Non c’è solo Madama Anastasia che giudica la sceneggiatura

«Trattandosi di un’industria che coinvolge direttamente, coi suoi prodotti, la dignità, l’amor proprio, l’interesse economico e morale dello stato, io non esito a dichiarare che è finalmente necessario che lo stato intervenga direttamente, imprimendo alla soluzione il segno autorevole e severo della sua volontà e del suo controllo» <32, scrive Luigi Freddi, riecheggiando quasi alla lettera un intervento del 1926 al Senato di Galeazzo Ciano, futuro ministro della Cultura Popolare e nume tutelare della linea del direttore generale: «Lo stato fascista, che ha regolato e conformato all’etica sua propria le molteplici attività della vita nazionale, non può rimanere estraneo o limitarsi ad esercitare funzioni puramente negative». Non c’è dubbio che Freddi, conformemente alle direttive e agli orientamenti del regime, mirasse a portare sotto il controllo dello stato la produzione, il noleggio e in gran parte l’esercizio, inquadrando le nuove leve professionali e artistiche tramite un Ente appositamente costituito, ma senza mai porsi l’obiettivo di un vero e proprio cinema di stato, sul modello ad esempio di quello nazista, che si sostituisse completamente alle case cinematografiche. Si trattava piuttosto di edificare un complesso sistema di controlli, sovvenzioni, procedure, sanzioni censorie (del resto, ed è significativo, molto rare <33) che permettesse al regime, senza sporcarsi troppo le mani, di esercitare una costante pressione sull’industria in modo da orientarla verso una produzione tendenzialmente di massa (accuratamente smussata da ogni eventuale, per quanto improbabilissima, frizione con l’immagine ufficiale che il fascismo andava costruendo di sé): che, d’altra parte, ed è un dato fondamentale, era la più adatta a soddisfarne gli interessi commerciali.
[NOTE]
32 L. Freddi, Relazione sul cinema italiano 1933.1934, ristampata in C. Carabba, op. cit..
33 «C’era intanto, e ben funzionante la censura. Ma non per caso Mino Argentieri nel suo documentatissimo libro (M. Argentieri, La censura nel cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1974), allinea solo episodi curiosi o ridicoli di tagli di qualche scena o di modifica o soppressione di qualche battuta o qualche titolo. Madama Anastasia, per i film italiani, le forbici poteva anche averle spuntate. A nessun produttore, se non per disavventura o dabbenaggine, poteva capitare di incorrere nei suoi fulmini. E, a quanto se ne sa, a nessuno è accaduto di sbatterci la testa. Gli strumenti più efficaci del regime erano altri e preventivi. Salvo rarissime eccezioni, e per contarle bastano le dita di una mano, i film in Italia, anche allora, cioè da allora in poi, sono stati sempre realizzati con i soldi dello Stato, che provvedeva ad anticiparli al produttore, in misura fino al 60% del preventivato e presunto costo del film, attraverso la sezione autonoma per il credito cinematografico, prevista dall’art. 9 della legge 13 giugno 1935, n.1143 e poi costituita, come si è detto, col decreto n.2504. Per ottenere il prestito, il produttore doveva “naturalmente” presentare una domanda, e, insieme con la domanda, la sceneggiatura, l’elenco del personale artistico e tecnico, nonché il piano di lavorazione del film ,per il tramite del ministero della Cultura popolare, senza il cui “visto” il comitato per il credito non poteva concedere alcun finanziamento. Come se non bastasse, con legge 30 novembre 1939, n.2125 fu anche introdotto l’obbligo per “chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica” (prima che si decidesse di dire “filmi”, si evitava graziosamente l’uso del barbarico vocabolo) di munirsi, “prima di iniziare la lavorazione”, del nullaosta rilasciato dal ministero della Cultura popolare. E anche in questo caso, per ottenere il nullaosta, chi lo chiedeva doveva corredare la richiesta con una documentazione analoga a quella prescritta per la concessione del credito. A questo punto, è chiaro, l’adempimento della censura diventava una pura e semplice formalità, legata a un improbabile “non si sa mai”, tutto quanto avesse potuto destare inquietudine essendo stato in precedenza sottoposto al vaglio di funzionari dall’occhio addestrato a scoprire qualsiasi eventuale e ovviamente involontaria trasgressione», M. Mida Puccini, L. Quaglietti, op. cit., pp.10-11.
Dario Portale, Ontogenesi di un linguaggio critico. La formazione cinematografica di Guido Aristarco tra dissoluzione del fascismo e rivoluzione neorealista, Tesi di Dottorato in Italianistica (Lessicografia e Semantica del Linguaggio Letterario Europeo), Università degli Studi di Catania, 2011

[…] partendo da un libro del 1985, “La commedia all’italiana parlano i protagonisti” a cura di Piero Pintus, che contiene molte interviste ai maggiori protagonisti della Commedia all’italiana. Fra le diverse domande, le più interessanti riguardano l’identificazione del momento in cui nasce la Commedia all’italiana e le difficoltà che ha avuto la Commedia all’italiana con la censura, chiedendo, inoltre, se la censura potesse essere stata utile stimolo alla crescita della commedia italiana.
Allora, non mi soffermerò sulle risposte relative alla nascita della Commedia all’italiana, anche se è divertente notare che Mario Monicelli afferma che “Roma città aperta” (Roberto Rossellini, 1945) è una commedia all’italiana. Le risposte si diversificano: c’è chi nomina “L’onorevole Angelina” (Luigi Zampa, 1947), altri “Domenica d’agosto” (Luciano Emmer, 1950), “Campo de’ Fiori” (Mario Bonnard, 1943), “L’ultima carrozzella” (Mario Mattoli, 1943), “Quattro passi tra le nuvole” (Alessandro Blasetti, 1942). I titoli variano, viene nominato Fellini come nascita della Commedia all’italiana, e anche “Le ragazze di Piazza di Spagna” (Luciano Emmer, 1952). Le dichiarazioni sono molto interessanti, ricostruiscono, nel 1985, una storia del cinema italiano ormai consolidata, ma maggior valore attribuirei alla risposte sul tema della censura.
Alla domanda: «La censura e l’autocensura – con riferimento alla commedia all’italiana – hanno svolto una funzione solo repressiva o hanno in qualche modo stimolato a percorrere sentieri più sofisticati per riuscire a dire in sostanza le stesse cose?», Age risponde: «Per qualche tempo, la censura ci ha un po’ condizionati, specie per esempio negli anni in cui Scelba era ministro degli Interni. Uno dei film che subì il maggior numero di tagli (34) fu “Totò e Carolina” (Mario Monicelli, 1955). È un film divertente ma appartiene già a un genere di transizione. Totò vi interpreta la parte di un agente di Pubblica Sicurezza e la storia ha una base drammatica. I tagli richiesti da Scelba erano tutti di ordine socio-politico. Oltretutto, appariva disdicevole, che un comico di avanspettacolo indossasse i panni di un poliziotto. Successivamente la legge è migliorata e la censura è andata via via scomparendo. Gli autori si son saputi difendere e anche la mentalità corrente è cambiata. Per evitare gli strali della censura e il divieto ai minori bastava evitare nudi e sequenze erotiche. Incappare in questioni di ordine politico sarebbe stato più pericoloso per i censori che per noi».
Secondo Benvenuti: «La censura era stimolantissima perché spingeva a fare sempre più critica. L’autocensura non credo che ci fosse. La vera piaga era forse la ricerca del successo a tutti i costi. Il confine morale tra lo scrittore e la pagina da scrivere è molto difficile. Forse l’immoralità è l’accettazione della proposta».
Il parere di Piero De Bernardi è che «la censura noi non l’abbiamo subita. L’autocensura era un fatto personale».
Alessandro Continenza, ricorda: «Indubbiamente siamo stati costretti a trovare degli escamotages per esprimere certi concetti che sapevamo graditi ma non direi che questa era una incentivazione alla raffinatezza; perché si sapeva, prima di tutto, di dover escludere a priori e comunque certi argomenti come il sesso e la religione, e poi perché non eravamo aiutati in una nostra eventuale lotta dall’apparato del cinema».
Ennio De Concini afferma: «Io personalmente non l’ho mai subita, forse si trattava di una forma di autocensura di cui non mi rendevo conto. Per esempio, quando pensavamo a una scena la pensavamo in termini crudi e violenti, poi quando si andava a scriverla automaticamente si rendeva più “morbida”. Non era di moda il turpiloquio. Mancava tutto quello che oggi, invece, viene messo. Il progetto passava attraverso questo filtro che non era però la censura, perché non era nelle regole della prassi».
Potrei continuare a leggere queste risposte, ma è interessante scoprire come funzionava questa censura. Nel senso che sulla stampa l’attenzione è sempre andata a “Madama Anastasia”, citando la formula di Mino Argentieri, ossia alla censura che tagliava i film, quella più nota, quella dei vari Pretori che sequestrano i film, bloccandone la distribuzione.
In realtà poco ci si è occupati della censura preventiva. Subito dopo la Liberazione, in Italia, viene abolita la censura, considerata un retaggio del fascismo, ma nella Costituzione viene introdotto l’articolo sul comune senso del pudore.
In pratica, “Madama Anastasia” esce dalla porta ma rientra dalla finestra. Per esempio, partiamo dal film “Un amore a Roma” (1960) di Dino Risi, scritto da Ennio Flaiano ispirandosi all’omonimo romanzo di Ercole Patti. Questa è la copia dei documenti censori di Un amore a Roma.
[…] Questo significa che i produttori erano molto più contenti di cambiare una parte di sceneggiatura piuttosto che dover rigirare. Operazioni simili si trovano su moltissimi film e l’analisi dei copioni conservati all’Archivio di Stato è assolutamente interessante.
[…] Si parlava delle diverse forme di censura. Non c’è solo “Madama Anastasia” che giudica la sceneggiatura. Per aggirarne lacci e lacciuoli, De Sica e Zavattini mandano al Ministero [n.d.r.: in proposito de “La ciociara”] un testo già emendato e quindi sul set il regista comincia a girare, reinserendo le parti espunte.
Recentemente è stato pubblicato un bel libro «Cara Emi, sono le 5 del mattino…» Lettere dal set, di Vittorio De Sica. Il libro contiene alcuni scritti del regista alla figlia Emy, mentre dirigeva alcuni film, fra cui “La ciociara”. I suoi ricordi aggiungono altre informazioni. Nel primo appunto, datato 23 luglio 1960, scrive: «Maledetto il vescovo di Veroli che non ha dato il permesso per la chiesa di Vallecorsa». Subito dopo parla di altre chiese visionate e a Marino e a Fondi. Nei fatti il vescovo non vuole dare la chiesa perché sia Moravia, che De Sica, che Ponti sono pubblici concubini. Una sorta di anatema della chiesa, formale o informale che fosse. Quindi questa è in qualche modo un’ulteriore forma di censura, confermato dalla pellicola. Se si va a rivedere il film ci si può accorgere che la scena finale dello stupro di Rosetta è girata in due chiese. Il frontale è quello di Santa Maria delle Grazie a Vallecorsa (FR) che a De Sica piaceva molto, ma l’interno è una chiesa sconsacrata di Fondi, perché il vescovo alla fine non gli permette di utilizzarne gl’interni della prima.
De Sica scrive alla figlia «Ponti ha ricevuto una lettera dal coproduttore francese che è molto preoccupato per la censura. Abbiamo pensato che, per la sola Francia, i due ufficiali francesi che precedono in camionetta la colonna dei marocchini diventeranno due ufficiali indiani. Speriamo non protesti l’Inghilterra», un ulteriore forma di censura. Aggiunge: «ho girato i finalissimi in due versioni, una per Zavattini e me e l’altra per Ponti, quella per Zavattini è la più moderna e inaspettata, l’altra è di stile più vecchiotto».
Non ci è dato sapere nulla, ma è un’ulteriore forma di censura perché deve girare due finali per avere l’approvazione del produttore. E poi: «Dovremo occuparci anche del materiale di guerra che la commissione del ministero della Guerra ci rifiuta se non includiamo nell’avanzata anche un battaglione di bersaglieri (storicamente esatto ma che per la nostra storia scombina un po’ lo scopo e lo stile della scena) e scrivere di nuovo una o due pagine nelle quali un personaggio, forse Florindo, parla del valore dei nostri eroici bersaglieri immolatisi per la Patria. Ma che c’entra tutto questo con gli americani che masticano chewing-gum e vogliono fotografare le gambe di Cesira».
[…] L’intelligenza dei censori va oltre la mia, non riesco a capire, diciamo che è una motivazione che non riesco a riconoscere. Il manifesto de “La battaglia di Algeri” (1966) di Gillo Pontecorvo è molto interessante, molto conosciuto: viene bloccato su richiesta del Governo francese perché non si doveva vedere la bandiera della Francia, infatti viene poi distribuito con delle strisce che la coprono.
Per offesa al buon costume sono censurati i manifesti di “Poveri ma belli” (1956) di Dino Risi e di “Miss spogliarello”, film diretto nel medesimo anno da Marc Allégret.
Entrambi avevano provocato le rimostranze di Papa Pio XII, che il 5 marzo 1957 si era dichiara indignato perché le mura di Roma erano tappezzate di manifesti cinematografici di grandi dimensioni con figure impudiche, ricordando che il Concordato prescriveva che «in considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere».
È una guerra fra intellettuali e politica, per cui, mentre nel 1959 Eduardo scrive una lettera aperta a «Paese Sera» contro la censura economica del Ministero, l’anno dopo il Ministro dello spettacolo Tupini convoca i dirigenti dell’Anica e fa un intervento ampiamente pubblicizzato da tutti gli organi di stampa filogovernativi a difesa del suo operare.
Io vorrei concludere facendo vedere un ultimo documento. Oltre le altre varie forme di censura di cui vi ho parlato prima ce n’è una ulteriore, che ritroviamo, ad esempio, per “Tutti a casa” (1960) di Luigi Comencini. Quando, negli anni Ottanta, il regista veniva invitato a delle proiezioni del suo film, ormai passato alla storia come un capolavoro, chiedeva sempre la durata della copia che avrebbe rivisto. In realtà il problema è che secondo Dino De Laurentiis, produttore del film, questo era troppo lungo (quasi due ore) e l’eccessiva lunghezza limitava il numero degli spettacoli cinematografici. Ma, oltre a questo, c’è da aggiungere che “Tutti a Casa” veniva distribuito alla fine di ottobre del 1960, tre mesi dopo gli scontri di piazza romani, fra polizia a cavallo e manifestanti, che avevano fatto seguito ai “morti di Reggio Emilia” e ai disordini di Genova provocati dal sesto Convegno dell’MSI nella città medaglia d’oro della Resistenza. Comencini già non aveva avuto l’appoggio dell’esercito mentre stava girando: il regista ricorda che era stato necessario costruire due carri armati posticci, ma, al momento della distribuzione del film nelle sale cinematografiche, dalle pellicole furono tagliate alcune determinate sequenze, esaudendo quindi anche i desideri di De Laurentiis. I brani tagliati non erano quelli critici col fascismo, ma quelli antimilitaristi, e questo a causa del clima politico del momento: per le manifestazioni appena recenti, il governo Tambroni si era dimesso per la dura reazione dell’opposizione e Fanfani, alla guida di un monocolore democristiano, non voleva certo surriscaldare ulteriormente gli animi.
In particolare Comencini, partecipando a queste proiezioni dedicate al suo film, si raccomandava che nella pellicola non fosse assente – come era avvenuto nelle copie distribuite il sala – la parte finale dell’ultima sequenza, a cui lui teneva molto. Il film originale finiva subito dopo che Alberto Sordi (il sottotenente Alberto Innocenzi) diceva «E no. No, no… non si può stare sempre a guardare…», impugnava un mitra e si metteva a sparare contro i tedeschi occupanti. In chiusura, prima della scritta “FINE”, sull’immagine finale di Napoli insorta appariva a tutto schermo la scritta: “Napoli, 28 settembre 1943”, data che è considerata l’inizio della Resistenza in Italia. Era molto importante questa scritta perché storicizzava il film, ma una mano ignota l’ha tolta dopo le prime visioni privando il film del suo significato profondo.
Concluderei ribadendo che la censura è un mostro con mille teste, una sorta di Idra di Lerna che gli autori italiani hanno combattuto con le loro molte e belle “teste pensanti”.
Fabrizio Natalini, La commedia all’italiana e la censura, ancora in (a cura di) Giovanni Spagnoletti e Antonio Valerio Spera, La commedia italiana: ieri, oggi, domani. Spunti per nuove riflessioni, Atti di convegno, 5-6 marzo 2015, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, UniversItalia, Roma, 2017

Nonostante gli attori di richiamo, il collegamento a una recente vicenda che aveva colpito l’opinione pubblica e dei valori di produzione relativamente sontuosi, “Roma ore 11″ fu comunque un insuccesso commerciale, che nella letteratura critica assume spesso i colori del complotto politico: mentre Farassino ignora completamente la questione, De Santis in un intervento successivo afferma che la censura democristiana, non avendo potuto tagliare il film perché inattaccabile, avesse tramato nell’ombra per impedirne l’invio ai festival <298. Inoltre, come riferisce Masi, «Sui giornali di destra il film era stato violentemente attaccato. Un vecchio studioso di cinema, di tendenze monarchiche, Alberto Consiglio, dalle pagine del quotidiano «Il tempo», accusò duramente il governo di aver partecipato al finanziamento di un film che – a suo dire – serviva alla propaganda sovietica in Italia.» (Masi: 1982, 66) <299.
[NOTE]
298 Come riferisce De Santis: «”Roma ore 11” fu smontato dal cinema Corso dove veniva proiettato con la scusa che non aveva realizzato il tot di incasso previsto. E questo non era vero perché il pubblico, a sala esaurita, assisteva alla proiezione persino in piedi e applaudiva a ogni finale. Ma evidentemente era sopraggiunta una telefonata ministeriale che aveva dato disposizione in questo senso, ossia la censura, non potendo intervenire direttamente, lo fece per vie traverse. Il film non fu selezionato per Cannes nonostante fosse il mio unico film che aveva trovato concordi nell’elogio tutti i critici, persino alcuni di destra. Roma ore 11 non solo non andò a Cannes ma subì persino un tentativo di non essere inviato neppure al festival di Locarno che seguiva a stretto giro di ruota.» (FALDINI – FOFI 1979, 223). Vitti (1996) si spinge fino ad attribuire il successivo declino del regista, che a partire dal successivo “Un marito
per Anna Zaccheo” (1953) è destinato a lavorare a produzioni sempre meno prestigiose, a una campagna organizzata da Mario Scelba e dal Sottosegretario allo spettacolo Giuseppe Ermini contro registi che avrebbero ricevuto finanziamenti dal PCI: «Dopo l’uscita di “Roma ore 11”, De Santis fu vittima di una nuova azione legislativa messa in pratica dal governo conservatore del Presidente del consiglio Mario Scelba (gennaio 1954-giugno 1955). Il film di De Santis divenne il fulcro di un dibattito e di un’inchiesta governativa volta ad accertare se il film di De Santis avesse ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica o se i suoi introiti avessero fornito supporto o finanziamenti a una qualsiasi attività collegata con il Partito Comunista Italiano (PCI). Nel gennaio 1954, il governo varò forti misure contro il finanziamento, la distribuzione o la concessione di prestiti a qualsiasi film, regista e produttore legato o anche solo
influenzato dal PCI. Il nome di De Santis appariva in cima alla lista nera distribuita dal governo ai produttori.» (Vitti 1996, 69 nota 8). È bene notare, tuttavia, che De Santis continuò comunque a lavorare ad un ritmo più che dignitoso (sei film nei successivi dodici anni), che si tratta di produzioni più che dignitose (Domenico Forges Davanzati per “Un marito per Anna Zaccheo”, 1953; la Excelsa Film per “Giorni d’amore”, 1954; di nuovo la Titanus per “Uomini e lupi”, 1957) realizzate da case che non sembrano aver temuto alcuna pressione governativa, e infine che in nessun luogo è stata possibile trovare una conferma alla tesi espressa da Vitti.
299 De Santis racconta così la stessa vicenda: «Alberto Consiglio dedicò al film un articolo di fondo sul «Messaggero» dove chiedeva al governo perché avesse contribuito con il sistema degli aiuti governativi all’opera di un comunista che, sicuramente, era stato finanziato anche da Mosca, chissà sotto quali mentite spoglie. L’ironia del caso volle che al posto dei capitali sovietici ci fossero invece quelli americani. Devo dire però che Lombardo si impegnò nel lancio e nella difesa di “Roma ore 11″» (BARLOZZETTI 1986, 32)
Francesco Di Chiara, I generi della Titanus: modi di produzione, attrazioni e passioni nella commedia e nel melodramma (1949-1963), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2009

Il decimo capitolo è dedicato invece alla problematica questione della censura, analizzata nella sua duplice accezione di censura amministrativa e di revisione cinematografica cattolica. Per quanto riguarda la censura amministrativa, verranno analizzate l’attività e le politiche censorie intraprese, rispettivamente, dalla Commissione di censura statale italiana e dalla Commission de contrôle des films francese. Riguardo invece alla seconda voce, verranno analizzate le principali linee operative di revisione cinematografica adottate rispettivamente dal Centro Cattolico Cinematografico italiano e dalla Centrale catholique du cinéma et de la radio francese. Verranno inoltre esposte le principali teorizzazioni sulla censura enunciate dai cattolici italiani e francesi.
Strettamente intrecciato al decimo capitolo risulta poi l’undicesimo capitolo, il quale ripercorre le fasi salienti del dibattito critico cattolico riguardante la concezione di osceno, tabù e pornografia. Il dibattito su questi ultimi punti nodali investe anche l’altrettanto cruciale aspetto relativo alla rappresentazione (o, meglio, rappresentabilità) cinematografica del male, o di tematiche alquanto delicate e “scottanti” quali la violenza e la morte.
[…] Come sostiene avvedutamente Franco Vigni, «la storia del cinema è purtroppo anche la storia di coloro che, tagliando tagliando, hanno tentato di reprimere le idee, offuscare la conoscenza e soffocare come peccaminosa la curiosità di conoscere, impedendo di vedere» <1.
A tal proposito, l’Italia può “vantare” una lunga e radicata tradizione censoria cinematografica, che, avviata negli anni Dieci <2, ha poi vissuto la propria stagione più intensa a partire dall’immediato secondo dopoguerra e fino alla fine degli anni Settanta.
[…] Ma, come già anticipato, è soprattutto nel secondo dopoguerra che il sistema censorio cinematografico vive un periodo di rinnovata e inusitata vitalità <4.
All’indomani della Liberazione, con il provvedimento legislativo del 5 ottobre 1945, si ha infatti quella che Mino Argentieri chiama enfaticamente «l’obbrobriosa riabilitazione del dinosauro censorio» <5.
C’è chi ha ravvisato nella censura “rediviva” del secondo dopoguerra un «trasformismo subdolo e vile» <6. In particolare, l’apparato censorio italiano – rifacendoci alle osservazioni di Gian Piero Brunetta – avrebbe abbandonato «le vesti civili e paramilitari del fascismo» <7 per reincarnarsi e indossare «le vesti talari del clero» <8, senza sostanziali modifiche metodologiche o ideologiche. Tanto che – stando ancora a Brunetta – «gli anni cinquanta appaiono come più bui, e in fondo più repressivi, rispetto agli anni del fascismo» <9.
Uno dei dati di fatto che salta maggiormente agli occhi nel panorama censorio italiano del dopoguerra è la macroscopica embricazione che si viene a creare tra la censura amministrativa dello Stato e il mondo cattolico. A ulteriore conferma di tale tendenza, va ricordato come un’ampia fetta del fronte cattolico italiano del dopoguerra – come ben evidenziato da Tomaso Subini – fosse appunto costituita dai cosiddetti «cattolici di governo» <10. I cattolici di tale gruppo – tra cui ricordiamo, quali rappresentanti più significativi, Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro, Floris Luigi Ammannati, e Gian Luigi Rondi – ricoprivano appunto cariche rilevanti all’interno delle istituzioni statali, trovandosi quindi a negoziare «la propria identità di cattolici con quella di uomini di Stato» <11.
Alla luce di tale doverosa puntualizzazione, non suona quindi affatto strano come la politica censoria portata avanti dal fronte cattolico italiano trovi l’appoggio concreto ed esplicito del governo in carica, impersonato esemplarmente da Giulio Andreotti, il quale sostiene direttamente e generosamente l’operato cattolico, mettendo in pratica ogni tecnica di controllo, di boicottaggio e di disturbo, assecondando la clericalizzazione della società e dello Stato italiani da parte della Chiesa. Uno degli esempi maggiormente emblematici sarà costituito dalla nota lettera aperta indirizzata nel febbraio del 1952 dallo stesso Andreotti a Vittorio De Sica in merito alla «questione Umberto D.» <12: lettera che suonerà a tutti gli effetti come una “scomunica” ai danni di tutti quei registi dissenzienti dalle direttive statali e, appunto, ecclesiastiche.
[NOTE]
1 Franco Vigni, Censura a largo spettro, in Luciano De Giusti (a cura di), Storia del cinema italiano, Volume VIII – 1949/1953, Marsilio – Edizioni di Bianco & Nero, Venezia – Roma, 2003, p. 64.
2 Cfr. Aldo Bernardini, Cinema muto italiano, III, Arte, divismo e mercato, 1910-1914, Laterza, Roma-Bari, 1980-1982, p. 211.
4 Cfr. Ernesto Guido Laura, La censura cinematografica. Idee, esperienze, documenti, Edizioni Bianco e Nero, Roma, 1961.
5 Mino Argentieri, Governo, Parlamento, Chiesa di fronte al cinema, in Callisto Cosulich (a cura di), Storia del cinema italiano, Volume VII – 1945/1948, Marsilio – Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma, 2003, p. 420.
6 Gian Piero Brunetta, La censura, in Id., Storia del cinema italiano. Dal neorealismo al miracolo economico. 1945-1959, Editori Riuniti, Roma, 1993, pp. 75.
7 Ivi, p. 76.
8 Ibiem.
9 Ivi, pp. 76-77.
10 Tomaso Subini, I cattolici e il neorealismo, intervento al convegno Intorno al Neorealismo. Voci, contesti, linguaggi e culture dell’Italia del dopoguerra, Università di Torino, 1-3 dicembre 2015, p. 1.
11 Ibidem.
12 Cfr. Giulio Andreotti, Piaghe sociali e necessità di redimersi, «Libertas», n. 7, 28 febbraio 1952.
Livio Lepratto, Le due vie cattoliche al cinema. Metodologie e itinerari critici tra Francia e Italia dal 1945 al 1975, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2017

Il fenomeno del recupero e della rivalutazione del B-Movie si è, perciò, via via globalizzato, poiché già in America, la libera circolazione delle videocassette e successivamente dei dvd ha permesso in parallelo la proliferazione dei cosiddetti unrated film, privi di classificazioni censorie e tesi costantemente a promuovere le produzioni low-budget <1. Non è quindi un caso che anche il cinema di genere italiano abbia potuto circolare a livello mondiale attraverso l‟ home video creando il fenomeno delle versioni multiple, restauri, aggiunte di scene censurate o veri e propri re-editing di copie integrali perdute. Anche Venturini sottolinea che “Il passaggio prima al video analogico e poi al digitale ha permesso una circolazione inedita di film fino a non molto tempo addietro introvabili, e ha dato vita a importanti iniziative editoriali, corredate dalla pubblicazione di titoli altrimenti poco circolati, rimanisti inediti e incompiuti” <2.
[…] Sia “Una sull’altra” che “Una lucertola dalla pelle di donna” vedono la produzione di Edmondo Amati e potevano essere idealmente parte di una trilogia mai conclusa, al cui centro stavano innanzitutto uno spirito volutamente scandalistico che voleva avere un’ aspirazione di critica sociale. I personaggi dei due hippy ne “La lucertola”, in effetti, rappresentano al meglio questa società alternativa al perbenismo borghese, che Fulci vorrebbe ben fustigare. In particolare “Una lucertola con la pelle di donna” narra una vicenda familiare fatta di ipocrisie, dove tutto ciò che deve essere scoperto è già alla luce del sole fin dal principio.
Instillando dubbi e portando lo spettatore dentro un vortice di incertezze e di false apparenze, Fulci, insieme agli sceneggiatori Roberto Gianviti, José Luis Martinez Molla e André Tranché, costruisce bene un materiale narrativo per depistare e allungare i tempi corroborandolo con scene assai iperviolente e scabrose che hanno provocato reazioni nella commissione censura dei tempi <3.
[NOTE]
1 Cfr. S. Baschiera, The 1980s Italian Horror Cinema of Imitation, p. 54
2 Cfr. S. Venturini, Horror italiano, p. 21
3 La VI Commissione Censura di revisione cinematografica appone al film un divieto ai minori di 18 anni con numerosi tagli relativi a scene di amore saffico, dettagli splatter e a una scena in compaiono dei cani vivisezionati per un totale di 5,95 m. E’ comunque interessante notare che l’ultima revisione censura del 1995, pur conservando gli stessi tagli, non prescrive alcun limite d’età al film, a dimostrazione di un’evoluzione in termini culturali della società. Cfr. www. Italiataglia.it
Guido Carlo Colletti, La figura femminile nel fantastico italiano, Tesi di dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano, Anno Accademico 2017/2018