Nemo rifiutò di consegnare Testa tenendo la pistola sul tavolo

A Francesco Gnecchi Ruscone da bimbo in casa insegnarono che “ogni privilegio è un debito”: etica cavalleresca che impone un “ritornare” ciò che si è avuto e che formò il carattere del protagonista di Missione “Nemo” – Un’Operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-45 (Mursia). Cooptato da Emilio Elia, detto Nemo, (capitano di corvetta della Regia Marina, già combattente nella I Guerra mondiale, poi nella II, quindi primo questore di Milano), doveva eseguire rilievi cartografici della linea difensiva progettata dai tedeschi a nord del Po. Elia dopo l’8 settembre ’43 agì per l’Intelligence britannica per trasmettere notizie militari, industriali e politiche. Obiettivo finale degli Alleati era “stabilizzare l’Italia del dopoguerra dal punto di vista sociale prima che politico”. Cardine della ricostruzione i bacini idroelettrici, fornitori di energia alle industrie di pianura. “Nemo Op. Sand II” con “sand” (=sabbia) si riferisce allo sbarco di Elia (portato dagli Alleati) in un paesino delle Cinque Terre.
Le scelte di Francesco, in linea con la sua famiglia di soldati, nascono improntate ad onore ma con pragmatismo. Ritiene lo sbarco degli Alleati in Sicilia “un’invasione di truppe straniere”. Per non “tradire” va, per arruolarsi volontario, al Distretto di Milano. “Guagliò non fare ‘o fesso, vattene a casa”, lo blocca il sergente di servizio.
Una settimana dopo cade Mussolini, per la sua famiglia risorgimentale “l’uomo della sfida sfacciata all’autorità della monarchia”. A casa si leggevano giornali stranieri, il padre Gianfranco, tenente di cavalleria, era stato schedato come ostile al Regime per non aver preso la tessera del Pnf, ma ad inizio guerra riprese servizio. Su Francesco, dodicenne quando fu conquistata l’Etiopia, influiva il fascino del cugino di mamma, Paolo Caccia Dominioni, allora al comando di un battaglione di ascari eritrei. Mamma Antonia, già studentessa dalle Suore del Sacre Coeur di Parigi, pianse una volta in 90 anni: per Parigi conquistata nel ‘40 dai nazisti.
Pianse anche Emilia Jona Pardo (il cui figlio di recente consegnò la Medaglia dei Giusti alla famiglia Custo che li ospitò in guerra): pianse, ritenendola “fine della civiltà”, con la sua insegnante di francese, Soeur Feliz delle Suore della Misericordia di Nevers. Niente più dello studio aiuta a capire un popolo e perciò lo rende caro.
Mio padre triestino, città infiammata da ideali, allora sul fronte Occidentale nel 5° Reggimento Artiglieria Pesante Campale (Divisione Po), era convinto “che i tedeschi stessero togliendo le castagne dal fuoco per l’Italia”. All’armistizio del 24 giugno ’40 che alla “pace europea mancasse persuadere i Balcani per via diplomatica e vincere l’Inghilterra, che la Germania avrebbe facilmente vinto”. Più pragmatico Gianfranco, padre di Francesco, pensava che “in caso di vittoria la Germania avrebbe sottomesso l’Italia, in caso di sconfitta avremmo avuto miseria e vergogna”.
Con lo stesso pragmatismo Francesco, ventenne studente del Politecnico, si lascia cooptare da Nemo perché, caduto Mussolini, ritiene “il problema maggiore portare l’Italia fuori dalla guerra”. Parte in bici per la missione con due libri: Kim di Kipling e Introduzione all’Architettura moderna di Sartoris. Dopo un anno di attività, torturato dalle SS germaniche di Padova, non fa il nome di nessuno dei compagni. Riscattato con un pagamento in monete d’oro, commenta: “Gli eroici nibelunghi, prima del fugone finale, sono diventati un’anonima sequestri”.
In corollario alla missione, è mandato a recuperare 40 casse di documenti segreti dell’Archivio di Stato, trafugate dai tedeschi, tra cui viene ritrovata la collezione numismatica di Vittorio Emanuele III. Nel suo raccontare, ciò che più piace, è il proporsi senza enfasi. Di sé e dei suoi compagni dice: “In noi un po’ di Sandokan e Don Chisciotte, di Primula Rossa e Gianburrasca, dovevamo fare quello che ci pareva giusto e farne un buon lavoro”.
Nella premessa Marino Viganò, diplomato in Scienze politiche alla Cattolica di Milano, dottore di ricerca in Storia militare a Padova, sottolinea: “In Inghilterra Harry Hinsley tra il 1979 e il ‘90 pubblicò in cinque volumi la storia dell’Intelligence, mentre la storiografia italiana ad ora non ha avuto quasi accesso alle carte del SIM (Servizio Informazioni Militare). Per raccontare “Missione Nemo” ha scelto Gnecchi Ruscone perché ne lesse l’ autobiografia in inglese, del ‘99: Quando essere italiani era difficile. Così difficile raggiungere le carte del SIM che lo storico Gianfranco Bianchi riferisce sulla “Nemo”(Per la Storia, Vita e Pensiero, 1989) in 10 righe “autocompiaciute” (secondo Viganò) per la scoperta. Bianchi è stato giornalista per 50 anni, storico del Fascismo di cui raccolse documenti dalla caduta di Mussolini. Grande educatore di coscienze di giovani, fondò con Apollonio la Scuola della Comunicazioni Sociali, con sede prima a Bergamo poi alla Cattolica.
Nell’appendice documentaria, redatta da Viganò con Susanna Sala Massari, colpisce il fiume di denaro (finanziamenti della missione) da gruppi industriali e banche, italiani ed esteri. Nell’elenco nominativo dei quasi 200 collaboratori, anche don Paolino Beltrame Quattrocchi e Suor Giovanna.
Maria Luisa Bressani

Francesco Gnecchi Ruscone è un vigoroso novantenne d’antica famiglia lombarda che ha partecipato con onore alla Resistenza (Missione «Nemo». Un’operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-1945, Mursia 2011), per poi laurearsi in architettura al Politecnico di Milano. Nella sua lunga vita ha alternato la professione di architetto all’insegnamento al Politecnico milanese, ma anche periodi a Yale. Alberto Saibene, Intervista a Francesco Gnecchi Ruscone, Una città, gennaio 2014

Motivazione della medaglia di bronzo al valor militare conferita a Francesco Gnecchi nel 1945 – Fonte: bartesaghi-verderio-storia

Caro Bartesaghi
Certamente mi farà piacere vedere le mie pagine sui giorni della Liberazione di Milano, non tanto per la cronaca delle vicende militari in verità modeste -in particolare le mie- anche se importanti per i risultati più generali sull’accelerazione della resa tedesca, quanto perchè penso che la mia prosa possa offrire un quadro spassionato di situazioni e di fatti che ideologie e retorica hanno spesso deformato.
Per quanto riguarda la premessa i miei rapporti con Verderio sono legati alla mia vita alla Bergamina, che nella mia memoria sentimentale continua ad avere la posizione di “home”, come dicono gli inglesi, più che ai più lunghi e articolati ricordi della mia famiglia in generale […]
Con l’avvicinarsi della Liberazione il nostro gruppetto, diventato brigata “Marescotti”, si era di molto accresciuto di nuove reclute e naturalmente ci è stato chiesto non solo di costituirne i quadri ma anche di darci una struttura più regolare e conforme a quella delle altre brigate. Così abbiamo tenuto in uno di quei pomeriggi una riunione costituente.
Alberto Tosi, che con un bel curriculum di azioni coraggiose consideravamo quello con maggiori possibilità di darci una qualche forma di organizzazione, si è ritrovato comandante, Guido ed io i suoi vicecomandanti con mezza brigata, all’incirca 35 uomini ciascuno, Fabio Semenza, sospettato di aver letto Benedetto Croce,nostro commissario politico. Non che un gruppo come il nostro ne sentisse un gran bisogno, ma gli ordini sono ordini e dovevamo avere anche quell’incarico. Devo aggiungere che Fabio ha sempre fatto la sua parte con encomiabile discrezione e che, se ha mai tentato di indottrinarci, non ce ne siamo accorti.
La sera del 25 aprile 1945 è finalmente arrivato l’ordine di entrare in azione.
Quel pomeriggio ero riuscito a trovare un forbicione da giardiniere, di quelli usati per tagliare le siepi, e mi sono liberato del mio gesso.
Ci siamo tutti ritrovati nello studio dell’ingegner Semenza padre. All’alba del 26, la sorella di Fabio, nell’aprire il portone, si è trovata davanti un soldato repubblichino e ha fatto il primo prigioniero della liberazione di Milano. Era un giovinotto perplesso almeno quanto noi e, in mancanza di idee migliori sul destino dei nemici catturati, [lo] abbiamo promosso autista di una delle nostre automobili, carica di cui avevamo bisogno. Ci ha servito fedelmente per diversi giorni finché non è sparito lui e la macchina. Forse ora vanta benemerenze partigiane.
Poche vie più in là, in casa Dell’Orto, avevamo macchine e armi: le abbiamo raccolte e siamo partiti.
Il nostro primo obiettivo era un Kommandantur tedesco in via Sant’Andrea, oggi nel cuore del Quadrilatero delle boutique di moda. Così abbiamo preso posizione secondo i migliori canoni tattici: Guido e i suoi all’angolo con via Spiga, un centinaio di metri dal portone da conquistare, io e i miei arrampicati sulle rovine di una casa bombardata in via Gesù che davano verso il giardino sul retro del nostro obiettivo, con il compito di coprire con il nostro fuoco quella facciata.
Francesco Gnecchi Ruscone in bartesaghi-verderio-storia, 19 aprile 2014

Non a caso un rapporto OSS dell’agosto 1945, classificava la Nemo Mission come la più estesa ed efficace rete spionistica che abbia agito in Nord Italia nel periodo 1944-’45.
Di tutto ciò ben poco tratta il libro di memorie recentemente edito col titolo “Missione Nemo” (sottotitolo: “Un’operazione segreta della Resistenza militare italiana 1944-45”) a firma di Francesco Gnecchi Ruscone, i cui scarni contenuti sono tuttavia compensati dall’esauriente introduzione a cura di Marino Viganò al quale si deve inoltre la corposa appendice documentaria prevalentemente inedita, che rappresenta la parte di maggior interesse.
I limiti delle memorie di Gnecchi Ruscone derivano dal fatto che egli entrò giovanissimo e per breve periodo di tempo (nov.’44-gennaio ’45) nell’organizzazione “Nemo”, dove venne utilizzato in ruoli ausiliari d’informatore sulla dislocazione di fortificazioni e reparti militari dell’Asse nell’area del Triveneto[…] Se dovessimo tuttavia personalizzare la “Nemo”, il volto principale non sarebbe tanto quello del cap. Elia, per quanto ne avesse formalmente il comando, ma quello più sfuggente e volpino di d. Paolino.
Se guardiamo, infatti, alle principali direttrici sulle quali si è concentrata l’azione della “Nemo”, si vede che i tre poli fondamentali, geograficamente identificabili in Parma, Milano e Trieste, sono gli stessi in cui d. Paolino a partire dal settembre 1943 e fino al gennaio 1944 aveva iniziato a deporre le “uova di drago” clerico-monarchiche destinate a dischiudersi con i primi tepori primaverili. A Milano c’era, infatti, il card. Schuster in veste – ci si lasci esagerare – di “motore immobile” di tutte le varie trame dirette e indirette, ma il Deus ex machina, il sottostante demiurgo cui aspettava il compito di materializzare le vibrazioni generate dal motore immobile cardinalizio, era appunto d. Paolino che, infatti, a Schuster rispondeva molto più che non al capo missione Elia.
La “missione Nemo” si è man mano andata estendendosi d’importanza fino a raggiungere i livelli solo oggi in parte conosciuti, in quanto ispirata ma soprattutto tutelata e protetta dal cardinale milanese.
Quando poi la trama si sviluppò fino a coinvolgere il centro OSS di Berna, autonomamente pilotato da un pari reazionario come Allen Dulles, le sinergiche potenzialità della “Nemo” si elevarono esponenzialmente potendo contemporaneamente contare sulla collaborazione di SIM, OSS, Vaticano, monarchia e, non ultimo, il capitalismo del Nord che puntava tutte le sue carte sull’accordo Wolff – Cln mediato da Dulles – Schuster per salvare gli impianti industriali sia dal sabotaggio dei Tedeschi prima, che dalle pretese sociali della sinistra rivoluzionaria poi.
Gran parte dei maggiori capitalisti e finanzieri elargirono ingenti somme a fondo perduto a sostegno della “Nemo” tant’ è che a fine guerra il bilancio economico della “Nemo” risultò in attivo di oltre 12 milioni di lire d’epoca avendo ricevuto il cap. Elia al momento del suo sbarco al Nord, una dotazione iniziale di sole 100 mila lire.[26].
Al pari di Parma, Trieste era stata fin dai primi anni di guerra una base d’azione dell’allora cappellano militare d. Paolino Beltrame il quale da Trieste, in stretta collaborazione con il commissario capo di Fiume, Giovanni Paolucci – nipote del vescovo salernitano di Montagna, Giuseppe Maria Paolucci – smistava il traffico di ebrei slavi in cerca di rifugio in Italia e ciò con il pieno seppur tacito assenso – almeno fino al settembre del ’43 – delle varie autorità locali.[27].
A questo punto sorge una domanda pertinente: chi erano le autorità triestine del tempo?
Risposta: dal 1938 fino all’inizio del 1943 prefetto di Trieste era quel tal Temistocle Testa del quale abbiamo trattato in precedenza. A sostituire Testa alla prefettura di Trieste venne in seguito chiamato Agostino Podestà, plausibilmente legato da vincoli di parentela con l’agente “Nemo”, Luigi Podestà [28].
In effetti, il prefetto Podestà venne rimosso nel febbraio 1944 e collocato d’ufficio a riposo nonostante la sua giovane età (classe 1905), in quanto egli pure invischiato nella fuga e relativo occultamento in Italia di ebrei croati. Deferito poi alla Commissione per l’epurazione circa il suo passato di ex Console della Milizia, marcia su Roma e funzionario della Rsi, nel gennaio 1946 il prefetto Podestà fu giudicato non passibile della perdita del diritto alla pensione concessa dalla Rsi, per le altre acquisite benemerenze.
[26] La “Nemo” ricevette fra l’altro 3 milioni da Banca Unione, 10 milioni da Pirelli,, 4 milioni da gruppi industriali vari mentre fra le uscite risultano versamenti a tali sigg. x, y, z di un milione netto di lire cadauno oltre a tale “Dick” a cui fu conferito un importo di 3 milioni di lire, pagamenti eseguiti fra il marzo e l’aprile 1945 ad evidenti fini corruttivi (Cfr. “Missione ” cit. pag. 180-181.
[27] Sul caso particolare del commissario Paolucci ci riserviamo di approfondire la sua figura con apposito articolo.
[28] Il nesso famigliare fra Agostino e Luigi Podestà risalirebbe all’ex prefetto del Regno Emilio Podestà, genovese come Luigi mentre Agostino risulta, invece, essere nato nel 1905 a Novi Ligure.

Franco Morini, Missione Nemo, in Corrierecaraibi.net, 25 febbraio 2012

Un altro punto oscuro di questa vicenda sta nel racconto di Podestà di avere affidato ad un agente di Collotti una lettera da inviare al “dottor Merzagora della Ditta Pirelli” che era “agganciato a Nemo” per “informare quest’ultimo di quanto mi stava succedendo”; il capitano spiega che temeva che Bacolis, essendo in contatto con il CLN milanese, potesse avere segnalato a Collotti anche dei nominativi di Milano (cosa che effettivamente Bacolis fece). Anche nella relazione Rocco c’è un accenno a questa lettera, che sarebbe stata indirizzata “al capo della rete Nemo alla quale Podestà apparteneva. Così Milano era avvertita e così non c’era pericolo che la sede centrale mandasse il radio-telegrafista e la radio (…)”. E su questo punto Spazzali commenta “il capitano Podestà era molto più preparato di quello che può sembrare” , dando per scontato che la lettera giunse a destinazione e non finì nelle mani di Collotti. […] Don Marzari fu ristretto al Coroneo, Ercole Miani fu liberato “tramite un generale ispettore della PS, che era stato pure legionario fiumano” ; Niny Rocco fu rilasciata, mentre la sua amica Licia Severi, che era stata arrestata con lei, fu liberata grazie all’intervento di un amico di suo zio, il “Comm. De Flora” . Ed ancora Rocco ci informa che nel marzo ‘45 si unì al “gruppo Bergera” Tino Straulino, che sarebbe stato “prigioniero degli slavi a Lussino”; inoltre veniva spesso a trovare Podestà il maggiore De Biasio alias Ivo, ed a Pasqua (primi di aprile) venne anche un giovane triestino che lavorava per la rete Nemo. Podestà ebbe un ulteriore contatto con Nemo facendo pervenire, tramite una macchina della X Mas guidata da Pauletta che doveva andare a Lovato, una lettera ad un “comandante Donini” che era stato a suo tempo “allacciato da Podestà alla rete Nemo” . Il 24 aprile Podestà ricevette una lettera da Milano in cui lo si invitava a lasciare Trieste e raggiungere Roma via Svizzera, ma dato che il capitano aveva in sospeso la “questione del porto” rimase a Trieste, inviando a Milano un messaggio tramite De Biasio. La “questione del porto” era che il cittadino svizzero dottor Alberto Fahrni, direttore dell’Hotel Savoia dove alloggiavano diversi ufficiali tedeschi, tra cui l’ingegner Otto Nick della Kriegsmarine (che aveva fatto il progetto per il minamento del porto di Trieste), aveva organizzato una riunione tra Nick, Podestà, Cosulich del Lloyd Triestino, Miani ed altri per giungere ad un accordo onde evitare la distruzione del porto. Miani “non si fidava di Podestà”, e “la cosa rimase tremendamente sospesa” ; alla fine comunque il porto fu salvo, anche se probabilmente non grazie all’opera di Podestà. Di Podestà parla anche una relazione conservata negli archivi di Lubiana, basata sugli interrogatori dell’ex federale Sambo, dell’ex podestà Pagnini, del comandante la Guardia civica Giacomo Juraga (allora detenuti) e su varie testimonianze rilasciate al Consiglio di Liberazione di Trieste, Tribunale del Popolo, nell’estate del ‘45. “Podestà, alias Poletto, sarebbe un genovese inviato ufficiale del CLNAI con incarichi speciali e cioè di organizzare il CEAIS. È risultato però che egli è inviato direttamente da Bonomi, con ampi poteri per raggiungere una coalizione di tutti gli elementi italiani, di qualsiasi colore politico, coalizione che avrebbe avuto il compito di arginare l’avanzata dei partigiani fino all’arrivo delle truppe alleate. Assieme al Podestà lavoravano il Bergera, il col. Punzo (Ponzo, n.d.a.) ed altri pezzi grossi dell’esercito italiano. Il suddetto infine viene arrestato dalla banda Collotti, ma non appena viene in chiaro che egli è inviato con compiti di organizzazione antipartigiana viene immediatamente liberato e si giunge a una specie di compromesso in grazia al quale il Collotti fa il suo ingresso nella coalizione antipartigiana e collabora col CLN. Pare infine che Podestà e Collotti si siano recati addirittura da Mussolini (dal memoriale Baccolis emerge infatti che Collotti dopo l’arresto del Podestà si recò a Milano). Il Bergera, ben conosciuto da Miani, durante l’insurrezione, assieme al Podestà si trovano alla X (Mas, n.d.a.) ed alla Marina repubb. in qualità di ufficiali per il collegamento col CLN. Infine Podestà e Bergera sono arrestati ai primi di maggio e poi rimessi in libertà e spariti” […] A Milano i principali artefici della missione Nemo Elia e De Haag divennero questore e vicequestore”, ed il 25/4/45 Elia fece custodire l’ex prefetto Testa al 2° piano della Questura, da dove questi “continuava a dare ordini al telefono come se nulla fosse accaduto”. Nella prima settimana di maggio arrivarono a Milano alcuni partigiani modenesi comandati da Marventi “che pretendevano la consegna del Testa dichiarato dagli alleati criminale di guerra, per via dei fatti jugoslavi”. Nemo rifiutò di consegnare Testa tenendo la pistola sul tavolo, e poi lo fece custodire a San Vittore per maggiore sicurezza. Due settimane dopo i modenesi tornarono con un ordine del CIC ma neppure questa volta Elia consegnò Testa, lo inviò a Modena per essere rinchiuso nel carcere di S. Eufemia da un ufficiale inglese “responsabile dell’ISLD nell’Alta Italia”. Testa non subì alcun processo e morì, sembra suicida, nel 1949. Nel dopoguerra operò in Alta Italia un “nucleo CS della Rete Nemo” (in cui c’erano Giorgio Manes a Venezia, Felice Scafa a Firenze, Arnaldo Valentini a Milano e Francesco Paolo Di Piazza a Bologna) che raccoglieva materiale informativo sui collaborazionisti, ma in una nota firmata dal Capo Sezione di Roma Giuseppe Massaioli il 25/2/47, si legge che “l’attività spiegata durante la dominazione tedesca dalle persone indicate non interessa il CS” e pertanto ordinava di “soprassedere alle indagini”. “Ghisetti nel dopoguerra continuò ad essere operativo per conto della missione (…) Le reti statunitensi dello zio Scotti, quelle di Palombo e Beolchini, quelle filo britanniche sembrano dissolversi. O forse no. Ad esempio, subito dopo la resa Guido Zimmer tornò in Italia “in divisa militare americana”, ma nello stesso tempo continuava a “costruire la rete Stay Behind nazista” e “grazie ai buoni uffici di Dulles” divenne segretario di Parrilli e fece domanda per la cittadinanza italiana. Nel 1948, insieme ad altre ex SS, lavorò per i servizi segreti della Germania federale” […] Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana, La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013

Temistocle Testa, denunciato dagli Alleati per i crimini commessi quando era Prefetto di Fiume (1938-1943), è noto soprattutto per l’azione di rappresaglia che ordinò contro il villaggio di Podhum nel 1942. Il 16 giugno 1942, a Podhum, furono assassinati i coniugi Giovanni e Francesca Renzi, i maestri elementari della cittadina. Il successivo 12 luglio scattò la rappresaglia. Nell’azione furono fucilati tutti gli uomini del villaggio di età compresa tra i 16 ed i 64 anni. Sul monumento che ancora oggi potete vedere nei pressi del nuovo Podhum sono indicati i nomi delle 91 vittime dell’eccidio. Il resto della popolazione (889 persone) fu deportata nei campi di concentramento italiani e le abitazioni furono tutte incendiate. In precedenza, il 30 maggio 1942 il prefetto Testa rese noto con pubblici manifesti di aver fatto eseguire l’internamento nei campi di concentramento in Italia di un numero indeterminato di famiglie di Jelenje dalle cui abitazioni si erano allontanati giovani maggiorenni senza informarne le autorità: “Sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette famiglie estratti a sorte, per rappresaglia”. Nel 1938 Emilio Elia, era capitano di corvetta in ausiliaria, quando divenne dirigente del silurificio Whitehead di Fiume proprio mentre Testa era prefetto rimanendovi almeno fino al 1941. Elia fu richiamato alle armi nell’agosto del 1943 ed il 31/1/44 fu convocato allo Stato maggiore generale con “incarichi speciali”, che si concretizzarono nell’affidargli la dirigenza del “Gruppo speciale Nemo Op./Sand/II” dipendente direttamente dallo SMRE finalizzata ad “agganciare” il colonnello delle SS Dollmann: tra i membri di “Nemo troviamo anche” l’ex prefetto Testa. Probabilmente per questo il Questore di Milano Elia, subito dopo la liberazione, fece custodire Testa in Questura e quando nella prima settimana di maggio arrivarono a Milano alcuni partigiani modenesi che richiesero Testa poiché “dichiarato dagli alleati criminale di guerra, per via dei fatti jugoslavi”. “Nemo” rifiutò di consegnarlo tenendo la pistola sul tavolo e lo inviò a San Vittore per maggiore sicurezza. Due settimane dopo i modenesi tornarono con un ordine del Servizi Segreti statunitensi ma neppure questa volta Elia consegnò l’ex prefetto, lo inviò in carcere a Modena accompagnato da un ufficiale inglese di nome Podestà “responsabile nell’Inter Services Liaison Department nell’Alta Italia”. A Modena si stava preparando un grosso processo contro Testa, ma a quel punto intervenne Allen Dulles che lo fece prelevare nottetempo da una pattuglia dell’OSS e portare a Roma, dove fu processato, prosciolto dalle accuse ma inviato in soggiorno obbligato in Calabria con la motivazione che “la sua presenza a Roma poteva essere una fonte di disordine”.
Redazione, Temistocle Testa, Con Disciplina ed Onore