Nuto Revelli nel corso degli anni Sessanta e Settanta intervistò 270 testimoni di quel mondo che si avviava a scomparire per sempre

Nuto Revelli è stato un figlio singolare del Cuneese nella cui produzione si può leggere il portato del suo percorso biografico. Classe 1919, geometra che non esercitò mai la professione, da baldanzoso e ingenuo ufficiale degli alpini aveva vissuto la tragedia della ritirata di Russa che lo condusse a un irriducibile antifascismo. Tanto che, tornato in Italia, subito dopo l’8 settembre 1943, fu tra i primi a compiere la scelta partigiana raggiungendo Paraloup, borgata abbarbicata su un erto costone della valle Stura.
Nel dopoguerra, tornato alla vita civile, si dedicò al commercio di ferramenta, senza mai dimenticare la stagione partigiana e i valori di giustizia e libertà che l’avevano ispirata. «Non ci si dimette da partigiani – amava dire Ugo Cerrato, amico fraterno di Beppe Fenoglio -, si è partigiani come si è sacerdoti, in aeternum». E infatti, mutate le condizioni generali, mutarono anche le forme dell’impegno resistenziale di Nuto Revelli. Alle armi si sostituirono le parole e, scelta assai significativa, le parole degli altri più delle proprie. Si fece storico di coloro cui era sempre stato negato il diritto alla storia.
Diventò un eccellente «storico della domenica», per dirla con la felice e talvolta fraintesa espressione di Philippe Ariès <335, diventò cioè uno di quegli intellettuali che, lontano dagli ambienti accademici, onorata la settimana lavorativa, dedicano il tempo restante a una ricerca cui consacrano le loro migliori capacità intellettuali.
A un certo punto della sua vita, fattosi «storico della domenica», Revelli nel tempo libero cominciò a percorrere in lungo e in largo il Cuneese per raccogliere le testimonianze dei “vinti”, cioè dei contadini poveri della montagna, della collina e della pianura che una malintesa modernità stava annientando. Erano gli anni dello spopolamento montano e collinare e dell’abbandono dei campi a favore della città e della fabbrica. Coloro che rifiutarono quella pretesa modernità, coloro che non vollero lasciare borgate ormai disabitate e campi poco produttivi, coloro che caparbiamente restarono fedeli alla terra e a loro stessi, furono spazzati via, furono sconfitti, “vinti”, appunto.
Nuto Revelli diede la parola a costoro, che definiva «sopravvissuti al grande genocidio», diede dignità intellettuale a un mondo che sino ad allora nessuno aveva voluto ascoltare né, tanto meno, fatto parlare. Finalmente fu data la parola a volti bruciati dal sole, a mani deformate dalla fatica, a schiene piegate dal lavoro della terra, «che è sempre stata bassa».
Introdotto da un mediatore e portando con sé un gigantesco registratore giapponese, il famoso Geloso, Nuto Revelli nel corso degli anni Sessanta e Settanta intervistò 270 testimoni di quel mondo che si avviava a scomparire per sempre. Molti di loro era langhetti, gente di Borgomale o Murazzano, di Bergolo o Prunetto, gente che aveva vissuto e ancora viveva una esistenza di stenti, quella “malora” che Beppe Fenoglio aveva efficacemente trasposto sul piano letterario. Parte di quelle 270 interviste confluirono nel volume “Il mondo dei vinti” che nel 1977 compariva nelle librerie italiane.
«Non è facile entrare nelle case contadine – scrive Nuto Revelli nella prefazione -, non è facile inchiodare un contadino a un tavolo per ore e ore. Senza una rete efficiente di “basisti” e di “mediatori” non si entra nelle case contadine. Il “mediatore” propone l’incontro e presenzia alle interviste: rompe il ghiaccio, sgela l’interlocutore, lo invita a parlare disinvolto, “in famiglia”. […] Il dialetto è un lasciapassare indispensabile, chi non parla piemontese è straniero. In tutte le case il bicchiere di vino è d’obbligo, così i dialoghi appena avviati regolarmente si interrompono e incomincia il rito del vino fatto in casa, del “vino di uva, speciale, del nostro” […]. Non pochi incontri sono vere e proprie veglie, con le famiglie raccolte, con i vicini di casa che ascoltano: con i nipoti che si elettrizzano ma poi ciondolano, dormono […]. Arrivare al momento giusto è una delle regole del gioco. L’inverno è la stagione più adatta, nelle altre stagioni anche i novantenni lavorano […]» <336.
E, soffermandosi brevemente, sulle modalità con cui interagiva con i suoi interlocutori, precisava che «i racconti-testimonianza dovrebbero procedere lungo un binario fisso, dovrebbero seguire un filo cronologico. Ma non è la regola che conta. Si parte da lontano con i ricordi dell’infanzia, della vita famigliare e comunitaria di allora: si supera così il rodaggio, si spiana così il terreno per il decollo. È in questa prima fase che alcuni dei testimoni inseriscono le storie delle guerre, le storie raccontate dai padri o dai nonni. Poi i temi di fondo, il lavoro, l’emigrazione, la “grande guerra”, l’avvento del fascismo nelle campagne, il ventennio, la seconda guerra mondiale, la lotta partigiana, il dopo Liberazione, il mondo contadino di ieri e di oggi. Propongo i temi e lascio che il discorso si apra, si snodi. Non interrompo mai l’interlocutore e dimostro interesse anche quando esce dal seminato, quando salta di palo in frasca, quando ripete cose già dette. Non pretendo né sintesi né risposte nette. Ascolto per imparare, ascolto tutto, anche le cose che non rientrano nei confini della mia ricerca. […] Soltanto con l’interlocutore che intenzionalmente rifiuta il discorso o mi racconta delle frottole insisto, provoco […]. Il magnetofono non disturba, non distrae, non intimidisce il testimone. A volte lo responsabilizza. Per alcuni dei testimoni più vecchi il magnetofono è una scatola qualunque, per quasi tutti i testimoni è “la scatola che ascolta e scrive tutto”» <337.
Così lavorava Nuto Revelli. Con una metodologia che, sia detto senza amor di paradosso, rifiutava la metodologia. O meglio ne plasmava una informale e funzionale, lesta e presta, che servì ottimamente allo scopo. D’altra parte egli stesso, ritraendosi di fronte a domande che miravano a indagare e sistematizzare il suo modus operandi, sbrigativamente affermava: «Io sono un ex geometra, che non ha mai fatto il geometra; un ex commerciante, che ha venduto ferro a Cuneo per 32 anni; e i miei libri li ho scritti facendo il commerciante. Io sono un ricercatore autodidatta, tutto quello che sono è questo. Ho letto qualche libro di storia ma i miei limiti sono questi. […] Io non voglio essere né uno storico né un antropologo, né un sociologo. Io voglio essere quello che sono, con i miei limiti» <338.
Se “Il mondo dei vinti” rappresentò una novità dirompente nell’universo sempre ribollente dei cultori della oralità non meno significative erano state alcune opere precedenti (“La strada del Davai” e “L’ultimo fronte”, rispettivamente del 1966 e del 1971) <339, come del resto lo saranno quelle seguenti.
Tra queste ultime <340 una citazione particolare merita “L’anello forte. La donna: storie di vita contadina” (1985) <341. Tale opera, costruita attingendo a 260 interviste raccolte nell’arco di 8 anni, mise in luce un aspetto sino ad allora poco o per nulla indagato: la vita, affatto semplice, delle giovani donne meridionali, essenzialmente calabresi e campane, che, maritate con contadini cuneesi, magari tramite la mediazione dei bacialé, si erano trasferite nella Granda. Un riscatto per alcune di loro, un trauma per la grande maggioranza.
In definitiva, a detta di Martini e Contini, quella di Revelli fu «un’esperienza un po’ isolata […], erede della tradizione di Scotellaro <342, di Dolci ma anche ricca di originalità e di implicazioni metodologiche sul modo di condurre la ricerca e sui rapporti coi testimoni: un aspetto che troppo spesso resta in ombra e che non consente di mettere a fuoco il valore formale e informativo delle testimonianze» <343.
[NOTE]
335 Philippe Ariès, Uno storico della domenica, Edipuglia, Bari 1993.
336 Nuto Revelli, Il mondo dei vinti, op. cit., pp. 29-30.
337 Ivi, pp. 33-34.
338 Daniele Borioli, Roberto Botta (a cura di), Il lavoro della memoria. Intervista a Nuto Revelli, in “Quaderno di storia contemporanea”, Alessandria, n. 1, 1987, pp. 15-19. Si vedano inoltre Nuto Revelli, Esperienze di ricerca nel mondo contadino, in A.a. V.v., L’intervista strumento di documentazione. Giornalismo, antropologia, storia orale. Atti del Convegno, Roma, 5-7 maggio 1986, op. cit.; Roberta Baù, Nel laboratorio di Nuto Revelli. Le inchieste di uno scrittore, tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2009-2010.
339 Revelli nel 1960 comincia a trascrivere le testimonianze di decine di soldati che, come lui, avevo conosciuto il dramma del fronte russo nella seconda guerra mondiale, 40 di queste interviste confluiscono ne La strada del Davai (Einaudi, Torino 1966). A metà degli anni Sessanta Revelli riesce fortunosamente ad acquistare – e dunque salvare da distruzione certa – circa 10 mila lettere di soldati caduti e dispersi che il Ministero della Difesa, non sapendo che farsene, aveva ceduto a uno straccivendolo. Dalla disamina di questo materiale nasce L’ultimo fronte (Einaudi, Torino 1971).
340 Tra gli ultimi lavori di Revelli spicca Il disperso di Marburg (Einaudi, Torino 1994), opera che, senza volerlo, si impone come un rigoroso saggio di metodo sull’uso parallelo di fonti d’archivio e di fonti orali che, per arricchimento ed elisione vicendevole, concorrono ad avvicinarsi alla verità. Nello specifico le fonti nei due registri classici, scritte e orali, consentono di dare un nome e un volto ad un ufficiale tedesco ucciso dai partigiani, figura e vicenda di cui a lungo si era parlato senza però mai giungere a punti fermi.
341 Nuto Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1985.
342 Rocco Scotellaro, Contadini del Sud, Laterza, Bari 1954.
343 Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, op. cit., pp. 95-96.
Fabio Bailo, Granai della Memoria, ricerca sui saperi tradizionali orali e gestuali, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, 2014