Nell’entroterra montano di Pescia dal 6 al 7 settembre 1944 le fucilazioni e le sevizie continuarono con due episodi atroci

Montecatini – Fonte: Mapio.net

L’arrivo dell’esercito alleato, per quanto amareggiato nel ricordo delle tante vittime che avevano gettato nel lutto intere famiglie e nella costernazione l’intera popolazione della Val di Nievole significò la riconquista della libertà da ogni oppressione. Montecatini, come città ospedaliera, ne era uscita abbastanza indenne, salvo il bombardamento sulla stazione ferroviaria. Il ricordo dei montecatinesi vittime dei tedeschi riportò immediatamente alla memoria e alla commemorazione i nomi dei caduti. Nell’eccidio del padule avevano lasciato la vita cinque cittadini di Montecatini. Essi erano: il partigiano Enrico Magnani, impiegato; Salvatore Galiero, agente di Pubblica Sicurezza; Augusto Lucchesi, pensionato; Maria Rita Valli e Maria Teresa Bendinelli casalinghe.
Altri caduti dei quali in città resta viva la memoria erano stati anche Adriano Giovannini fucilato il 19 giugno 1944 in località Maona; il milanese Attilio Spinetti ucciso nello stesso giorno in corso Roma. Due giovani, il ventenne Bruno Baronti e il ventunenne Fosco Spinelli impiccati nella centralissima piazza del popolo. In località Maona, l’11 agosto erano stati fucilati quattro coloni: Antonio Boninsegni, Fausto Franceschi, Marino Agostini e Italo Lasurbi. Infine, il 12 settembre, catturati sulla collina di Montecatini e portati a Piteglio, erano stati fucilati dai tedeschi in ritirata i fratelli Giorgio e Luciano Guermani rispettivamente di 18 e 17 anni.
L’incubo dei rastrellamenti, delle deportazioni e delle esecuzioni sommarie era finito, ma la sofferenza e il disagio continuavano in città e nell’intero territorio della Val di Nievole sotto i raid aerei alleati e i cannoneggiamenti dell’una e dell’altra parte. Sia la mietitura che la vendemmia erano state abbandonate nei campi mentre nei paesi molte e ingenti erano le devastazioni subite dalle abitazioni civili. Come prima dell’eccidio, anche nei giorni che seguirono la tragedia le giornate erano umide, afose e senza ombra di vento.
Non pioveva da mesi e la vegetazione palustre aveva finito col superare l’altezza d’uomo, ma adesso le capanne e i fossati non erano più un rifugio né per i partigiani, né per gli sfollati sfuggiti al massacro né per i pochi contadini miracolosamente rimasti illesi perché fuori dalla direzione di marcia dei plotoni della morte. Mentre il colonnello Ernst svolgeva una finta inchiesta sull’eccidio all’interno della 26a divisione corazzata tedesca, i parroci di Cintolese, Ponte Buggianese e Chiesina Uzzanese accompagnavano uomini e donne alla sepoltura dei morti nei cimiteri, apponendo sulla tomba improvvisasta una croce di legno con i nomi delle vittime scritti con vernice nera.
I responsabili diretti di quell’eccidio prima degli anni Cinquanta sarebbero stati giudicati e condannati. Tribunali militari italiani inflissero a Peter Eduard Crasemann dieci anni di carcere, ma ne scontò pochi morendo in prigione nel 1950; a Josef Strauch fu comminata una pena di sei anni , ma il feldmaresciallo Kesselring, che nel 1947 a Venezia un tribunale militare britannico aveva condannato alla pena capitale, venne graziato per il diretto intervento di Winston Churchill che lo giudicava «un avversario duro, ma leale e di grande valore».
Negli anni che seguirono, a fronte del dolore per le perdite umane subite nel corso dell’ultimo anno, vi era però la consapevolezza che sarebbe stato possibile riprendere, dopo cinque anni di guerra e un ventennio trascorso sotto il regime fascista, le buone opere di un tempo. Ora la città termale di Montecatini poteva tornare ai suoi figli e l’Amministrazione comunale, su designazione del CLN approvata dagli Alleati, poteva nominare Arrigo Sorini alla carica di primo sindaco del dopoguerra.
Nei mesi successivi gli Alleati designarono Commissario straordinario il colonnello d’aviazione Piero Incerpi che resse l’Amministrazione fino a metà aprile 1945 allorché la Prefettura di Pistoia nominò una Giunta comunale formata dall’avvocato Mario Marchetti – che verrà poi eletto sindaco della città nell’ottobre 1946 e confermato nel mese di giugno 1951 – da Plinio Biondi, Emilio Lupori, Sirio Moncini, Eugenio Natalini, Gastone Vanneschi ed Eugenio Ghilardi. Gli amministratori si trovarono davanti a problemi di una difficoltà e complessità eccezionali. La città di Montecatini, anche senza aver subito danni rilevanti, era stata praticamente ridotta a una paralisi durata tre anni. La stazione era gravemente danneggiata e la ferrovia non funzionava dal momento che nel corso della ritirata verso la Linea Gotica genieri tedeschi avevano fatto saltare con la dinamite diversi ponti e lunghi tratti di binario.
L’autostrada Firenze-Mare, al pari delle vie provinciali che collegavano Montecatini a Lucca e Pistoia, aveva riportato danni notevoli che richiedevano urgenti e ingenti riparazioni. I veicoli scarseggiavano per cui sia le comunicazioni stradali, oltre a quelle ferroviarie, erano estremamente ridotte. Gli stabilimenti termali e il regime delle acque avevano bisogno di attenti controlli. Infine gli alberghi, anche se non avevano subito danni alle loro strutture, avevano bisogno di un generale riordino dai danni interni subiti a seguito del lungo ricovero di sfollati anglo-maltesi e di due successive occupazioni militari, dapprima quella tedesca e poi quella americana che dentro e fuori di molti alberghi avevano allestito servizi da campo.
Come accadeva nei paesi vicini, da Monsummano a Pescia, Larciano e Lamporecchio, Ponte Buggianese e Chiesina Uzzanese, Massa Cozzile e Borgo a Buggiano, la città non si lasciò scoraggiare e superando mille difficoltà affrontò subito le necessità più urgenti mettendo in marcia tutto ciò che poteva essere riattivato, continuando a operare nella convinzione che la ripresa sarebbe venuta solo alla fine di un lungo e faticoso lavoro di ricostruzione. Il ripristino dei servizi cittadini, dopo il disordine e le distruzioni causate dagli avvenimenti bellici, rappresentava il problema più urgente per gli amministratori che si trovarono a dirigere i Comuni subito dopo la Liberazione.
La viabilità esigeva un generale ripristino con la bitumatura delle strade rimaste dissestate dopo le vicende belliche per cui si rendeva necessaria la costruzione di nuovi fondi stradali. Era così anche per la rete delle fognature saltate laddove erano avvenute esplosioni durante il conflitto e per la necessità di agevolare le famiglie che avevano avuto, come a Pescia e nei paesi del suo hinterland, le case fatte esplodere dai tedeschi. In particolare a Montecatini vi era la necessità di rimuovere il piccolo cimitero dove erano sepolti i soldati tedeschi morti sul fronte dell’Arno. Una volta provveduto a questa pietosa operazione, fu deciso di costruire in quello stesso spazio, dove tuttora si trova, il nuovo campo sportivo.
La rete di distribuzione dell’energia elettrica doveva essere ulteriormente stesa così come dovevano essere ampliati alcuni immobili, come il mercato coperto, necessari per le accresciute esigenze della città. A fronte di queste e molte altre esigenze l’Amministrazione comunale provvide con i ricavi derivanti dalla partecipazione all’azienda termale che, finita la guerra, vide rapidamente aumentare i suoi ospiti dai 2.047 arrivi del 1945 ai 32.370 dell’anno successivo fino ai 71.040 del 1950.
Altra fonte di introiti furono i proventi derivati dalla temporanea riapertura del Casinò municipale Kursaal che fruttarono, in appena cinque mesi di attività, dal febbraio al luglio 1946, un importo di 5 milioni di lire destinato a pareggiare le spese del bilancio comunale cresciute in virtù dei notevoli investimenti fatti per la realizzazione delle opere pubbliche che si erano rese necessarie. Ma nelle due prime settimane di settembre, nell’area a nord-ovest della Val di Nievole, la “guerra ai civili” doveva ancora raggiungere il suo tragico epilogo.
L’ultima vendetta delle truppe tedesche in ritirata verso i baluardi della Linea Gotica si consumò a Pescia e nel suo entroterra collinare in quelli che Dino Birindelli ha chiamato gli ultimi, terribili ‘Tre giorni di settembre’. Quella vendetta non si esaurì dal giorno 4 al 6 di settembre, ma proseguì con una scia di uccisioni anche oltre. Le persecuzioni contro la popolazione erano iniziate il 22 luglio con 2 civili fucilati a Vellano e alcune case del paese messe a ferro e fuoco. Erano proseguite quattro giorno dopo , il 26 luglio a Collodi con la fucilazione di altri 6 cittadini del paese per rappresaglia. Lo stillicidio si era poi trasformato in strage – anche in virtù delle nuove ordinanze militari tedesche che garantivano l’impunità a quanti, nel corso della caccia ai partigiani, eccedessero nell’ammazzare i civili – il 17 agosto ancora a Vellano e dal 17 al 19 agosto nell’orribile eccidio di San Quirico.
«Qui», come ricorda Calamari, «per tre giorni il ridente paese della Valleriana viene devastato e incendiato e vede cadere, come epilogo della tragedia, nel suo cimitero, dove erano state precedentemente scavate le fosse, 20 vittime rastrellate a caso sulla strada di Pietrabuona, composte nella quasi totalità da uomini che, ignari e fidenti, se ne ritornavano al loro paese da dove erano stati strappati e trascinati ai lavori di fortificazione della Linea Gotica». Tra i caduti di Vellano vi erano due partigiani: il diciannovenne Valerio Calanchi di Capannori (Lucca) e il ventenne Elio Mari da Medicina.
Anche nell’efferato eccidio di San Quirico,già ricordato in precedenza, vi furono vittime giovanissime come Renzo Tognazzoni da Pietrabuona di 16 anni, Oreste Biliotti da Livorno di 19 anni o altri come Luigi Gragnoli da Pietrasanta ed Enzo Pettini di Viareggio appena ventenni, assieme ai poco più che trentenni Osvaldo Pascaglini da Camaiore, Ugo Papini da Pietrasanta, Macchi Cesare da Pisa. Gino Lotti da Livorno e il pesciatino Francesco Del Monaco.
«Seguirono», scrive ancora Calamari, «le fucilazioni di Collecchio, le raccapriccianti impiccagioni di Pescia, i mitragliamenti di Malocchio e di nuovo le fucilazioni del Paradisino” fra il 3 e il 6 di settembre e poi ancora “altre vittime tra il 7 e l’8 a Collodi, a Vellano, a Medicina fino alla liberazione della città da parte delle truppe alleate andando incontro alle quali morì, sotto un indiscriminato cannoneggiamento tedesco, il genero so Rubo Italo Incerpi». <87
Il 3 settembre due partigiani sorpresero due soldati tedeschi che stavano disattivando una linea telefonica nei pressi del Palagio e nel conflitto a fuoco che ne seguì li uccisero. Immediatamente il Comando tedesco dette il via ad un rastrellamento di casa in casa, ma non riuscendo a trovare uomini da accusare di essere gli autori dell’uccisione dei due soldati tedeschi , ne prelevarono 6 dalle carceri e l’indomani impiccarono agli alberi di viale Forti lungo il fiume Pescia vicino al ponte di San Francesco.
Come se non bastasse il sacrificio di questi pesciatini, tra i quali vi erano due giovani, Silvano Di Piramo di 23 anni e Natale Goiorani di 26, assieme a Ernesto Campioni, Foresto Fantozzi, Alberto Lippi e Gino Rosi di qualche decennio più anziani, il giorno successivo la ferocia nazista si scatenò al punto di annunciare che Pescia sarebbe stata incendiata. Immediatamente il vescovo Angelo Simonetti scrisse una lettera di supplica affinché la città fosse risparmiata da altri lutti e rovine e dopo averla presentata al capitano reggente del Kommandantur nella palazzina Massagli ottenne una risposta rassicurante.
Per tutta la giornata del 4 settembre proseguirono però i rastrellamenti tedeschi con la cattura e l’uccisione a Collecchio – dove altri 2 tedeschi erano stati uccisi – di Umberto Carboncini e dei suoi due figli Bruno di 17 e Gualberto di 19 anni e con l’ arresto di altre 14 persone, 5 delle quali il giorno successivo furono rimesse in libertà. Nella stessa giornata erano stati catturati e immediatamente impiccati dai tedeschi tre partigiani “gappisti – i fratelli Abramo e Iacopo Carrara, l’uno di 21 e l’altro di 31 anni di Altopascio, e Amleto Fagni di 20 – ma la vendetta tedesca continuò.
«Per pareggiare il conto della spietata legge di guerra che reclamava la vita di dieci italiani per ogni tedesco ucciso, poiché undici erano stati trucidati, ne mancavano nove». Oltre ai fratelli Carrara vennero così impiccati ai platani del viale Garibaldi Mario Bonelli, Giovanni Franchi e suo figlio Mario di 21 anni, altro Mario Franchi, Alarico Landi, Gabriello Pucci e il figlio Pierluigi di 21 anni, Attilio Vezzani. A parte Achille Del Re sfollato da Viareggio, erano tutti cittadini di Pescia dei quali Calamari ha lasciato scritto un toccante ricordo.
«Dei nove appesi ai platani di viale Garibaldi vogliamo dare particolare risalto non solo per l’atrocità della morte resa orrenda per il supplizio di padri accanto ai propri figli, ma ancora perché militavano tutti nell’antifascismo. Insieme al padre Giovanni Franchi pende il giovane figlio Mario, mutilato di guerra, e col padre Gabriello Pucci il figlio Pier Luigi da poco diplomatosi perito agrario. Accanto ad essi trovano il martirio Alarico Landi, cuore mite e anima grande, che la persecuzione fascista aveva tanto amareggiato e al quale aveva appena arriso l’albore della liberazione per riprendere, con l’antica fede, il suo posto di lavoro e di battaglia, e Mario Bonelli, di squisita gentilezza, tutto lavoro e famiglia». <88 Provenivano, invece, dalla località Galleno di Chiesina Uzzanese i tre gappisti Amleto Fagni e Carrara Abramo col figlio Iacopo.
Frattanto, nell’imminenza della ritirata il comando supremo della Wehrmacht a Barga di Lucca ordinò al Kommandantur di piazza a Pescia che aveva sede a Colleviti di minare e far saltare i tre ponti cittadini. Il 2 settembre fu la volta di quello del Marchi a sud, il 6 di quello davanti alla chiesa di San Francesco e infine, il 7 anche di quello centrale tra il Duomo e la piazza. Per completare il quadro dei caduti, Calamari cita i nomi di 8 vittime decedute in seguito al crollo di case minate dai tedeschi e di altri 13 morti per i cannoneggiamenti tedeschi sparati dalle colline il 12 e il 13 settembre, dopo la liberazione della città.

Pescia – Fonte: Wikipedia

Nell’entroterra montano di Pescia dal 6 al 7 settembre 1944 le fucilazioni e le sevizie continuarono con due episodi atroci che abbiamo già citato ma che qui, stante la loro brutalità, vogliamo ricordare ancora una volta : il primo in località San Lorenzo su due giovanissime sfollate, Miriam Cardini di anni 15 e Stiavelli Iris di 21 anni, seviziate e uccise a Pietrabuona e quello avvenuto a Vellano il 14 settembre ad opera di una pattuglia tedesca in ritirata che uccise a colpi di mitra Giuseppa Sansoni nel cimitero mentre pregava sulla tomba del figlio Vanni, fucilato dai tedeschi il 22 luglio.
Oltre a questi episodi, fra il 7 e l’8 settembre, furono i partigiani ad offrire il loro tributo di sangue nell’imminenza della liberazione della città. A Collodi vennero, infatti, catturati e fucilati tre giovani partigiani che abitavano a Livorno: Giovannino Del Conte di 19 anni e il fratello Mauro di 25 assieme a Gino Bianconi di pari età. L’indomani, a Vellano, cadevano sotto il mitragliamento tedesco Vittorio Bianconi di 22 anni, Vittorio Sansoni di 27, ambedue di Sorana e Cesare Disperati di 52 anni di Medicina.
Le pattuglie tedesche in ritirata dalle valli a nord di Pescia verso i contrafforti della Linea Gotica continuarono, anche dopo la liberazione di Pescia, a seminare morte e terrore lungo le strade che, per direzioni diverse, da Pietrabuona portano a Vellano, San Quirico, Aramo, Medicina, Stiappa, Castelvecchio e ancora oltre fino a Sorana, Calamecca e Pontito, nome inizialmente dato alla propria formazione partigiana da Manrico Ducceschi.
Franca Gemignani Lupi è stata diretta testimone della drammatica vita dei residenti e degli stessi partigiani in quella zona montana che da Calamecca va fino alla Femminamorta. Essa ricorda perfino che una fortezza volante alleata, schiantatasi sotto tra la Serra e gli alberi della Macchia Antonini, rimase vigilata a lungo da soldati tedeschi inviati dalla Todt di Casa di Monte per impedire a chiunque di avvicinarsi al relitto fino a quando ogni suo parte residua non fu controllata.
«Era il 19 settembre 1944. Le SS che provenivano dal Mulino dei Tarquini – dove avevano messo ventitré prigionieri in fila indiana, ma poi, dopo essersi rifocillati, li avevano liberati – erano scese dalla Serra a Calamecca da dove proseguirono il loro cammino lungo il fiume Pescia in cerca di vittime. Nel paese di Crespole avevano ucciso la madre di Armido, la Catera, la zia Filomena e poi, crivellati di colpi, Settimo ed Enrico, due uomini che non vollero fuggire verso Pescia perché si erano calati in buche ben mimetizzate sicuri che nessuno li avrebbe scoperti.
Le SS ordinarono alla gente del paese di rifugiarsi dentro una grotta, ma quando le persone furono dentro i tedeschi gettarono delle bombe a mano. La mattina dopo, Angiolina Pelleschi, Germana Giovannini, Silvano e Oscar Pocci vennero rinvenuti morti sopra un mucchio di foglie. I 32 superstiti della strage scapparono più a valle verso il Mulino di Pallino. Era il 20 settembre 1944. Più a nord, sempre lungo il fiume Pescia, in località For Cavallaia furono uccisi Esilda Zini, Vittorio Zini e Rosa Finocchi. Ma la strage non era finita.
Le SS, passando da Lavacchio, risalirono verso Calamecca. Qui, nella casa che prima era stata sede del Comando tedesco trovarono due anziani e una vecchi inferma di oltre ottant’anni e li uccisero senza pietà. Il mugnaio Bruno Biagi, avendo incontrato due ragazze terrorizzate dal fatto che i soldati tedeschi, ai quali preparavano da mangiare, sembravano impazziti forse perché anch’essi impauriti dalle SS, suggerì loro di fuggire. Esse, invece, si nascosero, ma, appena scoperte, vennero riportate alla Macchia Antonini dove vennero barbaramente uccise il 25 settembre nella concimaia di quella fattoria
Il paese di Calamecca, nell’antica piazza che commemora il soggiorno di Francesco Ferrucci e l’abate Pietro Contrucci, patriota del Risorgimento, con una lapide ricorda “l’olocausto dei figli di questa terra montana” con i nomi delle 15 vittime di quel 19 e 20 settembre 1944: Attilio Pocci, di anni 64; Maria Biondi di anni 55; Oscar Pocci, di anni 14; Silvano Pocci, di anni 12; Angiolina Polleschi di anni 62; Giulia Giovannini di anni 28; Germana Giovannini di anni 20; Vittorio Zini di anni 84; Esilda Ducceschi di anni 65; Ernesto Cioletti di anni 69; Elide Biagi di anni 58; Ersilia Piastrelli di anni 86; Margherita Pelleschi di anni 18; Rosa Finocchi di anni 67; Luisa Biagi di anni 22». <89
87 Giuseppe Calamari, In memoria delle vittime pesciatine della scellerata barbarie nazifascista, op. cit., p. 9
88 Dino Birindelli, Pescia 1944. Tre giorni di settembre, op. cit., p. 26 e seguenti.
89 Franca Gemignani Lupi, Calamecca chi non ci porta non ci lecca, Stamperia Artigiana Pistoia 1995, pp. 244 e segg.
Vasco Ferretti, La resistenza nel pistoiese e nell’area tosco-emiliana (1943-1945). Rivisitazione e compendio di una terribile guerra di liberazione, guerra civile e guerra ai civili, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, giugno 2018