dei Carabinieri Antonino Tomaselli, ed al maresciallo Pietro Laurenti perquisirono la redazione di “Osservatore politico” poche ore dopo l’omicidio. A distanza d’anni l’operazione si dimostrò apparentemente confusa ed approssimativa per le modalità in cui venne eseguita. In base agli atti non fu possibile stabilire chi entrò per primo negli uffici, né il numero di persone che poterono accedere alla redazione di «Osservatore politico».
Risultarono incongruenze anche in merito ai reperti sequestrati durante le tre perquisizioni svoltesi il 20, il 22 ed il 24 marzo. Il materiale cartaceo sequestrato venne sistemato in appositi scatoloni, ma non venne compilato il relativo verbale sebbene i documenti trattassero affari di Stato classificati come «segreti». Sigillati e trasportati presso gli uffici del Reparto operativo dei Carabinieri, questi due contenitori vennero aperti il 29 marzo, come descritto nel verbale apposito. Nei documenti di Pecorelli si trovarono fascicoli sul caso Borghese, appunti sull’organizzazione «Rosa dei venti» e fotocopie di corrispondenza segreta e riservata del Sid mentre, tra i documenti non considerati di rilevante interesse ed inizialmente non inventariati, il rapporto ispettivo della Banca d’Italia sull’Italcasse ed il fascicolo Com.In.Form contenente valutazioni dei Servizi segreti su Licio Gelli. Nell’abitazione del giornalista venne anche ritrovato il fascicolo Mi.Fo.Biali, documentazione non autorizzata dalla magistratura effettuata dai Servizi segreti su richiesta del ministro Andreotti, per avere informazioni su Mario Foligni, segretario del Nuovo Partito Popolare. Da tale dossier Carmine Pecorelli scrisse, tra il novembre ed il dicembre 1978, una serie di articoli sul traffico dei petroli che influì nella sostituzione dei vertici della Guardia di Finanza. Le informazioni, molto spesso coperte da segreto di Stato, fluirono non soltanto dai Servizi segreti, Sifar prima e Sid poi, ma da altre molteplici fonti ignote, oltre che dai contatti con ambienti della massoneria italiana. Proprio grazie alle sue fonti, Carmine Pecorelli venne considerato il braccio giornalistico dei Servizi segreti oltre che uno strumento per le faide all’interno di essi, mentre «Osservatore politico» venne etichettato come fonte poco affidabile e di parte.
Lo sviluppo della testata «Op» può essere diviso in due fasi: il decennio 1968 – 1978, agenzia stampa limitata a pochi abbonati e la trasformazione in settimanale, acquistabile in edicola, fino alla morte del giornalista nel 1979. Dopo un anno di lavoro presso il settimanale politico «Nuovo Mondo d’oggi», il 22 ottobre 1968 Pecorelli registrò, presso il tribunale di Roma, l’agenzia di stampa «Osservatore politico internazionale» in collaborazione con il collega Franco Simeoni <2. L’intesa fra i due giornalisti fu destinata a durare pochi mesi; Pecorelli mal tollerava d’essere strumentalizzato dai Servizi segreti i quali, tramite i contatti di Simeoni con il capo del Sid Eugenio Henke e del controspionaggio Giuseppe Fioriani, gli avrebbero passato le notizie da pubblicare. Il giornalista lo scrisse direttamente nel numero di «Op» dell’8 ottobre 1974: “Nell’ottobre del 1968 il giornalista Franco Simeoni, che conoscemmo ai tempi di «Mondo d’oggi», ci espose un progetto per la realizzazione di un’agenzia giornalistica, contrassegnata con la sigla “Op”, che sarebbe stata confortata, dopo la sua uscita, dall’aiuto di amici politici (nostri) e amici militari (suoi). Per la verità l’impresa editoriale si manifestò particolarmente onerosa (per noi) e particolarmente vantaggiosa (per lui). Così, l’iniziativa dopo pochi mesi, nel maggio del 1969, subì un brusco arresto, perché una volta meglio precisati i collegamenti di Simeoni [con il capo del Sid ammiraglio Henke, ndr] lo allontanammo dal lavoro e finimmo per denunciarlo alla magistratura ordinaria” <3.
Dal maggio 1969, dunque, Carmine Pecorelli proseguì il suo progetto affiancato dal suo nuovo collega Dante Meschino, nominato direttore dell’agenzia. Il giornalista allacciò un confidenziale rapporto con il generale Vito Miceli, allora capo dell’ufficio D del Sid e destinato a sostituire Henke nella guida dei Servizi segreti dal 1970. Si trattò della prima vera fonte giornalistica di Pecorelli. Dopo un anno come capo ufficio stampa dell’onorevole democristiano Fiorentino Sullo, incarico svolto tra il febbraio 1972 e il luglio 1973, Carmine Pecorelli tornò ad occuparsi dell’agenzia, momentaneamente gestita dall’ex ufficiale del Sid Nicola Falde. La collaborazione tra il giornalista e Falde si rivelò impossibile ed il 31 marzo 1974 l’ex colonnello lasciò la direzione. Nonostante Pecorelli fosse politicamente vicino alla destra, scelse come redattore Paolo Patrizi, militante del gruppo dell’ultrasinistra Potere operaio <4. L’agenzia mantenne un assetto stabile ed «Osservatore politico» fu riservato a pochi abbonati fino al 1978, anno in cui divenne rivista settimanale distribuita nelle edicole.
“Questo settimanale non nasce all’improvviso o per caso ma trova le sue radici in una agenzia di informazioni che, giunta al suo decimo anno di vita, ha deciso di uscire dal Palazzo e andare tra la gente, per le strade. In questi anni di lavoro Op ha rivelato ai suoi lettori in anteprima o in esclusiva moltissimi dei più grossi avvenimenti che hanno poi occupato le cronache della stampa quotidiana. Ma se il Palazzo legge, i grandi giornali hanno invece ritardato, edulcorato o addirittura omesso di trattare le nostre informazioni. La situazione è tale che nessuno può illudersi di non rischiare restandosene chiuso nel suo guscio, quasi i fatti del Paese non lo riguardino in prima persona” <5.
Nelle ricostruzioni di quel periodo, la figura del giornalista viene presentata sinteticamente, una comparsa nel tragico scenario degli anni del terrorismo. Ho inteso invece cercare di comprendere il ruolo di Pecorelli a partire da una lettura il più possibile accurata della sua produzione giornalistica, sebbene la totalità degli articoli di «Osservatore politico» si sviluppi su questioni economiche, politiche e di cronaca che avvennero tra il 1968 e il 1979. La denuncia dell’importazione illecita di carne dai paesi comunisti contro la Torresana Veneta di Jesolo fu una delle prime battaglie di «Op». Un dossier che descrisse le modalità delle importazioni clandestine in Italia di partite bovine non controllate e della conseguente evasione fiscale dell’azienda. Un’altra importante campagna di «Osservatore politico» fu quella contro la Sip e la Società Finanziaria Telefonica S.p.A., un’ampia ricostruzione storica dei due gruppi con un costante commento nei graduali aumenti tariffari. Importanti anche i reportage sullo scandalo del contrabbando del petrolio e sul tacito scambio di armi con i paesi dell’Africa, in particolare con la Libia, dove Carmine Pecorelli fu in grado di documentare ai lettori una lista di forniture dettagliate di armi e veicoli prodotti dalla Oto Melara, dalla Agusta e dalla SNIA – Viscosa. Dalle tangenti delle mani pulite del Pci <6, allo scandalo Italcasse, dal crack Fassio ed Egam all’affare Lockheed; quasi sempre a margine del giornalismo nazionale, Pecorelli descrisse alla sua maniera le vicende di quegli anni. Molti articoli furono enigmatici, spesso di parte, satirici, fino a sfiorare un giornalismo, a volte, di basso profilo.
Le analisi delle commissioni parlamentari sviluppatesi negli anni Ottanta portarono ad una rivalutazione storica degli articoli della testata di Pecorelli, mettendo in evidenza il suo elevato grado di conoscenza su questioni coperte da segreto di Stato. L’elaborato presenta uno studio approfondito su una selezionata serie d’articoli del giornalista, riportando parti degli scritti originali, mentre le tematiche sono in correlazione tra loro e vertono sul mondo politico italiano. Per non rendere il lavoro troppo dispersivo l’elaborato si concentra su quattro importanti fatti di quegli anni.
L’inchiesta sulle attività di Michele Sindona ed il probabile contatto con il giornalista, per una possibile pubblicazione della «lista dei 500». Da un appunto trovato nei taccuini di Pecorelli sembrerebbe che Sindona avesse provato a strumentalizzare «Osservatore politico» per pubblicare la lista dei correntisti, appartenenti al mondo politico italiano, che usufruirono dei conti esteri del banchiere con i soldi destinati ai partiti. Uno degli ultimi tentativi del banchiere di sfuggire alle condanne gravanti su di lui in Italia e negli Stati Uniti dopo il colossale crack bancario.
La campagna denigratoria di Carmine Pecorelli, probabilmente influenzata dalla P2, sugli usi ed abusi della famiglia Leone e sul possibile coinvolgimento del presidente della Repubblica Giovanni Leone con lo scandalo delle tangenti Lockheed.
Un ampio specchio sulla massoneria italiana e sulla nascita della Loggia Propaganda Due, alla quale Pecorelli aderì dal 1972 al 1977. Nel 1972 Licio Gelli invitò gli iscritti a fornire ogni notizia utile ad «Osservatore politico», nell’intento di sfruttare gli articoli del giornale per l’interesse della Loggia. Dal 1977 alla sua morte, Carmine Pecorelli scrisse dell’organizzazione massonica ed attaccò duramente Licio Gelli, svelando una lista di centoventuno nominativi di cardinali, vescovi ed alti prelati vaticani iscritti a tale organizzazione.
Pecorelli scrisse anche di Aldo Moro e del suo tentativo d’avvicinamento alle sinistre italiane, fornendo un’ampia sintesi politica. Favorevole all’atlantismo ed alla politica statunitense predisse una possibile uscita di scena dell’uomo democristiano. A seguito del rapimento di via Fani si fece portavoce del partito della trattativa per la liberazione di Moro, attaccando con aggressività lo Stato, i partiti politici ed in particolar modo la Democrazia cristiana. Descrivendo in un ampio scenario i giorni del rapimento e della ricostruzione politica dopo l’assassinio del leader democristiano, «Osservatore politico» gettò ombre sulla «ragion di Stato» e sulla realtà presentata dalla Stampa italiana.
Dal carcere delle Brigate rosse Aldo Moro rispose in forma scritta ai quesiti posti dai terroristi. A trentacinque anni dai fatti restano duecentoquarantacinque fotocopie di quello che venne definito il memoriale Moro, le carte vennero ritrovate in tre diversi momenti, nell’arco di dodici anni. Otto pagine vennero allegate al comunicato numero cinque delle Brigate rosse, del 10 aprile 1978, mentre quarantanove fogli furono ritrovati durante il sequestro dei carabinieri nel covo brigatista in via Monte Nevoso, il 1 ottobre dello stesso anno. Durante dei lavori di ristrutturazione nello stesso appartamento, tenuto per anni sotto sequestro, il 9 ottobre 1990 venne recuperata la terza parte. Attraverso gli articoli di «Osservatore politico» il giornalista lasciò intendere d’aver visionato già dal 1978 la versione ritrovata ufficialmente nel 1990. Secondo diverse testimonianze, inoltre, Pecorelli ed il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si misero a cercare ulteriori parti mancanti del memoriale Moro. L’Ur – Memoriale, un testo tutt’oggi censurato e coperto da segreti di Stato.
La bibliografia sul giornalista Carmine Pecorelli risulta modesta e riconducibile essenzialmente a quattro autori, sebbene le ricerche più meritevoli siano principalmente attribuibili al senatore Sergio Flamigni; chiamato a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e il terrorismo in Italia nel 1980, nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia nel 1982 e della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 nel 1983.
[NOTE]
1 «Il colonnello Antonio Cornacchia, affiliato alla Loggia Propaganda Due, si trovava nelle vicinanze di via Orazio in borghese per ragioni di servizio. Al processo rifiuterà di specificare quale servizio», SERGIO FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, Kaos, Milano 2005, p. 41.
2 «Proprietaria dell’agenzia risultava la prestanome Marina Bradstetter, sostituita pochi mesi dopo da Silvia Marina Limongelli: la prima era la segretaria di Pecorelli, la seconda la madre del giornalista, il quale era l’effettivo titolare dell’agenzia», FLAMIGNI, Dossier Pecorelli, p. 10.
3 ibidem.
4«L’estremismo rivoluzionario di Patrizi e l’atlantismo di Pecorelli si armonizzarono magnificamente, al
punto che il redattore, a Roma, viveva come ospite fisso nella casa del direttore», Ivi, p.16.
5 «Osservatore politico», 28 marzo 1978.
6 VINCENZO IACOPINO, Pecorelli Op, storia di una agenzia giornalistica, SugarCo, Milano 1981, p. 23.
Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012/2013

da “l’Unità” di venerdì 29 ottobre 1982

Per capire come Giancarlo De Cataldo riscriva parte della storia recente d’Italia conviene ricostruire le trame del romanzo, sottolineando in particolar modo come queste si leghino o meno agli eventi più noti del passato, ossia quelli maggiormente legati al panorama politico-istituzionale: il rapimento di Moro, l’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, la bomba alla stazione di Bologna e infine il processo stesso ai danni del componendi della vera Banda della Magliana. A partire da questa prima rassegna sarà possibile rilevare quanto come questi eventi entrino in relazione con la storia narrata da De Cataldo, in modo tale da poter rivelare in seguito i meccanismi della “Metafora” a cui l’autore fa riferimento. La prima parte del romanzo è dedicata agli anni dal 1977 al 1980 e corrisponde alla leadership del Libanese, colui che propone di riunire le piccole “batterie” criminali in un’unica che divida e reinvesta gli utili. Nonostante la vicenda inizi proprio nel biennio delle grandi mobilitazioni politiche che scuotono il paese (e in particolare la città di Roma), la banda sembra appartenere ad un altro mondo. L’unico caso in cui le azioni del gruppo sembrano intrecciarsi a quelle della politica è quando, attraverso un contatto della camorra, al Libanese viene chiesto di individuare la prigione in cui le Brigate Rosse tengono sotto sequestro Aldo Moro. Gli uomini della banda riescono effettivamente a trovare il luogo, ma, al momento di rivelarlo, l’uomo incaricato dal boss Raffaele Cutolo, accompagnato da due agenti dei servizi segreti, afferma: «lo vuoi capire che a quell’anima di Dio lo vogliono morto?» <623. L’informazione non salva Moro, ma ha l’effetto di rendere la banda l’unico punto di riferimento della malavita romana. La mafia e la camorra entrano in affari con Libanese e i suoi compagni. Lo stesso vale per le formazioni armate di estrema destra che guardano alla banda con particolare attenzione, come dimostra il capitolo intitolato “L’Idea”, in cui diversi esponenti della destra eversiva prendono contatto con gli uomini della banda. Ma nonostante l’ammirazione di Libanese per Mussolini, i loro tentativi falliscono: «che vincessero i rossi o i neri l’importante era restare sulla cresta dell’onda. Tutto il resto non era che una recita al Volturno» <624. L’unico militante della destra a legarsi alla banda è “il Nero” che si fa prestare l’arma con cui viene assassinato un cronista chiamato “il Pidocchio”. Nonostante il soprannome, l’evento è facilmente collegabile all’omicidio di Carmine Pecorelli con un’arma trovata nell’arsenale della Banda della Magliana. L’omicidio del Pidocchio è commissionato da un personaggio misterioso che entra presto in contatto con la banda: si tratta del Vecchio, un uomo che lavora al Ministero dell’Interno e che sembra essere a conoscenza di tutti i misteri del paese. Il Vecchio è un potente manovratore: «comandava un’unità informativa dal nome neutro il cui potere era noto solo a pochissimi eletti» <625, e fa parte di una loggia massonica che coinvolge numerose persone dentro e fuori l’apparato statale. In realtà sembra non essere alle dipendenze di nessun altro organo e porta avanti le sue iniziative in totale autonomia, con l’aiuto di due agenti da lui stessi addestrati, Zeta e Pigrego. È attraverso di loro che entra in contatto col Libanese e parte della banda, nell’intento di proporre una collaborazione, che però non giunge a termine dal momento che Libanese pone come condizione necessaria per una trattativa la presenza del Freddo, l’amico fidato con cui spesso prende le decisioni più importanti.
[NOTE]
623 Giancarlo De Cataldo, Romanzo criminale, Einaudi, Torino, 2002, p. 85.
624 Ivi, p. 151.
625 Ivi, p. 215.
Paolo La Valle, Raccontare la storia al tempo delle crisi, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2015

Le accuse di politicizzazione mosse contro la magistratura erano tuttavia cessate quando tutti gli atti riguardanti la P2 erano stati sottratti alla Procura milanese. Con un documento di 9 pagine, il 20 giugno 1981 il sostituto procuratore di Roma Domenico Sica si era proclamato “competente” anche per i procedimenti della Procura di Milano e di Brescia, e ordinava ai suoi colleghi la riunione di tutti i processi nelle sue mani. <323
L’ordine riguardava le istruttorie su Gelli in corso a Milano e l’inchiesta di Brescia relativa ad interferenze e alle deviazioni per salvare il banchiere Roberto Calvi dalle conseguenze della colossale esportazione di capitali. Nell’inchiesta erano coinvolti l’ex vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Ugo Zilletti e il Procuratore capo della Repubblica di Milano, Mauro Gresti.
Il documento di Sica partiva dall’inchiesta sull’assassinio Pecorelli del marzo 1979 per rammentare che documenti relativi a Licio Gelli e alla P2 erano stati ritrovati fin da allora. Pecorelli aveva infatti un appunto da cui risultava che “Gelli era stato officiato per interferire nella nomina del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e che la massoneria voleva il processo a carico di Vito Miceli per consentirgli dì attaccare pubblicamente l’on. Giulio Andreotti”. <324
L’azione della Procura romana aveva portato ad un vigoroso attacco mediatico. Domenico Sica nel suo documento aveva omesso di spiegare perché tali documenti erano rimasti a riposare per anni saltando fuori solamente dopo che i giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo avevano sequestrato parte dell’archivio di Gelli <325. Franco Scottoni, su “Repubblica” commentava:
“Gallucci ha ricordato soltanto che in caso di conflitti di competenza l’ultima decisione spetta alla suprema Corte di cassazione. Purtroppo l’esperienza fatta in passato, in particolare per alcune inchieste scottanti lascia presagire che quando vengono sollevati conflitti di competenza c’è qualcosa che cova sotto il fuoco. Il più delle volte i conflitti preannunciano affossamenti e depistaggi. Sarà così anche per la P2? <326.
Il 2 settembre 1981 la sezione feriale della corte di Cassazione, presieduta da Giovanni Cusani <327, spostava a Roma tutto ciò che riguardava la vicenda P2, pronunciando sentenza con la quale riconosceva interamente “la validità delle ragioni tratte a fondamento della denuncia di conflitto sollevata da quest’Ufficio”, rivelando “la odiosa strumentalità della speculazione polemica che ha scandito i vari momenti della procedura di conflitto e conferma come il puntuale rispetto della legge processuale da parte di tutti, fuori da ogni pur generoso attivismo, è condizione non soltanto dell’ordinato svolgersi della ricerca probatoria ma anche “della credibilità dei risultati che ad essa debbono conseguire” <328.
[NOTE]
323 CP2, Documentazione raccolta dalla Commissione, Documenti citati nelle relazioni, 2-quarter/3, Tom. V, Vol. III, Documenti inerenti il conflitto di competenza tra la Procura della Repubblica di Roma e la Procura della Repubblica di Milano, in ordine al procedimento penale a carico di L. Gelli ed altri, pp. 309 e ss.
324 Ibid. p. 312.
325 I giudici di Milano: No all’avocazione per la P2, «L’Unità», 24 giugno 1981.
326 F. Scottoni, «La Repubblica», 25 giugno 1981.
327 Descritto da Gherardo Colombo “non un esempio di terzietà, ossia di equidistanza rispetto alle parti” poichè “fonde nella propria persona le qualità di giudice e di difensore, in quanto nella prima veste è chiamato a giudicare quale ufficio debba occuparsi dei reati legati alla P2, e nella seconda veste assiste un collega iscritto alla loggia”, in G. Colombo, Il vizio della memoria, op.cit., p. 98.
328 CP2, Documenti citati nelle relazioni, 2-ter/5/III, pp. 343 e ss, Requisitoria del procuratore della Repubblica di Roma del 29 maggio 1982, dott. A. Gallucci, procedimento a carico Licio Gelli.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro: storia politica della Commissione d’inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2014/2015